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“Sapevo che poteva finire così” 

Queste le parole di Alessia Pifferi, la donna milanese di 36 anni che una settimana fa ha deciso di raggiungere il compagno che vive in provincia di Bergamo e ha lasciato da sola sua figlia Diana, nata il 29 gennaio del 2021.
La piccola è stata trovata morta mercoledì mattina, al rientro della mamma a casa, che è stata poi fermata con l’accuso di omicidio volontario aggravata dalla premeditazione e dai futili motivi.

La piccolina era in un lettino da campeggio, vicino a lei c’erano un biberon ed una boccetta mezza piena di benzodiazepine. Fuori dalla finestra dell’appartamento dove la piccola è stata trovata morta, ci sono i suoi vestitini ancora appesi messi lì ad asciugare.

La donna ha dichiarato di non sapere neanche chi sia il padre di sua figlia, di essersi accorta di essere incinta solo al settimo mese. Sembrerebbe non avere problemi di droga, ma si accerteranno eventuali problematiche psichiche.

Ci si domanda però come sia possibile che in questi 18 mesi, da quando è nata questa bambina, nessuno si sia domandato se questa donna fosse in grado di fare la madre. Aiuti esterni, parenti, amici, assistenti sociali.
Non si sa ancora come si mantenesse, questa donna e dunque neanche si sa come abbia fatto vivere sua figlia in questo breve periodo di vita.

Si sa solo che fino a qualche anno fa con lei viveva sua madre, che poi ha lasciato la Lombardia e che sullo stesso pianerottolo, vive ancora il suo ex marito, dal quale si era separata circa 3 anni fa.

Chissà che agonia quella piccola creatura lasciata sola per 6 lunghi giorni, senza nessuno che la nutrisse, la cambiasse, la confortasse. Perché a 18 mesi sei piccola ed indifesa, ed hai anche la percezione del vuoto, quando chiami “mamma” e nessuno ti risponde. Un dolore immenso per questa morte, da parte anche della comunità del quartiere che ha appeso dei palloncini bianchi al cancello dell’abitazione.

Un problema sempre più ricorrente, quello in cui piccole vittime soccombono per mano dei propri genitori, che probabilmente vengono lasciati soli nella gestione di una genitorialità difficile da concepire e da espletare. Adesso si attendono i risultati dell’autopsia, dei rilievi del caso. Ed intanto un’altra tragedia si è consumata.

Angelo Incardona ha sparato in tutto 15 colpi, con la sua Beretta 92 FS con matricola abrasa. Tre o quattro sono stati sono stati esplosi a casa dei suoi genitori: Giuseppe Incardona 65 anni e Maria Ingiamo 60 anni, ferendoli solo di striscio. Il resto dei colpi, quasi tutti a raffica, li ha esplosi contro la vittima: Lillo Saito di 66 anni, imprenditore e socio della “Gelati Gattopardo”, mentre era seduto dentro la sua autovettura una Chrevrolet Captiva stazionata in piazza Provenzani a Palma di Montechiaro.

La salma del defunto, già da ieri, è stata trasportata all’ospedale San Giovanni di Dio di Agrigento a disposizione dell’autorità giudiziaria, che ha già disposta l’autopsia.

Dopo gli assalti, Incardona, viene dissuaso dalla moglie a costituirsi alle forze dell’ordine. Sarà lei ad accompagnarlo al comando provinciale dei Carabinieri di Agrigento.

Angelo Incardona, ha dichiarato, durante l’interrogatorio condotto, nella serata di ieri,  dal Procuratore Dott. Luigi Patronaggio e dal Sostituto Procuratore Dott.ssa Maria Barbara Cifalinó, insieme al Comandante Provinciale dei Carabinieri Colonnello Vittorio Stingo e al Comandante del Nucleo Investigativo Maggiore Luigi Balestra, di aver ucciso, dopo aver lasciato la casa dei genitori, tale Lillo Saito. Ha parlato, anche di una faida legata a dinamiche interne ai “paracchi” (organizzazione criminale paramafiosa) di Palma di Montechiaro; quest’ultima dichiarazione sarebbe apparsa, a inquirenti e investigatori, assai confusa e intricata. Una storia, quella raccontata da Incardona, tutta da verificare e decifrare.

Il fascicolo d’inchiesta sull’omicidio e il duplice tentato omicidio resta, almeno per il momento, alla Procura di Agrigento. Se dovesse essere confermata la matrice mafiosa del gesto, l’inchiesta dovrà essere trasferita alla Dda di Palermo.

Il delitto di ferragosto, così è stata ribattezzata l’uccisione di Salvatore Lupo all’interno dell’American Snack Bar nella centralissima via IV Novembre a Favara, parrebbe essere arrivato a un punto di svolta.

Le indagini svolte dai Carabinieri, le immagini degli impianti video della zona  e  gli accertamenti tecnici del RIS di Messina hanno chiuso il quadro indiziario.

Per i sostituti Chiara Bisso e Paola Vetro, coordinati dal procuratore capo, Luigi Patronaggio della Procura della Repubblica di Agrigento ad uccidere Salvatore Lupo sarebbe stato Giuseppe Barba (66 anni), ex  suocero e padre di Maria, detta Giusi di cui Salvatore Lupo era separato.

Secondo le immagini acquisite e la ricostruzione degli inquirenti, l’auto di Barba, una Fiat Panda, è stata immortalata sul luogo e nel momento del delitto. Dalle riprese si vede scendere un soggetto da un’autovettura che si era fermata davanti al locale, persone che uscivano di fretta come se scappassero  e poi la risalita in auto del soggetto e la ripartenza dell’autovettura.

Il riscontro piu’ importante è arrivato dalle prove scientifiche del RIS di Messina:  “sono state trovate  tracce importanti di polvere da sparo sul volante dell’autovettura, sul sedile e sulla leva del cambio, di Giuseppe Barba.

I militari dell’Arma, sin da subito avevano seguito la pista dei “dissidi familiari”, ma era solo una supposizione, mancavano gli  elementi di prova oggi riscontrati.

Il movente del delitto sarebbe legato e pregressi contrasti economici e violenti diverbi insorti dopo la separazione tra il Lupo e la moglie, figlia di Giuseppe Barba. Da lì il desiderio di vendetta.

Un altro elemento che non fu sottovalutato dagli inquirenti è la testimonianza del figlio di Lupo, nipote di Barba: in passato aveva mostrato di avere una pistola (ndr una pistola calibro 38, detenuta illegalmente), solo lui lo poteva uccidere.

Tutti questi elementi hanno portato al fermo del 66enne favarese, Giuseppe Barba. Il pericolo di fuga ha giustificato il fermo di oggi – nella sua cassaforte sono stati rinvenuti  grossi quantitativi di denaro per un eventuale fuga. Il favarese può vantare numerose conoscenze e possibilità di trovare rifugio all’estero.

 

 

 

 

 

 

di Bruno Cassaro

Dalle prime indiscrezioni un killer a volto scoperto ha ucciso con tre colpi di pistola alla testa, il 45enne, Salvatore Lupo freddato all’interno dell’American Snack Bar di Favara in via IV Novembre, alla presenza del barista dell’esercizio commerciale. L’omicidio è avvenuto nel pomeriggio del 15 agosto in una città svuotata per il ferragosto.

Il killer, secondo le prime notizie, ha esploso tre colpi tutti andati a segno.

L’ipotesi del movente dell’efferato omicidio, non sarebbe quello della criminalità organizzata, ma parrebbe essere legato a dissidi economici familiari, legati alla recente separazione dalla moglie e la conseguente divisione di quote societarie che, a quanto si apprende, erano sfociate in vere e proprie manifestazioni di intolleranza in ambito familiare.

Sul luogo dell’agguato erano presenti i pubblici ministeri Maria Barbara Cifalinò e Paola Vetro, coordinati dal procuratore Luigi Patronaggio e dall’aggiunto Salvatore Vella. I militari dell’arma hanno proceduto alla perquisizione di alcune abitazioni e hanno messo al vaglio le immagini dei sistemi di videosorveglianza della zona.

Dalla testimonianza del barista non sarebbero arrivati elementi utili all’identificazione del sicario.

Gli inquirenti potrebbero dare ben presto la svolta alle indagini con la cattura dell’assassino.

Duro colpo alla ‘ndrangheta. Oltre 300 gli arresti tra capi, gregari, affiliati e uomini a disposizione del clan Mancuso di Limbadi, nel vibonese. Gli arresti sono stati effettuati dai Carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Vibo Valentia, su richiesta della Procura Antimafia di Catanzaro diretta da Nicola Gratteri. In 260 sono finiti in carcere, altri 70 ai domiciliari con l’accusa di associazione mafiosa, omicidio, estorsione, usura, riciclaggio, fittizia intestazione di beni, tutti reati con l’aggravante del metodo mafioso. 

Un maxiblitz ancora in corso, vede anche altre 82 persone sotto inchiesta tra cui anche politici, imprenditori, avvocati, commercialisti, funzionari dello Stato e massoni. Tra loro anche l’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli. In manette sono finiti anche il sindaco di Vibo Pizzo e presidente regionale dell’Anci, Gianluca Callipo, (omonimo ma non relazionato al candidato del centrosinistra per le regionali), il comandante della polizia municipale di Vibo Valentia Filippo NesciDanilo Tripodi, impiegato del Tribunale di Vibo Valentia, più una serie di professionisti.

Contestualmente all’ordinanza di custodia cautelare e su richiesta della DDA di Catanzaro, i carabinieri hanno sequestrato beni per un valore di circa 15 milioni di euro. L’imponente operazione, è frutto di indagini durate anni,  e oltre alla Calabria interessa varie regioni d’Italia, da nord a sud, dove la ‘ndrangheta vibonese si è ramificata, sembra che nessuna regione sia rimasta fuori: Lombardia, Piemonte, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia, Puglia, Campania e Basilicata. Alcuni indagati sono stati localizzati e arrestati anche in Germania, Svizzera e Bulgaria in collaborazione con le locali forze di Polizia e in esecuzione di un mandato di arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria di Catanzaro. Nell’operazione sono impegnati 2500 carabinieri del Ros e dei Comandi provinciali che in queste ore stanno lavorando sul territorio nazionale supportati anche da unità del Gis, del Reggimento Paracadutisti, degli Squadroni Eliportati Cacciatori, dei reparti mobili, da mezzi aerei e unità cinofile.

Travolti dall’inchiesta “Rinascita- Scott” anche boss di storici casati di ‘ndrangheta. Fra loro c’è anche il patriarca Luigi Mancuso, fin dagli anni Novanta autorizzato a parlare in nome e per conto dell’élite della famiglie calabresi.

“Questa è un’indagine seria, concreta, fondata – dice il procuratore Nicola Gratteri che ha seguito da vicino le operazioni di questa notte – ho iniziato a lavorarci dal primo giorno in cui ho messo piede a Catanzaro”. L’inchiesta ha permesso di far emergere i rapporti dei clan con personaggi del mondo politico e dell’imprenditoria, ma ha permesso anche di documentare summit, riunioni e incontri fra boss e affiliati.

Un’ordinanza di custodia cautelare lunga 13500 pagine, con la quale la procura antimafia di Catanzaro ha ricostruito tutta la storia criminale dell’ndrangheta vibonese, nonché i rapporti, le relazioni e gli affari.

 

Ritrovato nelle prime ore di questo pomeriggio nelle acque del porto di Schiavonea (CS)  un Fiat Fiorino che al suo interno custodiva un revolver. Il mezzo è stato recuperato grazie all’intervento degli uomini del nucleo sommozzatori dell’Arma dei Carabinieri

Sembrerebbe un evento poco allarmante se non fosse che segue di pochissimi giorni al ritrovamento nella stessa area marina, di un corpo in avanzato stato di decomposizione, appartenente ad un uomo sulla cinquantina attinto da 3 colpi di arma da fuoco che potrebbe essere quello del Boss coriglianese Pietro Longobucco, scomparso proprio giorni prima del rinvenimento del cadavere.

Quel che contribuisce ad infittire il mistero è la scomparsa del proprietario dello stesso fiorino, che ne aveva denunciato il furto solo pochi giorni prima del rinvenimento del cadavere e che a tutt’oggi risulta ancora irreperibile.

Se dunque gli inquirenti sospettano che si tratti di un presunto omicidio di ‘ndrangheta, considerate le peculiarità del delitto, si infittisce ancora di più il caso della scomparsa del proprietario del furgone.

La scomparsa del proprietario del furgone ha dunque a che vedere con il ritrovamento del corpo e del furgone?

E se si confermasse la mano dell’ndrangheta della piana ionica cosentina negli eventi accorsi, ci sarebbe da chiedersi cosa stia accadendo o meglio, cosa sia accaduto negli equilibri malavitosi della zona.

Resta dunque alla magistratura e agli inquirenti vagliare questa o altra ipotesi per ricostruire il complesso intreccio di eventi, susseguitesi in così breve tempo, e per altro in una ristretta area geografica.

Simona Stammelluti 

 

 

Morire a 22 anni, senza un perché. Questa è la storia di Sara Di Pietrantonio, la ragazza morta semicarbonizzata, all’alba di sabato mattina, per mano del suo ex fidanzato, tra l’indifferenza di automobilisti che non le hanno prestato attenzione

Poco più che una bambina, iscritta alla facoltà di economia dell’Università di Roma tre, aveva una vita da vivere, ed un nuovo fidanzato. Cosa da ragazze della sua età, che si trasformano in esperienza, in percorsi di vita, in scelte consapevoli.
Eppure il percorso di vita di Sara, era già stato minato da tempo,  vittima di quello “stalking” che il suo ex fidanzato, Vincenzo Paduano, le perpetuava da quando la loro relazione – durata poco meno di due anni – era giunta al termine, eppure lui non accettava che lei avesse intrapreso una nuova conoscenza con un altro ragazzo. C’era stato anche un episodio di violenza, che però la ragazza non aveva denunciato. Questo è quanto emerge dai racconti delle amiche di Sara.
Lui, Vincenzo Paduano, 27 anni, guardia giurata, che alla fine ha ammesso il delitto, quello consumato sabato notte, alle prime luci dell’alba, dopo aver seguito la ragazza, che rientrava da una serata con un’amica e quel nuovo ragazzo che stava frequentando. L’ha speronata, costretta a fermasi, aggredita, e poi uccisa.
Sembra che l’uomo controllasse gli spostamenti della giovane donna, attraverso un’applicazione installata sul telefono della ragazza. Grazie a quella, l’uomo quella sera seppe dove fosse Sara, e pertanto gli fu semplice attenderla lungo il tragitto che la riportava a casa.
Paduano aveva con se una bottiglia di alcool – simbolo questo della premeditazione – e dopo la lite, ha cosparso la macchina del materiale infiammabile e vi ha dato fuoco.
La giovane donna è scappata, ma poi è stata raggiunta dall’uomo che l’ha aggredita, forse strangolata (i dettagli si conosceranno oggi dopo l’autopsia) e poi le ha dato fuoco.
La cosa orrenda, è che Sara prima di essere raggiunta dal suo carnefice, ha incrociato su Via della Magliana, almeno due autovetture, che però sono rimaste indifferenti alla richiesta di aiuto della ragazza. Le telecamere situate in loco, hanno non solo ripreso la scena, ma hanno permesso di rintracciare i veicoli transitati sul luogo, i cui conducenti hanno affermato di non essersi accorti che la ragazza avesse bisogno di aiuto.
Eppure erano le 4 del mattino, su una strada poco trafficata a quell’ora e una ragazza che corre e urla, non costituisce certo una scena “normale”, o degna di indifferenza.
E’ stato il procuratore aggiunto di Roma, Maria Monteleone a dichiarare con perentorietà: “Chi incontra una ragazza in difficoltà, non deve girarsi dall’altra parte,  e che questa morte non sia inutile. Due passanti non si sono fermati, e se Sara invece fosse stata soccorsa, se si fosse chiesto aiuto forse sarebbe ancora viva”.
E se si pensa con quanto facilità si chiamano Polizia e Carabinieri per un banale incidente, allora viene da chiedersi se davvero quella di sabato notte, non sia stata una indifferenza “crudele”, per la serie “faccio finta di non vedere, tanto non tocca a me”.
Sara aveva mandato verso le 3 un messaggio alla sua mamma, dicendole che stava facendo rientro a casa, ma a casa purtroppo, non è riuscita a fare rientro. Erano le 5 infatti, quando il suo corpo è stato ritrovato semicarbonizzato.
Vincenzo Paduano, versando anche qualche lacrima, dopo 8 ore di interrogatorio, ha poi confessato di aver ucciso Sara con premeditazione, oltre ad aver commesso il reato di stalking. “Sono proprio un mostro” – sembrerebbe abbia detto l’omicida. Eppure quella notte, dopo aver commesso l’omicidio, con una freddezza disumana, è andato a lavoro, come se nulla fosse accaduto. Gli indizi degli investigatori erano però già chiari. Le telecamere di una ditta di calcestruzzi,  avevano ripreso alcuni dettagli del luogo, come la presenza dell’auto dell’assassino, sul luogo del crimine.
Ancora un caso di “femminicidio”, l’ennesimo. Come se la donna dovesse essere proprietà di un uomo, come se non fosse una creatura capace di scegliere, di dire no. Incoraggiare le ragazze a denunciare, a chiedere aiuto, potenziare i centri di ascolto, di antiviolenza e di educazione affettiva.
I dati ormai sono divenuti spaventosi, fanno paura. E’ora di investire per davvero tempo e denaro, affinché questo terribile fenomeno, non prenda una china troppo ripida per poterlo fermare.
Simona Stammelluti

Morire a 22 anni, senza un perché. Questa è la storia di Sara Di Pietrantonio, la ragazza morta semicarbonizzata, all’alba di sabato mattina, per mano del suo ex fidanzato, tra l’indifferenza di automobilisti che non le hanno prestato attenzione

Poco più che una bambina, iscritta alla facoltà di economia dell’Università di Roma tre, aveva una vita da vivere, ed un nuovo fidanzato. Cosa da ragazze della sua età, che si trasformano in esperienza, in percorsi di vita, in scelte consapevoli.

Eppure il percorso di vita di Sara, era già stato minato da tempo,  vittima di quello “stalking” che il suo ex fidanzato, Vincenzo Paduano, le perpetuava da quando la loro relazione – durata poco meno di due anni – era giunta al termine, eppure lui non accettava che lei avesse intrapreso una nuova conoscenza con un altro ragazzo. C’era stato anche un episodio di violenza, che però la ragazza non aveva denunciato. Questo è quanto emerge dai racconti delle amiche di Sara.

Lui, Vincenzo Paduano, 27 anni, guardia giurata, che alla fine ha ammesso il delitto, quello consumato sabato notte, alle prime luci dell’alba, dopo aver seguito la ragazza, che rientrava da una serata con un’amica e quel nuovo ragazzo che stava frequentando. L’ha speronata, costretta a fermasi, aggredita, e poi uccisa.

Sembra che l’uomo controllasse gli spostamenti della giovane donna, attraverso un’applicazione installata sul telefono della ragazza. Grazie a quella, l’uomo quella sera seppe dove fosse Sara, e pertanto gli fu semplice attenderla lungo il tragitto che la riportava a casa.

Paduano aveva con se una bottiglia di alcool – simbolo questo della premeditazione – e dopo la lite, ha cosparso la macchina del materiale infiammabile e vi ha dato fuoco.

La giovane donna è scappata, ma poi è stata raggiunta dall’uomo che l’ha aggredita, forse strangolata (i dettagli si conosceranno oggi dopo l’autopsia) e poi le ha dato fuoco.

La cosa orrenda, è che Sara prima di essere raggiunta dal suo carnefice, ha incrociato su Via della Magliana, almeno due autovetture, che però sono rimaste indifferenti alla richiesta di aiuto della ragazza. Le telecamere situate in loco, hanno non solo ripreso la scena, ma hanno permesso di rintracciare i veicoli transitati sul luogo, i cui conducenti hanno affermato di non essersi accorti che la ragazza avesse bisogno di aiuto.

Eppure erano le 4 del mattino, su una strada poco trafficata a quell’ora e una ragazza che corre e urla, non costituisce certo una scena “normale”, o degna di indifferenza.

E’ stato il procuratore aggiunto di Roma, Maria Monteleone a dichiarare con perentorietà: “Chi incontra una ragazza in difficoltà, non deve girarsi dall’altra parte,  e che questa morte non sia inutile. Due passanti non si sono fermati, e se Sara invece fosse stata soccorsa, se si fosse chiesto aiuto forse sarebbe ancora viva”.

E se si pensa con quanto facilità si chiamano Polizia e Carabinieri per un banale incidente, allora viene da chiedersi se davvero quella di sabato notte, non sia stata una indifferenza “crudele”, per la serie “faccio finta di non vedere, tanto non tocca a me”.

Sara aveva mandato verso le 3 un messaggio alla sua mamma, dicendole che stava facendo rientro a casa, ma a casa purtroppo, non è riuscita a fare rientro. Erano le 5 infatti, quando il suo corpo è stato ritrovato semicarbonizzato.

Vincenzo Paduano, versando anche qualche lacrima, dopo 8 ore di interrogatorio, ha poi confessato di aver ucciso Sara con premeditazione, oltre ad aver commesso il reato di stalking. “Sono proprio un mostro” – sembrerebbe abbia detto l’omicida. Eppure quella notte, dopo aver commesso l’omicidio, con una freddezza disumana, è andato a lavoro, come se nulla fosse accaduto. Gli indizi degli investigatori erano però già chiari. Le telecamere di una ditta di calcestruzzi,  avevano ripreso alcuni dettagli del luogo, come la presenza dell’auto dell’assassino, sul luogo del crimine.

Ancora un caso di “femminicidio”, l’ennesimo. Come se la donna dovesse essere proprietà di un uomo, come se non fosse una creatura capace di scegliere, di dire no. Incoraggiare le ragazze a denunciare, a chiedere aiuto, potenziare i centri di ascolto, di antiviolenza e di educazione affettiva.

I dati ormai sono divenuti spaventosi, fanno paura. E’ora di investire per davvero tempo e denaro, affinché questo terribile fenomeno, non prenda una china troppo ripida per poterlo fermare.

Simona Stammelluti

Il 13 febbraio 2014 la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza emessa il 19 luglio 2012 dalla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta che ha assolto Gaetano Marturana, 48 anni, di Canicattì, gà condannato all’ ergastolo dalla Corte d’Assise di Caltanissetta il 30 luglio del 2010, e imputato dell’ omicidio del pensionato Angelo Anello, 72 anni, anche lui di Canicattì, ucciso a colpi di pistola il 19 luglio del 2005 in contrada Grottarossa, in provincia di Caltanissetta. Il delitto sarebbe maturato nell’ambito di un contrasto legato alla compravendita di un terreno. Dunque, si procede ad un secondo processo d’Appello, la Procura generale di Catania ha chiesto la condanna all’ergastolo a carico dello stesso Marturana, e la Corte d’Assise d’Appello adesso ha accolto la richiesta, infliggendo all’ imputato il carcere a vita.

A Naro, Salvatore “Tito” Terranova, 57 anni, di Naro, commerciante, è stato ucciso dentro l’abitacolo della sua automobile Rover, in piazza del Carmine, a poca distanza da via Francesco Crispi, dove Terranova ha gestito un negozio di articoli per la casa, il “Merkatone”. I killer, probabilmente due, hanno atteso che Terranova chiudesse il negozio e poi lo hanno sorpreso appena all’ interno dell’automobile e gli hanno sparato raffiche di proiettili con pistole automatiche. Sarebbero almeno 3 i colpi che hanno ferito mortalmente Tito Terranova. I sicari sono poi fuggiti a bordo di un’ automobile. Salvatore Terranova risulta incensurato. Alcuni pentiti agrigentini, come Salvatore Morello, che poi ha ritrattato, e Giuseppe Sardino, già consigliere comunale a Naro e braccio di destro del boss Giuseppe Falsone, hanno accusato Salvatore Terranova, per averne appreso de relato, di essere stato parte del commando che il 3 marzo del 1991, a Naro, uccise Marco Balsamo e Girolamo Di Gerlando. Terranova, conosciuto in paese come Tito Cacumiddu (dal siciliano camomilla) avrebbe condotto l’automobile usata dal gruppo di fuoco. Indagano i Carabinieri, il sostituto procuratore Santo Fornasier, titolare del fascicolo d’ inchiesta, e la Direzione distrettuale antimafia di Palermo.

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