Assurdo anche solo immaginare 19 nomination ai David di Donatello per “C’è ancora domani”

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Sono in controtendenza, ma ho un po’ di esperienza anche in questo.
È vero che esistono innumerevoli sfumature di giudizio tra “improponibile” e “capolavoro”, un po’ come le tante sfumature di bianco e nero che si possono usare in cinematografia; e la Cortellesi quel bianco e nero utilizzato, lo ha sbagliato (e non solo quello).
La prima cosa che mi viene da dire, prima ancora di adentrarmi nella considerazione circa il mio dissenso sulle innumerevoli nomination, è che la Cortellesi in quel ruolo non è credibile. Le sue espressioni sono identiche a quando fa i suoi show comici. Anche dirigere un film non è proprio come fare uno show, ma lei c’ha provato. Eppure il fatto che c’abbia provato non fa di lei una registra sopraffina. Le sarebbe bastato affidare quel ruolo (quello di Delia) ad un’altra attrice – e in Italia ne abbiamo di brave – per rendere tutto più adeguato. Ecco, lei non è affatto adeguata a quel ruolo, a mio avviso scritto anche male.
Chi poco poco capisce di cinema, non avrà fatto fatica a riscontrare nella pellicola innumerevoli forzature, oltre a dettagli che fuorviano dal significato che probabilmente il film voleva consegnare.
Questo sempre se vogliamo andare un pochino a fondo, perché se dobbiamo rimanere in superficie, allora il messaggio da consegnare è degno di stima.
La sceneggiatura è debole, la recitazione non mi convince affatto.
Anche lo stesso Mastandrea, nei panni del marito dispotico sembra finto;  non ha vestito appieno il ruolo, e da spettatori non ci si immedesima nei panni di chi è alla mercé di un uomo padre e padrone.
Per assurdo sarà la figura del suocero a dare un minimo di guizzo al film, con battute calcate e dissacranti.
Fateci caso, la storia è striminzita.Una donna, madre di famiglia, che succube di un marito dispotico, scaltra a suo modo, decide di boicottare la famiglia dei consuoceri per salvare sua figlia dal suo stesso destino e fa saltare all’aria il bar di loro proprietà.
La buona, che è la più cattiva di tutti, alla fine.
La stessa che davanti alle parole di aiuto del militare americano, che lei non comprende, non si sforza né di capire né di farsi aiutare a capire.
Però riesce a convincerlo (non si sa come) ad aiutarla nell’operazione di sabotaggio.
Gli uomini del film sono cattivi, dispotici, tranne il marito della fruttivendola che è lo zerbino di sua moglie. Le donne del film invece sono sì vittime di violenza oltre ad essere sottomesse, ma alla fine viene quasi sdoganato che loro, le donne, possono sentirsi libere di piazzare il tritolo per cambiare il corso degli eventi.
E poi c’è il finale … quello definito “superlativo”.
Quel lasciare intendere che Delia (la protagonista) scappi con il suo amante (un amico di infanzia, un meccanico gentile) per poi scoprire che in realtà andrà come l’85% delle donne a votare nel giugno del ’46,  è di una banalità che rasenta l’assoluto.
Quella forzatura sui soldi “rubati” dal suo stesso lavoro, messi da parte e lasciati sul comodino alla figlia per farla studiare, come se non dovesse tornare più, non è per nulla pieno di pathos. Niente a mio avviso nel film lo è, considerato anche quel voler introdurre delle scene quasi comiche (in fondo lei, la regista, lo è) che non spezzano la “tragicità” degli eventi, ma li banalizzano. Il “ballo delle botte” che vede Mastandrea e la Cortellesi, picchiare e prenderle a passo di ballo fa scuotere la testa, fa dire “ma perché”?
La Cortellesi è inesperta, e questo va detto. E la sua inesperienza è visibile e chi non la vede è solo perché non vuole vederla, perché suggestionato dal messaggio del film, ossia la possibile ribellione da una vita di soprusi, data anche da un diritto inviolabile come il diritto al voto.
Ok, buona l’idea ma la realizzazione è mediocre, esattamente come tutto il film.
Per sottolineare la violenza che le donne subivano (e subiscono) il film avrebbe dovuto avere dei connotati più crudi, più veri.
Manca proprio il realismo, nella pellicola.
Mai neanche per un istante durante il film non pensi che sia un film. Non entri in empatia con i personaggi, perché sai essere tutto finto.
Non è un capolavoro di film, non è un film che ricorda ma manco lontanamente il neorealismo di Rossellini, di De Sica, di Lattuada.
Questo film non lo ricorda neanche un po’, ma non ci si avvicina neanche nelle intenzioni, oltre che nella fattura del film, che è “troppo pulito”. Anche i personaggi sono troppo puliti, per nulla disperati. I figli della protagonista fanno sempre le stesse cose, stessi gesti, stesse battute.
Le comari sulla strada, fanno sempre le stesse cose, sempre con le stesse espressioni.
È un film troppo in ordine, e fuori dal periodo storico e pure geografico (ricordate “Roma città aperta?”) … ecco.
Ma la colpa non è solo della Cortellesi che ha avuto la presunzione (premiata dal botteghino a quanto sembra, anche all’estero) di fare un film “di spessore”, ma anche di tutti coloro che hanno preso parte all’operazione.
Direttore alla fotografia, aiuto sceneggiatore, aiuto regista.
Ecco, dagli aiuti mi sarei aspettata qualcosa di più.
È anche vero che facendo io questo mestiere, non sono facilmente impressionabile e questo significa che guardo tutto, nei minimi particolari e alcune cose per essere belle, devono avere un senso profondo, che qui non si evince, perché non è stato sviscerato.
Anche le musiche che di per sé sono molto belle, non sono contestualizzate nel film, sono sbagliate. E se si pensava di poterle far correre lungo le storie, l’intento è fallito.
Alla luce di tutto questo, mi domando come si sia arrivati alla 19 nomination. Forse la eco intorno al film, che, non faccio fatica a ribadirlo, è appena sufficiente. Ma come si dice, il margine di miglioramento c’è sempre, se non ci si sente già nell’olimpo di chi non ha più nulla da imparare.

Dimenticavo …
C’è una cosa che mi è piaciuta.Quei denti che si fanno neri per il cioccolato. I denti di Delia e del suo innamorato, mentre immaginano un futuro che non sarà.

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