Il pericoloso linguaggio dei giovani fatto di emoticon e di slang che a volte da una chat, li trascina nel baratro – La serie Tv Adolescence

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La visione è a tratti claustrofobica, sia per come è girata sia per i contenuti trattati. Un lungo piano sequenza, che non stacca mai la ripresa, che ti porta lì, dentro luoghi e stati d’animo, che ti fa temere le conseguenze di parole, ma anche di silenzi. E poi la fotografia, cupa, sempre in penombra, dove i colori non hanno mai contorni netti; appaiono sempre sbiaditi, come la speranza che qualcosa di buono – in tutto quel marasma di orrore – possa ancora accadere.

Una serie destinata a far parlare (e discutere, speriamo) ancora a lungo.

Una valanga di domande che ci si pone, perché la famiglia raccontata nella serie potrebbe essere quella di ognuno di noi, e Jamie, il protagonista adolescente, potrebbe essere nostro figlio, nostro nipote, un nostro alunno.

Dove sbagliamo?
Dove abbiamo sbagliato?
Esiste una possibile inversione di rotta?
Siamo un po’ alla deriva, tocca ammetterlo; al netto della visione della serie che ci mette tutto sotto gli occhi, anche quello che a volte abbiamo paura di vedere.

La violenza (in tutte le sue accezioni) domina il mondo della comunicazione, che ha altrettanto accezioni. Esiste un nuovo e pericoloso linguaggio dei giovani fatto di slang, di emoticon, di frasi fatte da tirare fuori all’occorrenza, soprattutto quando si finisce per far parte di un mondo che è sommerso; una sorta di pozzo profondo nel quale finiscono i giovani e dal quale a volte non riescono più a venir fuori. Soprattutto perché non sanno come chiedere aiuto.  

I genitori non sanno quasi mai nulla.
Non sappiamo più nulla.
Eppure il cambio repentino della vita di tutti, in una famiglia, avviene quando un evento inatteso (di cui tutti sono colpevoli) stravolge l’esistenza. Un gesto compiuto, una verità scomoda, una colpa, tanti colpevoli.

Nella serie, una famiglia viene sconvolta nella notte dall’irruzione della polizia che arresta il proprio figlio 13enne per l’omicidio di una coetanea.

Che è colpevole lo sappiamo tutti sin dalle prime scene, ma non ci crediamo fino agli ultimi 10 min della 4° ed ultima puntata. Non ci crediamo perché quel ragazzino potrebbe essere nostro figlio, perché quello a cui viene sottoposto dopo l’arresto, lo viviamo come se lo stessero facendo a nostro figlio. Una forma di difesa personale, prima ancora che una difesa di un soggetto che appare fragile perché piccolo, ma che è capace di gesti estremi e terribili.

La serie ci sconvolge e ci desta.

Ci mette nella condizione di alzare lo sguardo e di guardare da vicino quel mondo che esiste, che vive e pulsa nei telefoni e nei computer dei nostri ragazzi, nei quali c’è tutto, tanto, troppo, oltre dei semplici numeri di telefono.
E così proprio all’interno della cultura incel e nella manosfera, si consuma il gesto delittuoso di Jamie, che per tutto il tempo, si dichiara innocente, come se quello da lui commesso fosse una conseguenza logica di una illogica condizione subita. Un senso di rifiuto, un bullismo umiliante ed anche intollerante, che nella mente di un adolescente diventa dolore negato e poi esploso.

Incel, manosfera, nuovi termini che nascondono un mondo sommerso dominato dalla violenza, dall’odio, dalla misoginia.

Sentirsi rifiutati, sentire di appartenere a quel mondo nel quale le donne scelgono solo una parte dell’universo maschile, costringendo alcuni soggetti a restare celibi per scelta altrui. E così gli incel si aggregano in spazi virtuali (proprio la manosfera) e da questo mondo sommerso, talvolta si arriva a violenza di genere e questa violenza esplode senza avvisaglie, mentre la normale vita di una famiglia media, che cerca di educare e sostenere i propri figli, è ignara di tutto.

La scuola, i genitori, gli amici e la rete, quella quarta dimensione che sta crescendo esponenzialmente nella mente e nella vita dei giovani, e sta prendendo il posto di quel sistema affettivo ed educativo che dovrebbe invece regolarne i pensieri, i sentimenti e le scelte.

Ci sono delle responsabilità che vanno recuperate.
La scuola ha perso potere e i giovani nella serie appaiono come degli animali chiusi in un recinto che scalciano per uscire.

Cosa imparano qui dentro? – si chiede una delle poliziotte che si occupano del caso di omicidio.

Il mondo dei telefoni e dei computer, il pozzo profondo delle chat, la pericolosità delle influenze che sono lontane dalla bellezza che i ragazzi meritano.

Le sfide belle che aspettano i giovani sono tante e vanno preservate.

Parlare, chiedere aiuto, dire la verità sono passaggi difficilissimi, ancor più nell’adolescenza, ma resta l’unica via di uscita. E gli adulti devono prendere coscienza che nei telefonini dei nostri giovani c’è tutt’altro che soli numeri di telefono. Oggi con un maledetto telefono ci si può proiettare verso la distruzione, verso una dimensione che annienta, che fa apparire tutto come “normale”, ma che è lontanissimo dalla normalità intesa non come codice di consuetudine e prassi, ma come preservazione di ciò che si è.

Nella serie tutti sono alla ricerca di un movente. Perché?
In quel piccolo e potente interrogativo, ci sono innumerevoli sfumature del vivere e del “sentire”.

È giusto accendere un dibattito; ed è questo il senso della serie che non è un capolavoro a mio avviso, come invece viene definita da molti, ma una opportunità ben scritta, che mette a fuoco il ruolo genitoriale.

L’ultima puntata è infatti uno spaccato della fragilità dell’essere umano che si trova a fare il genitore in quel limbo nel quale combatti tra il dolore e il senso di colpa, dal voler trovare una spiegazione ad una claudicante quanto necessaria assoluzione. Un’assoluzione, che genitori e figlio (protagonisti della serie) provano a vestire.

Ho fatto diversamente di come faceva mio padre con me – dice il padre del protagonista. Lui mi picchiava, io quando Jamie mi ha chiesto un computer gliel’ho comprato, mai pensando che potesse accadere tutto questo, in fondo era a casa, cosa poteva mai succedere stando a casa?

Eppure i sensi di colpa fanno sempre capolino, come nella vita di ogni genitore. A volte li vorremmo realizzati ma con le nostre aspettative, non con le loro reali attitudini. Anche il padre di Jamie si condanna: la box, il calcio … ma lui non era portato per l’arte e aveva la vena artistica per il disegno.

Un reale e affilato spaccato di realtà che lascia una piccola ferita nell’animo di tutti, forse pronti a ridimensionare i rapporti, le responsabilità e il dialogo, mantenendo invariato l’amore e l’empatia che dovrebbe sempre animare il vivere con i nostri ragazzi.

Ho apprezzato molto nella serie anche il ruolo della psicologa. Lei sa tutto. Non le interessano i dettagli del gesto (infatti nella serie non vengono mai sottolineati) ma cosa abita il giovane. Le sue emozioni e le sue frustrazioni. Perché quelle esistono anche negli adolescenti che fanno i conti con qualcosa di più grande, di inaccettabile. Lei lo coccola, gli porta ciò gli piace, gli lascia creder di subire il suo modo di fare, e poi lo interroga senza colpevolizzarlo. Le colpe sono lì, sotto gli occhi di tutti, la consapevolezza invece no.

E allora da quella si deve ripartire.
La serie Adolescence ce la racconta.
Tocca a tutti, ora, vestirla senza paura.

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