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Poche volte accade che un film che tratti eventi realmente accaduti sappia colpire emotivamente in maniera così profonda lo spettatore, che vorrebbe che quelle immagini fossero solo un film. Ed invece “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” non è solo un film è uno spaccato autentico e toccante della vita di un’artista straordinaria, di colei che fu una delle voci jazz più belle di sempre, forse l’unica davvero inimitabile, ed è per questo che l’interpretazione di Andra Day -al suo debutto cinematografico che le ha portato però una nomination all’Oscar come migliore attrice e un Golden Globe – risulta essere estremamente coinvolgente. Per quel ruolo la Day, non ha dovuto solo studiare ogni movenza ed espressione (non solo canora) della grande artista, ma anche “cambiarsi i connotati” con un significativo dimagrimento e iniziando a bere e fumare, per provare ad incarnare nella maniera migliore possibile (cosa riuscitissima anche grazie a trucco, parrucco e outfit) colei che visse una vita che le diede fama internazionale, ma anche una immensa dose di dolore e che fu vittima di una vera e propria persecuzione da parte del Governo americano che per mano della sezione narcotici dell’FBI, ha provato fino alla sua morte, a distruggere ogni suo tentativo di utilizzare la sua notorietà per risvegliare le coscienze, per difendere i diritti del suo popolo, per denunciare i linciaggi ai danni della comunità dei neri nel Sud degli Stati Uniti.
E questo lo faceva attraverso ciò che meglio le riusciva ossia cantare e in quel suo famoso quanto censurato pezzo, Strange Fruit, pezzo scritto nel 1939 da un insegnante del Bronx, che raccontava proprio dell’impiccagione, nella metafora di strani frutti, con sangue sulle foglie e sulle radici, appesi agli alberi di pioppo.
Questa immagine viene evocata nel film di Lee Daniels, come se fosse un momento onirico, e vede una Billie Holiday sconvolta e in preda alla disperazione. È questa però una delle scene che sembrano slegate da tutto il resto.
Quasi tutta la vita artistica della strepitosa cantante gira intorno a quella canzone, che lei inserisce nei suoi concerti, quelli dove i neri e i bianchi la considerano una vera star, quelli che la osannano, che la fanno sentire importante, come forse mai si era sentita, considerata la vita difficile e assurda che il destino le aveva riservato fin quando non è giunta la notorietà. Ma anche quel momento della sua esistenza, è destinato ad essere una continua lotta contro chi la vuole distruggere, affossare, annientare.
L’Fbi finisce per infiltrare i suoi uomini, neri, quelli che mai avrebbero potuto salire le scale del ruolo di comando ma che erano ideali per essere le pedine che fanno il lavoro sporco, con l’unico scopo di fermare Lady Day e la sua canzone di denuncia. E l’avrebbero fermata a qualunque costo, compreso usando letteralmente la sua dipendenza dalla droga.
Sarà l’agente federale Fletcher (Trevante Rhodes) ad incastrarla prima e ad innamorarsene poi. Ma Billie Holiday non riesce a godere dell’amore, pensa di non meritarlo, usa il sesso come merce di scambio, così come aveva fatto sin da bambina nei bordelli. Si fa usare, picchiare, annientare e questo dolore e questo suo modo di vivere il confronto con l’altro sesso lo canta anche nelle sue canzoni. Anche quel tipo di rapporto è tossico.  E Andra Day è capace di rendere percepibile tutta la malinconia e la tristezza di quel personaggio così eccessivo, sensuale e sfrontato, è in grado di far pulsare il corpo e la mente di Billie Holiday, da gran diva sui palcoscenici di tutto il mondo, a quando si spoglia nuda per evitare una perquisizione, dalle innumerevoli scene in cui viene mostrata una Lady Day che si droga perché senza l’eroina proprio non sapeva vivere, alla forza del suo essere, che la pellicola riesce a consegnare al pubblico.
Lee Daniels fa però un lavoro “troppo pulito”, quasi didascalico, sorretto però da una fotografia impeccabile e ben curata. Ed usa anche il suo linguaggio, usa “il gergo”, senza piegarsi a tutti i costi ai canoni holliwoodiani. Eppure riesce a raccontarla e a renderla immortale proprio in quel suo essere incapace di un equilibrio personale ma capace di brillare come nessuna mai. La struttura narrativa semplice, considerato che narra di uno specifico spaccato della vita dell’artista, avrebbe potuto aiutare il regista a spingersi un po’ oltre, dentro il personaggio, ed invece insiste molto su palcoscenici, su camerini, sulla droga.
Chi non conosce la storia di Billie Holiday, non sarà in grado di notare come il ruolo di Lester Young (Prez) – che nella vita vera fu non solo un musicista stratosferico ma che ebbe un rapporto empatico e quasi viscerale con Lady Day (fu lui a darle quel soprannome) – è relegato ad amico e musicista che la segue sul palco. Un misero accenno poi viene fatto al passato di Billie Holiday, quando invece un film così lungo (130 minuti) avrebbe potuto utilizzare le anacronie, nello specifico della analessi per far comprendere il motivo di alcune scelte, di alcuni sentimenti, di alcune disperazioni. Ma questo nel film non avviene, si limita ad incentrare la storia cinematografica sulla persecuzione ai danni di Billie Holiday. Il regista si aiuta anche con delle immagini di repertorio, ma lascia che sia la voce originale, meravigliosa e prorompente di Andra Day ad incantare, da sopra quel palco cinematografico, lasciando che lo spettatore venga letteralmente investito da tanta bravura. E se anche conoscendo ogni sfumatura della voce di Lady Day, che aveva quella capacità di rendere sublime quel suo originalissimo “naturale lamento” mentre cantava, si fa fatica a pensare che qualcuna possa imitarla, il pathos è così imponente guardando il film, che se si chiudono gli occhi si finisce dritti dritti in uno dei locali dove era solita cantare. E allora capolavori come All of me, Solitude, Them There Eye, prendono respiro e lì ci si arrende.
C’è una difficoltà a raccontare i personaggi che ruotano intorno alla figura di Billie Holiday.
Però c’è da dire che ci voleva il regista nero statunitense Lee Daniels a riportare l’attenzione su un’artista che non ebbe mai abbastanza rilievo.
Non si rimane indifferenti davanti a scene che sono state ben costruite, come quando Billie Holiday esce con un cappotto e sotto solo una guepiere per andare a cercarsi una dose, e ci si indigna quando un inserviente nero le proibisce di accedere ad un ascensore solo perché nera.
Un film da vedere a prescindere se si è o meno appassionati di jazz. Certo, si fa fatica, se si ama visceralmente Billie Holiday e si è compreso, attraverso la sua musica e il suo modo di cantare, quello struggimento, che ha bisogno solo di orecchi e cuore.

Strange Fruit fu canzone dell’anno nel 1978, ma ad oggi ancora negli Stati Uniti non esiste una legge contro il linciaggio dei neri.

 

Erano gli anni ’30 e nel panorama musicale di quel tempo c’erano due signori, Billie Holiday e Lester Young, che insieme realizzarono una  serie di cose memorabili.

Potrei fare alcuni esempi, di quelli che saltano subito alla memoria: “That Way”, “Travlin’ All Alone” e “Easy Livin”.

Questi sono solo alcuni dei pezzi che li hanno visti vicini e complici. Ma la collaborazione musicale e l’amicizia personale che ci fu tra i due titani del jazz, ebbe svariate sfumature. Billie e Lester ebbero un incredibile rapporto intuitivo, quando capirono che avrebbero dovuto fare musica, insieme. 

Ascoltando le loro registrazioni, è chiaro che si ispiravano a vicenda, musicalmente, portando però in quel connubio parte della  proprio vissuto, della propria personalità e del proprio bagaglio emotivo.  

Cantare, per Billie Holiday era un modo per sopravvivere.
LEI, Eleonora Fagan, era nata “povera e nera”, a Baltimora nella primavera del 1915. Era cresciuta a Harlem, insieme a sua madre che lavorava come domestica.
Billie sosteneva che la depressione per lei non fosse nulla di nuovo, perché aveva visto sempre e solo lei, durante la sua esistenza e con lei era cresciuta.
Billie aveva 15 anni, quando si presentò in un locale di Harlem per fare un provino per un posto di lavoro da ballerina. Le dissero che non era “abbastanza brava”  per essere una ballerina e allora provò a cantare, li sul posto e fu così che scopri che le piaceva così tanto farlo, che avrebbe anche potuto pensare di fare quello, come lavoro, per sopravvivere. 

Il suo cantare così incisivo e sofisticato, la portò ad esibirsi nei club di Harlem, nei primi anni ’30, quando fu  scoperta dal un produttore discografico, John Hammond. Da allora incominciò il successo come una delle più grandi interpreti vocali americane di jazz e blues.

 LUI, Lester Young, tenorsassofonista, proveniva da una famiglia di New Orleans, nella quale erano tutti musicisti.
Quando aveva dieci anni, Lester suonava il rullante nella banda di suo padre, viaggiando in tutto il Midwest, con uno spettacolo itinerante, nei tendoni.
Fu durante la sua adolescenza, che partorì l’obiettivo di fare per conto suo. 

All’inizio della sua carriera, Lester fu sollecitato a “smorzare” quel suo stile musicale così unico.
Si pensi a quando cominciò a suonare con l’orchestra di Fletcher Henderson, e la moglie del leader, lo costrinse ad ascoltare i dischi di Coleman Hawkins più e più volte, in un vano tentativo di convincerlo a rinunciare al suo approccio lirico e di imitarne lo stile.
Fu solo quando Lester si unì all’orchestra di Count Basie presso la Sala Reno a Kansas City nel 1934, che il suo stile ebbe la possibilità di fiorire.

Billie e Lester si incontrarono ad una jam session di Harlem nei primi anni ’30 e poi lavorarono insieme nell’orchestra di Count Basie, nei locali notturni di New York, sulla 52esima. Ad un certo punto della loro conoscenza, Lester si trasferì nell’appartamento che Billie Holiday condivideva con la madre, Sadie Fagan. La storia racconta che Lester era un grande appassionato di cucina casalinga e stanco di vivere a New York in stanze infestate dai topi d’albergo, decise di accettare l’invito di Sadie ad assaggiare le sue delizie e così lui decise di far parte di quella famiglia. 

Fu quello un piacevole cambiamento per Billie e sua madre, che si ritrovarono ad avere un uomo per casa, e Lester era sempre un vero gentiluomo. Tra Lester e Billie ci fu del “tenero”, in molti lessero un grande amore, anche se lei, ha sempre sostenuto che la loro relazione fu solo platonica. 

Fu lei a dare a Lester il soprannome di “Prez”, ossia “presidente” perché lui era l’unico in cima  nei suoi pensieri. Per Billie, Lester era il migliore, il più talentuoso di tutti, il più eclettico e insieme vissero gioie e dolori, trionfi e periodi di magra. A sua volta lui, diede a Billie il famoso soprannome, “Lady Day”.

E questo perché lei era una “signora”, sofisticata, schiva e schietta. E poi quel “Day” diminutivo di “Holiday”.

Quando a Billie fu chiesto di spiegare il suo stile di canto, rispose: “Non penso mai che sto cantando. Mi sento come se stessi giocando con un corno nel quale ci soffio di dentro. Cerco di improvvisare e quello che viene fuori è quello che sentite. Odio cantare “diritto”, devo sempre cambiare un brano a modo mio. Questo è tutto quello che so”.

E a proposito di Lester Young, Billie ha detto:“Per me Lester é  il più grande del mondo perché ama se stesso e la sua musica. I miei dischi preferiti sono quelli che ho fatto con Lester, perché mentre lui suona il suo sassofono tu lo ascolti e ci puoi quasi sentire le parole. “

 Lester Young e Billie Holiday erano entrambi anime particolarmente sensibili, facilmente ferite dai colpi duri del “music business” e dal razzismo palese, nell’America del 1930.  Per alleviare questo dolore, entrambi hanno trovato conforto nella droga e nell’alcool.

Lester Young morì il 15 marzo 1959 all’età di 49 anni. Billie Holiday lo seguì pochi mesi dopo, nel mese di luglio. Ne aveva 44, di anni.
Questi due vecchi amici finirono la loro vita in maniera tragica, insieme e il loro essere geni della musica e del jazz, fu logorato dall’uso pesante di droghe e alcool. 

Attraverso la loro eredità, lasciata in registrazioni e meraviglie – e che prossimamente vi racconterò –  Prez e Lady Day continuano a intrattenere il pubblico e di influenzare il corso della musica jazz.

 

Simona Stammelluti 

Erano gli anni ’30 e nel panorama musicale di quel tempo c’erano due signori, Billie Holiday e Lester Young, che insieme realizzarono una serie di cose memorabili.

Potrei fare alcuni esempi, di quelli che saltano subito alla memoria: “That Way”, “Travlin’ All Alone” e “Easy Livin”.
Questi sono solo alcuni dei pezzi che li hanno visti vicini e complici.
Ma la collaborazione musicale e l’amicizia personale che ci fu tra i due titani del jazz, ebbe svariate sfumature.
Billie e Lester ebbero un incredibile rapporto intuitivo, quando capirono che avrebbero dovuto fare musica, insieme.

Ascoltando le loro registrazioni, è chiaro che si ispirarono a vicenda,
musicalmente, portando però in quel connubio parte della proprio vissuto, della propria personalità e del proprio bagaglio emotivo.
Cantare, per Billie Holiday, era un modo per sopravvivere.

LEI, Billie Holiday – nota come Lady Day, ma all’anagrafe Eleonora Fagan – era nata “povera e nera”, a Baltimora intorno al 1915. Era cresciuta a Harlem, insieme a sua madre che lavorava come domestica.  Billie sosteneva che la depressione per lei non fosse nulla di nuovo, perché aveva visto sempre e solo lei, durante la sua esistenza e con lei era cresciuta.
Billie aveva 15 anni, quando si presentò in un locale di Harlem per fare un provino per un posto di lavoro da ballerina.
Le dissero che non era “abbastanza brava” per essere una ballerina e allora provò a cantare, lì sul posto, e fu così che scopri che le piaceva così tanto farlo che avrebbe anche potuto pensare di fare quello, come lavoro, per sopravvivere.
Il suo cantare così incisivo e sofisticato, la portò ad esibirsi nei club di Harlem, nei primi anni ’30, quando fu scoperta dal un produttore discografico, John Hammond.
Da allora incominciò il successo come una delle più grandi interpreti vocali americane di jazz e blues.

LUI, Lester Young, tenorsassofonista, proveniva da una famiglia di New Orleans, nella quale erano tutti musicisti.
Quando aveva dieci anni, Lester suonava il rullante nella banda di suo padre, viaggiando in tutto il Midwest, con uno spettacolo itinerante, nei tendoni.
Fu durante la sua adolescenza, che partorì l’obiettivo di fare per conto suo.
All’inizio della sua carriera, Lester fu sollecitato a “smorzare” quel suo stile musicale così unico.
Si pensi a quando cominciò a suonare con l’orchestra di Fletcher Henderson, e la moglie del leader, lo costrinse ad ascoltare i dischi di Coleman Hawkins più e più volte, in un vano tentativo di convincerlo a rinunciare al suo approccio lirico e di imitarne lo stile.
Fu solo quando Lester si unì all’orchestra di Count Basie presso la Sala Reno a Kansas City nel 1934, che il suo stile ebbe la possibilità di fiorire.

Billie e Lester si incontrarono ad una jam session di Harlem nei primi anni ’30 e poi lavorarono insieme nell’orchestra di Count Basie, nei locali notturni di New York, sulla 52esima.
Ad un certo punto della loro conoscenza, Lester si trasferì nell’appartamento che Billie condivideva con la madre, Sadie Fagan.
La storia racconta che Lester fosse un grande appassionato di cucina casalinga e stanco di vivere a New York stanze infestate dai topi d’albergo, decise di accettare l’invito di Sadie ad assaggiare le sue delizie e così lui decise di far parte di quella famiglia.
Fu quello un piacevole cambiamento per Billie e sua madre, che si ritrovarono ad avere un uomo per casa, e Lester fu sempre un vero gentiluomo.
Tra Lester e Billie ci fu del “tenero”, in molti lessero un grande amore, anche se lei, ha sempre sostenuto che la loro relazione fu solo platonica.
Fu lei a dare a Lester il soprannome di “Prez”, ossia “presidente” perché lui era l’unico in cima nei suoi pensieri.
Per Billie, Lester era il migliore, il più talentuoso di tutti, il più eclettico e insieme vissero gioie e dolori, trionfi e periodi di magra.
A sua volta lui, diede a Billie il famoso soprannome, “Lady Day”.
E questo perché lei era una “Signora”, sofisticata, schiva e schietta.
E poi quel “Day” diminutivo di “Holiday”.

Quando a Billie fu chiesto di spiegare il suo stile di canto, rispose:
Non penso mai che sto cantando. Mi sento come se sto giocando con un corno nel quale ci soffio di dentro. Cerco di improvvisare e quello che viene fuori è quello che sentite. Odio cantare diritto, devo sempre cambiare un brano a modo mio. Questo è tutto quello che so“.
E proposito di Lester Young, Billie ha detto:
Per me Lester é il più grande del mondo perché ama se stesso e la sua musica. I miei dischi preferiti sono quelli che ho fatto con Lester, perché mentre lui suona il suo sassofono tu lo ascolti e ci puoi quasi sentire le parole.

Lester Young e Billie Holiday erano entrambi anime particolarmente sensibili, facilmente ferite dai colpi duri del “music business” e dal razzismo palese, nell’America del 1930.
Per alleviare questo dolore, entrambi hanno trovato conforto nella droga e nell’alcool.

Lester Young morì il 15 marzo 1959 all’età di 49 anni.
Billie Holiday lo seguì pochi mesi dopo, nel mese di luglio.
Ne aveva solo 44, di anni.
Questi due vecchi amici finirono la loro vita in maniera tragica, insieme e il loro essere geni della musica e del jazz, fu logorato dall’uso pesante di droghe e alcool.

Attraverso la loro eredità, lasciata in registrazioni e meraviglie – e che magari un giorno a venire vi racconterò – Prez e Lady Day continuano a intrattenere il pubblico e di influenzare il corso della musica jazz.

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Simona Stammelluti