“Nostalgia” di Martone: Una Napoli cupa e suggestiva dove nessuno cambia e nulla cambia

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Non è la prima volta che Mario Martone rende omaggio a Napoli, e lo ha sempre fatto in maniera impeccabile; si pensi a “Il sindaco del rione Sanità” e a “Qui rido io”. La sua capacità di raccontare i luoghi attraverso le storie è davvero prorompente, è lucida, è carismatica. E quel suo carisma nel rendere tutto così suggestivo, lo trasferisce nei personaggi anche quando, come in questo caso, sono presi in prestito da un altro mezzo semiotico.

Nostalgia, l’ultimo film di Martone, è tratto dal romanzo omonimo di Ermanno Rea e parla di un ritorno, un ritorno a casa, in una città come Napoli, frenetica, che però resta immobile anche a distanza di 40 anni, dove il bene si nasconde bene, e dove il male governa bene in quei quartiere in cui si dorme sempre con un occhio aperto.

La storia non è particolarmente appagante, ed il film è a tratti lento, ma il risultato finale è comunque di pregio. La bravura di Martone sta proprio nel condurre lo spettatore a fianco del protagonista, come se ci fosse la necessità di conservare a chi è in sala, un posto accanto a Felice (Pierfrancesco Favino) che dopo 40 anni vissuti in Egitto, torna a Napoli per stare vicino a sua madre giunta ormai alla fine della sua esistenza e per riappropriarsi di quel tempo e di quello spazio a cui ha rinunciato per troppo tempo. Con i primi piani, le riprese di schiena, l’uso sapiente della steadycam Martone traccia i segni distintivi del protagonista che si muove – a piedi e in moto –  nei luoghi che sono stati suoi in adolescenza, che non ha mai dimenticato e che saranno per lui – malgrado le sue intenzioni – una nuova trappola.

Il quartiere Sanità reso estremamente reale nella pellicola; il regista scende con la cinepresa dentro i vicoli, nei ristoranti, nei mercati; ci si impregna di quei luoghi, con quel buio che regna giorno e notte, con  una quotidianità viva e pulsante, con i suoi stessi abitanti a recitare loro stessi, con una grande attenzione ai rumori non solo della strada e dei boati delle armi che sparano, ma anche a suoni che appartengono proprio all’uomo; quello dell’acqua che Felice beve o quella con la quale lava sua madre, il suono sordo dei pugni dati ad un sacco posto all’interno di una chiesa allestita in parte a palestra per salvare i giovani del quartiere, la musica di un’orchestra nella quale suonano i figli dei camorristi.

La parte buona del quartiere Sanità gira intorno a Don Luigi (uno straordinario Francesco Di Leva) che con il suo coraggio incrollabile e quel carattere forte e carismatico, cammina e vive nelle strade tra spacciatori e camorristi, conosce le loro storie e i loro limiti, contrastando dove può il male e “salvando” i giovani a costo di andarli a prendere a casa.  Questa rete di salvezza, sarà lo scudo di Felice, tornato in un luogo ostile come 40 anni prima, ma poco potrà contro la sua scelta di Felice di fare i conti con il passato, in una terra dove  nessuno cambia e niente cambia mai per davvero.

L’aspetto onirico del film, che costringe Felice a ricordare il suo passato giovanile, le azioni compiute, i motivi del suo allontanamento da Napoli, è realizzato con immagini leggermente seppiate, senza allontanarsi troppo dalla luce scelta dalla fotografia, riuscendo a consegnare al pubblico le emozioni che il protagonista vive e con le quali deve fare i conti. La paura sottile che accompagna il protagonista nei suoi passi è tangibile, realistica, piena di pathos.

Pierfrancesco Favino non delude mai, credibile in ogni ruolo, anche in questo, capace di passare da un cinquantenne che parla l’arabo, che ormai vive usi e costumi e religione del posto nel quale vive da tanto tempo, a napoletano verace, che riconquista la sua “lingua” di origine, atteggiamenti e quotidianità mai dimenticate.
Degna di nota la scena nella quale Felice lava sua madre in un grosso catino, tra tenerezza e pudicizia, tra vergogna di una madre nel mostrarsi nuda al figlio e amore del figlio che accoglie in braccio sua madre come se fosse il soggetto di un quadro del Caravaggio.

Francesco Di Leva napoletano ed attore sopraffino, ha una capacità scenica fuori dal comune e rapisce lo spettatore con quel suo piglio di eloquenza che non è solo verbale, considerato che sa utilizzare il suo sguardo per esprimere sentimenti, indignazione, pietà. A mio avviso la migliore interpretazione nella pellicola.

C’è anche Tommaso Ragno nel ruolo di Oreste, amico di infanzia del protagonista, divenuto nel frattempo boss del quartiere, che con lui ha condiviso un’esperienza drammatica in gioventù, che muterà completamente il corso dell’esistenza solo di uno dei due, di Felice. Per l’altro il destino sarà infelice e lascerà che una prigione prenda il posto di un’altra.

Mario Martone realizza un film schietto, con un risvolto sociale, e riesce molto bene a dare respiro alla vicenda, utilizzando la nostalgia e il ricordo, per dare senso alla reale. Fa tutto questo con la complicità di Napoli, magica a ammaliante, della fotografia sapiente di Paolo Carnera che gioca realmente con la grana dell’immagine conservando una fluidità di intenti, e dell’uso della musica che accenta azioni ed intenzioni, conducendo lo spettatore nello sviluppo della trama.

 

 

 

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