Ammalarsi di COVID tra caos e incompetenza

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Il protagonista della storia (vera) è un ragazzo di 19 anni che vive a Montalto Uffugo un paese di 22 mila abitanti in provincia di Cosenza.
Cosa avrà mai di interessante questa storia? – vi chiederete.
Interessante sarà scoprire cosa lui e la sua famiglia hanno passato dopo aver scoperto che il ragazzo aveva contratto il Covid. Ma per dovere di cronaca, racconterò tutto quello che è accaduto da ancor prima, che il risultato del test risultasse positivo.
Il 19 ottobre il protagonista ha la febbre.
Siamo sui 37 e mezzo, febbre che scomparirà da sola, nel giro di  un paio di giorni.
Ma il ragazzo, che ha la mamma paziente oncologica ha paura, si preoccupa per lei e vuole sottoporsi al tampone per precauzione, ed anche perché gli servirà per far rientro a scuola.
Il medico di famiglia non ritiene opportuno segnalare il caso alla ASL perché sostiene che la febbre non è abbastanza alta.
Così il ragazzo accompagnato da un familiare, va a farsi il tampone in un laboratorio privato; il risultato glielo daranno dopo 24/36 ore.
Siamo al 23 di ottobre.
Il ragazzo nel frattempo era già senza febbre e senza nessun altro sintomo, continua così a svolgere la sua vita di sempre. Un compleanno, un pub con gli amici.
La sera del 24 ottobre, il ragazzo scopre la sua positività al Covid. 
Da premettere che prima ancora che la famiglia conoscesse il risultato di quel tampone fatto spontaneamente dal protagonista di questa storia, in paese già corrono voci inquietanti e infamanti. Su di lui e sulla sua famiglia si dice di tutto, dal fatto che fosse stato accompagnato in maniera coatta a casa dalle forze dell’ordine, alle bugie circa la positività di tutta la famiglia.
Ma torniamo ai fatti. 
Constatata la positività, si attende che si attivi finalmente il protocollo, considerato il fatto che la mamma del ragazzo, paziente oncologica, in caso di negatività dovrà assolutamente essere allontanata da casa e messa in sicurezza.
Passano i giorni, ma nessuno va a far visita alla famiglia per effettuare i tamponi.
Il ragazzo sa di essere positivo perché ha un responso virologico privato, ma ancora nessuno ha ufficializzato questa positività. Barricati in casa, abbandonati da tutti, trascorrono la loro quarantena, cercando quanto più possibile di preservare la madre, affinché non entri in contatto con il coronavirus.
Sono invisibili.
Del protocollo in caso di positività non v’è traccia. 
Nessuno si domanda cosa stia accadendo in quella famiglia, nessuno si domanda se hanno bisogno di qualcosa, se stanno bene. Ci pensano solo i familiari che supportano i loro cari, con dedizione e lucidità.
Intanto il protagonista stesso cerca di avvertire gli amici con i quali ha avuto contatti negli ultimi giorni, ma non può fare affidamento sul tracciamento della Asl, che ancora non ha effettuato nessun tampone a nessun membro di quella famiglia.
Passano 10 giorni. 
Siamo al 2 di novembre, quando finalmente mamma, papà e sorella del protagonista – che nel frattempo coscienziosamente avevano rispettato la quarantena nel pieno rispetto delle regole e del bene altrui – vengono convocati dalla Asl per quel famoso tampone.
10 giorni dopo.
Ma oltre al danno la beffa.
Dalle 8 del mattino, all’una gli viene comunicato che sono finiti i tamponi e che non potranno essere sottoposti al test. Sarà la giovane sorella a pretendere – visto che sono stati convocati – che venga fatto loro l’esame. Sono tutti negativi.
Lo sapranno solo 6 giorni dopo.
6 giorni dopo.
Per non parlare delle condizioni in cui vengono tenuti i tamponi processati e non, presso il punto Asp destinato (ma questa è un’altra storia che racconterò a breve).
La tempestività non è contemplata nel protocollo già inesistente della Asp sul territorio.
Il giorno 4 novembre anche il protagonista viene sottoposto al tampone.
Finalmente, direte!
Sì, ma deve recarsi  con le sue gambe al centro Asp che dista 12 km dal centro del paese dove il giovane risiede. Con le sue gambe, con il suo mezzo, accompagnato da suo padre.
Quindi un malato di Covid, non riceve mai a casa i responsabili del servizio tamponi, ma si sposta da solo, per avere quel che spetterebbe invece a tutti i malati di questa maledetta malattia virale.
Morale della favola, anche il protagonista riceve il risultato delle analisi dopo 5 giorni, attraverso una comunicazione telefonica che reca in se ancora dubbi. Positivo, negativo? Sembra difficile anche leggere un referto.
Intanto i compagni del protagonista, quelli che con lui avevano trascorso le ore precedenti al suo malessere, si barricano anch’essi in casa insieme alle loro famiglie, con tutte le problematiche del caso, comprese quelle lavorative, rispettando la quarantena volontaria, in attesa di ricevere una comunicazione della Asp, che gli dica cosa fare, come comportarsi, come agire.
Tutti abbandonati a sé stessi sul territorio. 
Ad oggi ancora diversi ragazzi non hanno ricevuto la visita dei responsabili Covid della Asp.
Uno di loro  – che grazie alla coscienza propria e della sua famiglia è rimasto in quarantena a casa – ha scoperto solo ieri, dopo essersi sottoposto al test il 4 di novembre, di essere positivo.
E i suoi familiari hanno provveduto privatamente e personalmente a sottoporsi a regolare tampone anti-covid.
Sul territorio ogni giorno ci sono nuovi casi scoperti per caso, perché chi ha qualche sintomo si reca a farsi un tampone rapido presso strutture private e poi si attende, si attende per giorni, per settimane che qualcuno si accorga di loro.
Non c’è il protocollo, non si attiva. 
A Montalto Uffugo non si è attivato.
Sorge il dubbio che di tutti gli organi preposti alla gestione della vicenda Covid sul territorio, nessuno sia a conoscenza delle linee guida. 
Per la serie, “Si salvi chi può” perché sennò, finisce che il mondo si dimentica che esisti, una volta che ha finito di infangare e infamare famiglie che hanno avuto rispetto per il prossimo, senza ricevere in cambio neanche quello che spettava loro di diritto.
Simona Stammelluti 

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