Vi racconto perché \”Io capitano\” di Garrone ha già vinto, anche se non dovesse vincere l\’Oscar

Condividi

L\’ho visto solo ieri sera. Tardi rispetto a Venezia80 e tardi rispetto a quando è uscito nelle sale. La sfida tra \”Io capitano\” di Garrone e altri film in sala è stata maldestra. \”Io capitano\” non può competere con altro, eppure, la stragrande maggioranza di chi si è recato al botteghino, ha scelto altro.
Ha perso, dunque, Garrone?
No. Garrone con il suo film ha vinto tutto, sotto tutti i punti di vista e quello che racconta è meritevole più di una considerazione.
Con molta probabilità a non andare a vedere \”Io capitano\” saranno stati tutti quelli terrorizzati dalla possibilità che il proprio modo di concepire il migrante potesse virare in altre direzioni o semplicemente chi non è pronto a fare i conti con la propria coscienza, sempre che se ne abbia una.
Garrone non ha nessuna intenzione di convincere chicchessia, di raccontare in maniera documentaristica la storia cruda e crudele dei migranti; lo fa a modo suo, e quel \”a modo suo\” è un registro perfetto, una storia forse come tante storie, ma che mostra dettagli che difficilmente si guardano da così vicino; e poi il finale, quello che per alcuni ha reso il film non bello al 100 % e per altri invece è stato un \”soffio di vento che muove le vele\”, un lieto fine degno di una storia che è una favola che per alcuni dettagli, si sovrappone perfettamente alla vita vera, fin troppo vera.

Un film interamente in lingua originale con sottotitoli, una fotografia perfetta, la scelta dei primi piani, che puntano spesso sugli occhi dei protagonisti e poi il racconto. Un racconto fatto \”da dentro\”, infatti questo film non è una cosa \”che accade\” ma \”che ti accade\”, perché sei dentro, empatizzi con i protagonisti, soffri e senti tutta la crudeltà degli eventi.

È la storia di due adolescenti, come i figli di molti di noi, con gli stessi sogni, meno mezzi ma lo stesso sguardo puntato sulla possibilità di avere una opportunità che sia adeguata al proprio talento. Una storia di realtà apparentemente normali, in luoghi dove si trova anche il tempo per sorridere, ballare; una apparente normalità che reca in sé gioia e dolore, e poi il rapporto madre figlio, fratello sorella. Questo attaccamento familiare è molto spiccato, così come spesso viene fuori dai racconti documentaristici. Una normalità dunque, ed è qui che Garrone compie il primo miracolo. Entra nella comunità senegalese, ne scorge gli usi e i costumi, i dettagli architettonici, i colori, i suoni, i sorrisi, la vita di tutti i giorni, fatta – per i protagonisti – di scuola, musica, youtube, svago ed anche lavoro nero; quel lavoro nero che permetterà ai due ragazzi di disporre di una somma di denaro che possa portarli in Europa, per rincorrere un sogno.

Le paure, i dubbi; la paura che atterrisce e i dubbi che si fanno certezza.
Su tutto l\’Amore, nelle sue più svariate forme.
Garrone racconta gli animi, la capacità di empatizzare con il prossimo, la forza dello stare \”dalla stessa parte\”, il sostegno reciproco.
Ma nella storia di Seydou  e Moussa un lungo, tortuoso ed estenuante viaggio, che nulla avrà a che fare con la loro idea di viaggio. Una vera e propria odissea, che attraverserà terre e pericoli, dolore e sofferenza, paura e a tratti rassegnazione.

Possiamo solo immaginare quello che sono costretti ad affrontare i migranti prima di salire sulle carrette del mare che non sempre arrivano a toccare terra. Garrone porta lo spettatore in quel viaggio, mette tutto davanti alla telecamera che cammina in ognuno di quei passi a volte stanchi fino allo sfinimento; attraverso luoghi, sabbia del deserto, notti insonni e torture nelle prigioni libiche.

Quello che si scopre dal film è che tutti coloro che, per motivi diversi decidono di partire, portano con se una somma di denaro che non avranno più una volta arrivati al momento di prendere il largo. Esiste un sistema mafioso, una sorta di associazione a delinquere che scandisce tutte le fasi del viaggio dei migranti, che sono concatenati e mirati a togliere tutto a quelle persone che vedono le proprie speranze affievolirsi passo dopo passo.
È il racconto di migranti che – questo poco si sa – sono perennemente ostaggio di qualcosa o di qualcuno.

Garrone punta la cinepresa sui cadaveri che restano lì, dove nessuno potrà più trovarli, coperti dalla polvere del deserto, o dentro le sale delle torture dalle quali in pochi escono vivi. Molte delle persone che sopravvivono alla prigionia spesso vengono venduti come operai, muratori, idraulici al servizio di signori che di essi fanno l\’uso che vogliono e che solo talvolta li liberano pagando loro l\’ultima parte del viaggio.

Non ti domandi mai per tutta la durata del film perché quel titolo \”Io capitano\”. Lo scopri negli ultimi 20 minuti di un film che ne dura 120. Seydou, il ragazzo sedicenne pieno di sogni, diventa \”lo scafista\”, colui che guiderà senza neanche saper nuotare una imbarcazione sgarrupata, carica di anime che dovrà proteggere e portare in salvo, proprio come fa un vero capitano.

Il lieto fine (spoiler) è il compimento di una storia che ha come scopo quello di mettere insieme piccoli tasselli di vita, che a volte sono spietati, ma che quel lieto fine lo meriterebbero sempre, senza però averlo. Una scelta del regista, una scelta di chi nella pellicola ha saputo raccontare tutto con Amore, compreso l\’amore.

Bravissimi gli attori protagonisti, che hanno affrontato questa esperienza in maniera pulita, autentica, con la veracità di chi sa che può farcela, ma che per farcela deve lasciarsi guidare.
Ma Garrone fa una splendida costruzione anche di personaggi secondari, che sono così caratterizzati che non passano inosservati. Personaggi messi lì al fine di raccontare con le loro assurde dinamiche, quella storia. Sono tutti gli uomini che in qualche modo provano a dissuaderli e al contempo ad incoraggiarli. Il ciabattino, l\’uomo dei passaporti, il farmacista. Tutti dettagli mai a caso.

Ma la critica di un film merita una critica, e dunque:
Quel finale poteva essere altro, ed io un altro finale l\’ho immaginato e se così fosse stato non mi sarebbe piaciuto. Molti lo hanno criticato, ma in realtà è il compimento di quella storia, è il finale che chiude il cerchio, che si distacca dalla realtà quel tanto che basta per recuperare le caratteristiche filmiche; perché l\’ispirazione che ha mosso l\’idea del film, maturata nelle storie vere con le quali Garrone è entrato in contatto, si solleva, come le immagini oniriche che accompagnano il protagonista, e che fanno da controcanto alla disperazione di una notte troppo buia che sembra non finire mai.
L\’unica forzatura che ho trovato, forse per una esigenza di copione, è la capacità dei due protagonisti di ritrovarsi dopo essersi dovuti separare. Si ritrovano, alla fine del viaggio, prima del finale.
Ma a cucire tutto alla fine l\’Amore.
L\’amore della mamma di Seydou, un amore talmente forte e totalizzante che la porta a rimproverarlo con così tanta veemenza, per dissuaderlo dall\’idea di un viaggio della fortuna, pericoloso e imprevedibile.
L\’amore che il ragazzo mostra per la donna che nel percorso estenuante a piedi nel deserto resta indietro, non ce la fa più e chiede aiuto. E lui prova ad aiutarla, rischiando di restare indietro e di morire anch\’egli in quel niente, così come muore quella donna, tra le sue braccia.
L\’amore del padre di famiglia che dopo le torture nelle prigioni libiche lo accoglie in un abbraccio, lo protegge, lo tiene con sé, se ne prende cura proprio come se fosse suo figlio.
L\’amore di Seydou nei confronti di quel cugino che vuole rivedere, mentre vive la sua vita durante quel viaggio nell\’unico desiderio di riabbracciarlo.
L\’amore di Seydou capitano che seda gli animo a bordo della sua barca, che incoraggia a resistere la donna che sta per mettere al mondo un bimbo nel bel mezzo del mar mediterraneo.
E poi l\’amore che dentro questo film volerà agli Oscar, premio che forse non vincerà ma che resterà impigliato per sempre nel cuore di chi non guarda ai migranti come coloro che vengono a rubarci qualcosa o a delinquere, ma come uomini e donne che hanno una vita e dei sogni che sono identici a quelli di ognuno di noi, ma che vivono un perenne svantaggio che a volte si annulla solo nella morte, che nel film di Garrone però, non è la fine di tutto, ma la forza di un pensiero che sopravvive anche al dolore.

 

 

 

 

Notizie correlate

Leave a Comment