“Judy”: un biopic sulla tenerezza di un’artista che nessuno amò mai veramente

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Ieri sera ho visto “Judy” il film di Rupert Goold nelle sale in questi giorni, con una straordinaria Renée Zellweger (candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista) che ha incarnato in maniera impeccabile Judy Garland nel racconto dell’ultimo periodo della sua carriera.
Non nascondo che sul finale del film, in una sala in cui è regnato un silenzio assoluto per tutta la durata della pellicola, mi sono commossa;

quella commozione esplosa nel mentre la talentuosa cantante capisce che ormai è arrivata la fine e non ci sarà più nulla per lei, e così canta per l’ultima volta “Over the rainbow”, si commuove, le si rompe la voce, non ce la fa a continuare e allora il pubblico londinese si alza in piedi e canta al posto suo, prima che si apra un applauso infinito.

Ma quella commozione parte all’inizio e accompagna tutta la durata del film mentre allo spettatore è dato di sapere che la vita può esserti nemica sin da subito, quando un talento può divenire una condanna e quando tutta la tua esistenza diventa pesantissima da portare sulle spalle, malgrado la leggerezza della fama, della notorietà, dei soldi che però poi finiscono, e ti costringono a fare scelte che non vuoi, vivere luoghi che ti diventano ostili, mentre rinunci all’unica cosa che ti interessa davvero, i tuoi figli.
Una serie di flash-back verso un passato di Judy bambina prodigio, privata della sua giovinezza, incastrata tra anfetamine per non avere fame e sonniferi per poter dormire, mentre con le trecce di Dorothy nel famoso “Mago di Oz”, viene plagiata da un produttore despota, e sogna un futuro che però non le riserverà la felicità. Una felicità cercata in amore effimeri, mentre sposa 5 uomini senza amarne nessuno e senza mai essere amata veramente.

La tristezza negli occhi truccati di nero di una Judy Garland con i capelli corti, magra e costretta a lasciare i suoi figli più piccoli con il padre perché non può più prendersene cura. Ci prova, lasciando tutto e trasferendosi a Londra dove ancora la osannano, ma alla fine fallisce. I figli restano lontano da lei, e lei lontana da se stessa.

Un excursus in un periodo storico anche, non solo nella biografia di quella che fu una grande artista holliwoodiana; il periodo dello star system, della droga, dell’alcool, di quel sistema in cui pur di fare soldi si stritolano gli artisti fino a farli divenire macchine che però si inceppano e allora vanno sostituite.

Rupert Goold punta l’attenzione su quel meccanismo, su come i soldi e la fama sono le uniche luci sulla vita di un personaggio che anziché viverla la vita, passa l’esistenza a convincersi di essere “solo una goccia nel mare” e che dunque, non ci si può permettere nessuna défaillance. Ma quelle défaillance Judy le incontra tutte, nell’ultima stagione della sua vita, mentre scopre di essere sola, con un bicchiere in mano, vestita di quella tenerezza  che percorre tutto il film, e arriva prorompente fino allo spettatore.

Nella pellicola solo un piccolo accenno al rapporto tra Judy Garland e sua figlia Liza Minnelli nata dal secondo matrimonio della cantante con il regista Vincente Minnelli. Le immagini sono quelle di una festa a casa di sua figlia, dove Judy si reca solo per avere un posto dove stare.

Renée Zellweger – giustamente candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista – è perfettamente calata nel personaggio; movenze, manie e quel modo di muovere gli occhi che fu segno distintivo della Garland. Credibile e amabile, mentre cerca un contatto umano sincero e autentico che trova nella donna che si occupa di lei durante i concerti londinesi e in quella coppia gay, innamorati della sua arte canora e che per una sera riescono a non lasciarla sola e non farla sentire sola.

La fotografia non eccellente, riesce a dare alla pellicola i toni e a riprodurre la forma dell’epoca; molti i primi piani che mettono in risalto lo sguardo nel vuoto di Judy bambina abbandonata al suo successo e di Judy donna abbandonata al suo insuccesso.

Un film senza sorprese, canonicamente calato nel genere biopic, con una regia semplice ma efficace, che da alla protagonista la possibilità di tornare a “casa”, dentro un dolore che nessuna ribalta fu capace di cancellare mai.

 

Simona Stammelluti

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