In memoria di Luigi Pirandello, del padre Stefano, e dei carusi delle solfatare

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Pirandello  amò  la sua città,  Girgenti, dove vi nacque nel 1867.

E di essa cosa ne pensava?

L’amò e scrisse “te sempre vedo , sempre, vedo da lontano”, e scrisse anche nelle pagine di un suo importante romanzo, ricordando Girgenti; “Città di preti e di campane a morto che echeggiano da trenta chiese, città triste dove le processioni funebri ogni giorno attraversano il corso, un mesto corteo preceduto dalle orfanelle del “Boccone del Povero”.

In quella  città così descritta Pirandello vi nacque, in una casa romita, in contrada Caos, e vi trascorse periodi della sua  infanzia e adolescenza, e vi tornava da Roma anche dopo il suo matrimonio.

Ricordi indelebili di Girgenti  appariranno nelle pagine delle sue opere, l’amò, e qui ricordiamo due aspetti interessanti della sua esistenza: si laureò a Bonn sul Reno con una tesi “Suoni e sviluppi di suoni nella parlata di Girgenti”, e nelle sue ultime volontà scrisse: “Le mie ceneri in un’urna siano portate in Sicilia e murate in una rozza pietra  nella campagna di Girgenti, dove nacqui”.

E’ questo, per la propria città,  non è altro che un atto d’amore.

Don Stefano, il padre di Luigi, era un energico commerciante, girava per la Sicilia per i suoi affari e poco stava in casa. La sua vasta famiglia era di origine ligure, ma erano in Sicilia già dalla metà del Settecento.

Stefano era il diciottesimo dei figli, in quanto tutti erano ventiquattro, ma ridimensionati dalle morti infantili.

Stefano, come già detto, commerciante energico e intraprendente si fece da solo ed ebbe momenti di grande fortuna e altri di rovesci economici. La sua attività principale fu il commercio dello zolfo: la produzione nelle miniere del retroterra, il trasporto al porto della marina, il caricamento su  speronare e vascelli.

Delle zolfare e dei carusi che vi lavoravano se ne ricordò Pirandello e scrisse che era un lavoro da schiavi, e stringe il cuore a vedere quei carusi schiacciati sotto il carico dei sacchi di zolfo, salire lentamente verso l’arco della bocca di luce.

 

Và, và e và, spogliati,                                         

levati a cammisa e mettiti u saccu

a Cummatini nun fa notti,

a Cummatini nun è festa.

Và, và, e mettiti a lumera in testa

Carricati di zurfu, portati a coffa.

 

Toto  Cacciato

 

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