Intorno agli anni venti del novecento; Girgenti a tavola la domenica e nei giorno di festa.

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di  Toto  Cacciato

La cucina è sempre appartenuta alla storia, al costume e alla tradizione popolare, così come la elaborazione: cucinare i prodotti alimentari offerti dal territorio.

I prodotti, i frutti dei campi e degli orti, sono arricchiti in qualità nelle felici zone climatiche, e rinomate sono le trasformazioni in pregevoli alimenti  e ricercati piatti.

Negli anni recenti vi è stata una grande attenzione alla cucina e a nuove invenzioni, e per quanto sia possibile, una nuova cultura culinaria è presente nella moda e nel costume contemporaneo, e questa nuova disciplina ha già laureato virtuosi chef e dato fama a  prestigiosi ristoranti.

Nuove invenzioni, cioè accostamenti di nuovi sapori, portano a nuove pietanze, in curiosi piatti di nuovi gusti e sapori, nuovi anche gli argomenti, molto ragionati e raccontati fino a creare narrazione letteraria: le  proposte culinarie tanto ragionate fino alla scoperta di “valori scientifici” e di “virtuose abilità”.

Gli apprezzamenti vengono da chi ha un palato fine, finissimo,  mentre ad altri tutto appare come una dotta speculazione filosofica.

Senza nulla voler togliere al merito delle ricerche culinarie, alle scoperte   di nuovi gusti, alle sperimentali  elaborazioni, volgiamo il nostro interesse alla cucina nel Novecento: come poteva essere un pranzo in famiglia la domenica, giorno di festa, ritenendo, anche, che è un privilegio conservare i piatti della tradizione.

Girgenti, in uno scorcio degli Anni Venti del Novecento, dopo gli sconvolgimenti della Prima Guerra Mondiale, stava quieta sul suo colle, di fronte al mare, e con le sue stradine acciottolate  i cortili lindi, e ringhiere intrecciate di pergolati pensili.

In prossimità dell’ora del pranzo domenicale, nell’aria delle vie e dei cortili, odori di pietanze in cottura, di aromi, di salse, fritture di carne e di pesce e altre.

Il rito del pranzo domenicale, ancor più in occasione di feste sociali o religiose, imponeva una varietà di portate insieme ad una letizia e festosità tutta da vivere in famiglia.

A mezzogiorno suonavano le campane, e come consuetudine molti  si segnava con la croce; le cucine erano animate, sotto le pendole bruciavano legna e carbone, l’acqua bolliva, le padelle friggevano di tutto, polpette di carne, pesce  e verdure, e l’odore, vaporoso e intenso,  saturava la cucina e usciva in strada.  La tavola era già apparecchiata con bianca tovaglia, posate e piatti rilucenti e al centro una panciuta bottiglia riluceva il color rosso rubino del vino.

Primi piatti. Portate  di pasta, un punto fermo nella tradizione culinaria siciliana; le bionde spighe di grano ondeggiavano nei campi intorno alla città, ottima la farina dei pastifici locali, ottima la pasta, di tanti formati, ma preferiti nelle festività  rigatoni e tortiglioni e gli sfuggenti  bucatini e ziti. I condimenti erano vari, ma primeggiava il rosso  intenso del pomodoro maturo.

Secondi piatti. Potevano essere delle pietanze elaborate: come carne di vitello, di pollo, cotolette varie, arrosto di vitello, polpette al basilico, frittate di carciofi.

Il pesce era molto presente, specie nei mesi estivi, come le sarde a beccafico, calamari e triglie e si alternavano con pesce spada e tonno. Una grande insalatiera  ricca  di colori nella varietà delle erbe, accompagnava le pietanze.

Dolci. Un pranzo festivo non poteva chiudersi senza un bel  “cannolo”,  il dolce di antica e gradita tradizione siciliana.

Ripieni di ricotta, i cannoli hanno, una per parte, l’immancabile ciliegina; innevati da zucchero a velo, è un dolce che già alla vista   porta allegria a tavola, ma anche un fugace sentimento di conclusione: la festa è quasi finita.

Ma la festa non è ancora conclusa se, a sorpresa, giunge sulla tavola la “cassata”, il dolce più celebre e tradizionale della Sicilia.

La frutta nella stagione estiva aggiunge colori e gusto alla tavola, sono tanti i prodotti e vanno dalle pesche, all’uva, alle angurie, ciliegie, fichi, fragole e meloni.

Il pranzo è concluso, e sta tutto  nella tradizione, che a ben vedere da quel tempo nulla è cambiato; è soddisfacente e pare che non urgono nuove invenzioni, anche se il divenire porta sempre nuovi esiti e nuove sperimentazioni.

 Girgenti, ripartiamo da quei vicoli di quel tempo per visitare la città. Dal colle scendiamo verso  valle attraverso gli orti, i vigneti, mandorleti e poi oltre ancora le spiagge assolate e solitarie. A sera si vedevano in mare le luci delle barche lampare a pescare. Ricorrenti erano le feste religiose, seguite con devozione e poi il al viale, festoso di luminarie, torroni e gelati di campagna.

Passeggiava la  borghesia locale, aspirante a tante cose e intanto sfoggiava cappelli, rasi e gioielli. Passeggiavano, le ragazze, un po’ segregate, un po’ annoiate, passeggiavano i letterati, i politici e i commendatori, frequentatori del Circolo Empedocleo mentre la vetusta nobiltà, stava a riposo al Circolo dei Nobili, in Via Atenea.

Stavano anche, a meritato riposo, i lavoratori soci del Circolo Operaio Feace

Girgenti, la sua Valle, con le vecchie glorie del suo passato, (V° secolo a.C.); eventi di notevole portata storica di cui restano mute testimonianze: i ruderi e le colonne disgiunte dei Templi dorici, raccolti nella Valle dei Templi.

Sito  importante di storia antica, (Akragas), sito esclusivo dell’arte classica, scelto e visitato da turisti italiani e molti turisti stranieri.

Girgenti fino al 1927, quando cambiò nome in Agrigento, per una revisione dei nomi della città storiche, voluta dal Governo di allora.

P.S. Si dice da più parti che gusti e sapori di oggi, non sono più quelli squisiti di una volta. Si è cosi, e io ci credo.

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