Le donne non si lasciano apostrofare

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Ci proviamo ad ignorare la festa per commemorare la figura della donna, ma ci sfiora sempre l’idea (e meno male) di ciò che una donna rappresenta e della difficoltà che ancora oggi deve affrontare per sgretolare i luoghi comuni, le etichette, le condizioni che la pongono ancora sul gradino più basso. Una donna che parla ci mette molto più tempo per essere ascoltata e per convincere della bontà del suo dire, la sua competenza è ancora la seconda scelta, come si veste fa ancora più notizia di quello che fa e di come lo fa, come se fosse marchiata dalla incapacità di tenere testa nei luoghi che contano, nei dialoghi con gli uomini, o dentro un sistema nel quale possono e sanno essere ingranaggi eccellenti, ma che nessuno “lascia andare”.

Sostitute, spesso di qualcuno, e se difendono la propria bravura e le proprie idee sono chiamate ancora femministe.
Sempre tanta, troppa fatica in più, perché il nome femminile singolare si apostrofa vicino all’articolo, ha bisogno di qualcosa che “tenga unito”, per avere un senso. Ed invece il senso è tutto dentro l’essere, che non ha articoli da coniugare e apostrofi da aggiungere. E la parola “emancipazione” dovrebbe riguardare il modo di guardare al valore dell’altro, non alla difesa di un ideale di vita che è comune ed è privo di genere.
Perché ci si scopre aggressive e stanche, perché la difesa è d’obbligo, la salita faticosa, perché non ci si può mostrare fragili, frustrate o capaci di disappunto. Ed invece l’essere fragili non annienta la competenza. Tutti lo siamo, chi più chi meno, senza distinzione di genere, e il disappunto è una carta usata per contemplare il giudizio critico, non per dissentire a priori.

Che non siamo Cenerentole lo si è capito, ma se lo si vuole essere per scelta, se si vogliono stirare le camicie al proprio uomo, non lo si deve giustificare, né deve significare che ci si è piegate a chissà che cultura patriarcale.

Il coraggio di essere, di scegliere, e di sedere accanto a chi ha le stesse competenze, di vedere riconosciuto un ruolo, a prescindere da come si è vestite, pettinate, truccate. Questo deve contare.

Le donne raccontate dalla cronaca negli ultimi giorni sono donne che imbracciano i fucili, che vengono stuprate negli scenari di guerra, e che poi prendono per mano i loro figli, se li caricano addosso e li mettono in salvo, costi quel che costi, perché se non lo fanno loro, non lo farà mai nessuno. Le donne che sanno quello che devono fare, che soffrono e piangono, ma non sono deboli, e che l’esistenza la mettono in riga come si fa con le trincee. E mentre la diplomazia siede a tavoli importanti in giacca e cravatta, si fa ancora la guerra alle donne, la cronaca le onora solo quando cadono, sotto i colpi della violenza e quasi mai per i meriti che hanno e che meritano, quando li meritano.

Le immagini vanno comprese e discusse, non sempre e solo archiviate.
Non bisogna dimenticare, far finta che non sia successo, o chiudere gli occhi pensando che lontano dal nostro modo di vivere, alcune realtà non esistano.
Guardiamo al loro dolore, quando c’è, con empatia. Guardiamole quando imbracciano le armi, ogni giorno, che non sono quelle fisiche, che feriscono e portano distruzione tutt’intorno, ma sono quelle che vestono mentre si incamminano in un campo minato dell’indifferenza, dove diritti e doveri non coincidono quasi mai e si deve ancora sgomitare, urlare, porsi al centro del mondo che è fatto di dettagli principali ed altri trascurabili, ma che ci chiede di avere senso e valore; quel valore che si siede accanto al domani, quando qualcuno forse si desterà e proverà a non distrarre lo sguardo.

E allora i fiori metteteli nei cannoni, noi non ne abbiamo bisogno, prendete per mano la consapevolezza che c’è una dimensione femminile plurale, che non ha nulla a che vedere con il linguaggio inclusivo ma che pulsa dentro una realtà che ha avuto l’onore di essere abbellita da donne che hanno lottato, cambiato il mondo e che continuano a farlo, anche in posti del mondo dove non esistono feste comandate, donne che non si arrendono, neanche sotto il suono delle bombe.

Il peccato originale lo abbiamo pagato e poi scambiato con il ruolo di “colei che accoglie”, che “porta in grembo”, che “protegge”.
E allora che si condivida un tempo e uno spazio, che si possa camminare a fianco, che ci si inchini davanti alla bravura, che è sostantivo femminile, ma che riguarda semplicemente l’essere umano capace e di buona volontà.

 

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