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Una emozionatissima Liliana Segre su Rai 1 insieme a Fabio Fazio per celebrare il giorno della Memoria con una serata “per non dimenticare”.
Il racconto della sua terribile e dolorosa esperienza nei campi di concentramento di Birkenau e Auschwitz, dal binario 21, della stazione di Milano, nella pancia, nel fondo della stazione da dove partivano i treni carichi di ebrei che divenivano deportati. Oggi in quei luoghi vi è un Memoriale, che tutti dovrebbero visitare. Appena si arriva in quel luogo vi è un grande muro con la scritta “INDIFFERENZA” che è la parola chiave scelta proprio da Liliana Segre e che rappresenta proprio il sentimento patito dagli ebrei; l’indifferenza della gente nei confronti di ciò che stava accadendo durante tutto il periodo, non soltanto durante la deportazione e che oggi non dovrebbe più esistere.
Il senso e l’importanza della memoria è stato il filo conduttore della serata durante la quale la senatrice a vita ha raccontato alcuni dettagli della sua prigionia nei campi di concentramento, della sua vita di ragazzina in un posto assurdo, nel quale la vita o la morte erano solo affidati al caso.
Ad accompagnarla nel racconto Fabio Fazio, che con tanta delicatezza le ha posto delle domande, lasciando alla Segre l’emozione travolgente del racconto. La sua salvezza dovuta al fatto che conosceva la parola “solo” in tedesco, la “fortuna” di essere stata scelta come schiava per lavorare nelle fabbriche, salvandosi dalla camera a gas, la lunga marcia della morte lungo la quale ebbe la possibilità di vendicarsi verso coloro che erano stati i suoi aguzzini, e poi la scelta di non lasciare spazio all’odio e di riprendersi la sua vita, che poi ha vissuto fino ad oggi in pace.
E poi quando Fabio Fazio le ha chiesto come riuscisse a superare le notti, nei campi di concentramento, Liliana Segre ha risposto: “Ero giovane ed ero forte. La notte ero fortissima. Questo voglio dire ai giovani, siate forti, fortissimi“.
Toccante il racconto della “tragedia” – come lei stessa l’ha definita – di quando facendo ritorno a casa, da quella che restava la sua famiglia, i nonni e gli zii, non solo tutti stentarono a riconoscerla perché differentemente allo scricciolo che era quando era stata portata via, era grassa, brutta e rozza, ma soprattutto perché tra le tante cose che avrebbero potuto chiederle, le domandarono solo il perché fosse diventata così grossa e se fosse ancora vergine.
Si commuove, Liliana Segre raccontando come in quei 4 mesi, dall’inizio di maggio quando fu liberata, alla fine di agosto, quando fece ritorno a casa, passò il suo tempo a mangiare, e una volta arrivata in città un signore le fece l’elemosina.
Durante la serata le voci di Pierfrancesco Favino e di Paola Cortellesi, hanno declamato un monologo sull’odio e la famosa poesia di Primo Levi, tratta da “Se questo è un uomo”. Ascoltare quelle parole, in un giorno come questo, quell’invito a raccontare e tramandare quell’orrore affinché non si dimentichi, è stato molto toccante.
Il conclusione, in onore di Liliana Segre e di tutte le vittime dell’olocausto, il coro del Teatro alla Scala di Milano ha intonato il “Va pensiero” di Verdi.
Una rosa bianca donata alla senatrice a vita e la forza di una testimonianza che è simbolo di come la forza di chi ha vissuto quell’orrore, sa divenire linfa, affinché non accada mai più.

 

“Sapevo che poteva finire così” 

Queste le parole di Alessia Pifferi, la donna milanese di 36 anni che una settimana fa ha deciso di raggiungere il compagno che vive in provincia di Bergamo e ha lasciato da sola sua figlia Diana, nata il 29 gennaio del 2021.
La piccola è stata trovata morta mercoledì mattina, al rientro della mamma a casa, che è stata poi fermata con l’accuso di omicidio volontario aggravata dalla premeditazione e dai futili motivi.

La piccolina era in un lettino da campeggio, vicino a lei c’erano un biberon ed una boccetta mezza piena di benzodiazepine. Fuori dalla finestra dell’appartamento dove la piccola è stata trovata morta, ci sono i suoi vestitini ancora appesi messi lì ad asciugare.

La donna ha dichiarato di non sapere neanche chi sia il padre di sua figlia, di essersi accorta di essere incinta solo al settimo mese. Sembrerebbe non avere problemi di droga, ma si accerteranno eventuali problematiche psichiche.

Ci si domanda però come sia possibile che in questi 18 mesi, da quando è nata questa bambina, nessuno si sia domandato se questa donna fosse in grado di fare la madre. Aiuti esterni, parenti, amici, assistenti sociali.
Non si sa ancora come si mantenesse, questa donna e dunque neanche si sa come abbia fatto vivere sua figlia in questo breve periodo di vita.

Si sa solo che fino a qualche anno fa con lei viveva sua madre, che poi ha lasciato la Lombardia e che sullo stesso pianerottolo, vive ancora il suo ex marito, dal quale si era separata circa 3 anni fa.

Chissà che agonia quella piccola creatura lasciata sola per 6 lunghi giorni, senza nessuno che la nutrisse, la cambiasse, la confortasse. Perché a 18 mesi sei piccola ed indifesa, ed hai anche la percezione del vuoto, quando chiami “mamma” e nessuno ti risponde. Un dolore immenso per questa morte, da parte anche della comunità del quartiere che ha appeso dei palloncini bianchi al cancello dell’abitazione.

Un problema sempre più ricorrente, quello in cui piccole vittime soccombono per mano dei propri genitori, che probabilmente vengono lasciati soli nella gestione di una genitorialità difficile da concepire e da espletare. Adesso si attendono i risultati dell’autopsia, dei rilievi del caso. Ed intanto un’altra tragedia si è consumata.