La nobile arte dell’insegnamento delle regole

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Come sempre ho bisogno di metabolizzare, ho bisogno di capire (per quanto possibile) e di riflettere. Poco altro si può fare quando la cronaca ci restituisce una realtà che non si può ignorare … non più. Siamo ad un punto di non ritorno, la violenza ha la forza di un potere subdolo e ignobile. La bellezza della vita viene sotterrata, infranta, umiliata, annientata. C’è un dolore che si fa eco e una mostruosità che si insinua sempre più nei nostri giorni, nelle vite di tutti, rendendoci un po’ colpevoli e forse anche complici.
A che serve un processo, per 4 mostri che uccidono un loro coetaneo?
Una crudeltà così efferata, una colpevolezza così esplicita, che non si coniuga con il principio di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Chissà se un ergastolo potrebbe redimerli, ma io alla redenzione faccio fatica ormai a credere. Perché quei giovani così violenti, che si sono sentiti padroni del mondo e della vita altrui, che hanno massacrato di botte un giovane con tante speranza, un sogno nel cassetto e tutta una vita davanti, sono figli di famiglie che non hanno saputo insegnare loro il rispetto per la vita altrui e delle regole, non hanno insegnato loro l’educazione al vivere, non hanno saputo iniettare nelle loro coscienze la differenza tra bene e male, la forma di quell’essere parte di una società nella quale le differenze possono migliorarci, non scavare distanza che poi annientano, rendendo tutto così assurdo.
Concorso in omicidio preterintenzionale.
Calci, pugni senza sosta fino alla morte.
Non c’entra la passione per le arti marziali (che invece insegnano il senso di disciplina, il rispetto delle regole, l’autocontrollo, l’onore e lo spirito di sacrificio) né i tatuaggi, né il look. Non c’entra l’eventuale emulazione di violenza che da sempre nel cinema viene raccontata come parte di un mondo che si divide tra buoni e cattivi.
C’entra la mancanza di cultura, c’entra quella sottocultura che innesca questo genere di tragedia, c’entra una vita senza regole, il culto della violenza, i precedenti di questi ragazzi avvezzi alla rissa facile, su cui grava ad oggi un’accusa così tremenda.

In fondo che ha fatto, ha solo ucciso un extracomunitario“. Sono le parole dei familiari di uno dei presunti assassini. I genitori di Willy Monteiro, capoverdiani sono perfettamente integrati, e non “estranei” a quella comunità.
Se esiste un aggravante razziale saranno gli inquirenti a stabilirlo, ma se si cresce in un ambiente familiare in cui un ragazzo nero viene considerato “solo un extracomunitario” allora non c’è più speranza per una società che diventa sempre più insensibile al dolore.
Saranno testimoni e immagini di telecamere a dire come siano andate le cose, ma c’è una condizione sociologica che deficita, un grado di civiltà che si è assottigliato fino a spezzarsi, una disattenzione generale verso la crescita di una nuova generazione che non ha maturato l’importanza del limite che è alla base della differenza tra il lecito e il reato.
20 minuti per uccidere, per togliere la vita.
Un tempo sospeso che annienta e cambia i connotati della vita di molte persone.
Una realtà che ormai oltre ad una morte a tempo, ha sdoganato tutto, dalla violenza verbale al razzismo, dal delirio di onnipotenza all’atto di follia. Torniamo ad educare, al rispetto delle regole, all’onore, all’autocontrollo, allo spirito di sacrificio.
Per ora ci resta la speranza che chi ha commesso il crimine venga assicurato alla giustizia, venga punito in base al crimine commesso e che possa arrivare assieme alla giustizia terrena, anche una redenzione, affinché il male si esaurisca, piano e inesorabilmente, dentro le coscienze e oltre le sbarre di una prigione.

Simona Stammelluti 

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