De Andrè canta De Andrè: un concerto musicalmente impeccabile e un “tempo implicito” ancora tutto da raccontare

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“Quando uscì “Storia di un impiegato” era il 1973. Quello era il sesto concept album, scritto ancora una volta con Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani. Quando uscì, insomma, successe una cosa che non era mai accaduto prima: Fabrizio De Andrè voleva bruciare il disco. “Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile; so di non essere riuscito a spiegarmi” – diceva in una intervista al Corriere della Sera nel gennaio del 1974. Questo disco – il cui titolo già suggerisce l’esperienza che si andrà a fare – come dirà lo stesso Nicola Piovani in uno speciale su De Andrè, sarebbe potuto diventare un film, un romanzo, un’opera teatrale. C’è infatti al suo interno tutta la semiotica del testo: l’approccio narratologico, gli elementi di testualità, un patto finzionale inserito in un mondo possibile, e il tipo di narratore. Storia di un impiegato è la storia di una ribellione, sognata, tentata, fallita e infine paradossalmente riuscita. La rivolta di un impiegato, simbolo di una mediocrità borghese, quella italiana degli anni ’70, in cui lo spirito rivoluzionario del ‘68 sopravviveva in azioni anarchiche individualistiche e irrimediabilmente sterili. E’ questa, un’opera anarchica, individualistica, ma anche piena di possibilità e di passione, e dunque vincente. Un impiegato, ascolta dopo 5 anni, una canzone del Maggio francese 1968 sulla grande rivolta collettiva nata nell’ambito studentesco” – [Tratto da “I significati dell’orecchio; Sulla prosodia in Fabrizio De Andrè” di Simona Stammelluti]

Nel 1973 Cristiano De Andrè aveva solo 11 anni e per padre il grande cantautore, le cui passioni erano inghiottite dalla dolcezza e dalla paura. Essere il figlio di Fabrizio De Andrè non è semplice nella misura in cui per tutta la vita ci si confronterà con chi si è amato, con chi è stato maestro e mentore, con chi ha lasciato in eredità una mutazione linguistica, armonica e sonora, che non nasconde, anzi mette in luce, una volontà di disegnare e descrivere e raccontare, un’identità spesso ingombrante, ma con il fine ultimo non solo di resistere, ma anche di insegnare a fare altrettanto, mentre nello scorrere del tempo c’è il niente che avanza e i tradimenti sono nascosti proprio dietro l’angolo, raccontati nelle sue canzoni che nell’arco di tempo di una carriera, sono riusciti a divenire microdrammi, messi in scena da marionette ideofore , perenni portatrici di un’idea, di un possibile cambiamento, e di una ricerca musicale e stilistica che diventa, con il cantautore genovese, assolutamente indispensabile.

Ieri sera nell’ambito della rassegna “Festival D’Autunno”, è andato in scena presso il Teatro Politeama di Catanzaro, il concerto “De Andrè canta De Andrè – storia di un impiegato”, concerto in cui Cristiano De Andrè lavora intorno al concept album di suo padre, con una veste nuova, riarrangiando – insieme a Stefano Melone – quelli che sono stati i passaggi fondamentali di quell’importante e per nulla facile lavoro discografico.

La prima cosa che si apprezza di questo lavoro è che Cristiano, ottimo polistrumentista non ricalca suo padre, sfrutta la sua personale vocalità (simile a tratti a quella di Faber) mostrando una presenza scenica d’impatto, che mancò al grande Fabrizio.  Un’eredità artistica, dunque, ma anche una propria personalità musicale, che arriva prorompente da un concerto concepito in chiave rock, con 4 musicisti di caratura e con degli allestimenti di scena degni di nota, con pannelli verticali che serviranno durante la performance a proiettare spezzoni di film, di documentari e di immagini di proteste e lotte; Arriva sul palco e tra gli applausi è subito “Canzone del Maggio”. I ricordi, le parole che scorrono dentro la testa e nella consapevolezza delle intenzioni con cui fu scritta, quella canzone e la capacità di Cristiano di portare lo spettatore, dritto nel brano “La bomba in testa” con un bel loop elettronico di sottofondo e la sua chitarra acustica che suona, mentre interpreta quelle parole “la fiducia nelle proprie tentazioni, allontanare gli intrusi dalle nostre emozioni”. 

Suona benissimo il violino, Cristiano De Andrè, con cui ricama i pezzi, arrangiati con attenzione ed intensità. Ci sono momenti durante il concerto, quando Cristiano siede al centro del palco, imbracciando la chitarra, in cui non si può fare a meno di chiudere per un attimo gli occhi e rivivere i momenti in cui al centro del palco vi era suo padre. Eppure questa emozione trasbordante, non toglie importanza alla performance di Cristiano De Andrè che sfoggia non solo una voce intonatissima e calda, ma anche un carisma, cresciuto nel tempo e divenuto un dettaglio di quella personalità artistica che dà lustro a tutto il progetto musicale.

Il bombarolo” arrivava con un arrangiamento intrigante, con un ritmo allegro e cadenzato, con il violino di De Andrè che  interviene alla fine della seconda strofa e abbellisce il filo narrativo.

Cristiano suona le chitarre, il bouzuki, il violino elettrico e poi con la stessa disinvoltura siede al pianoforte, capace di creare una straordinaria atmosfera che coinvolge e che a tratti commuove come quando intona “Verranno a chiederti del nostro amore“, pezzo imperniato sul concerto del carcere, del ruolo della donna che, intervistata, ripensa al rapporto passato e teme per il futuro. Cristiano canta questa poesia, nota su nota, attraverso un arrangiamento asciutto che scivola dentro il significato del pezzo.

E’ una ballata “Il testamento di Tito“, De Andrè suona la chitarra, i suoi musicisti portano il tempo con le mani, il batterista suona cassa e charleston e poi il reef si apre durante quello che fu per Fabrizio De Andrè una vetta poetica.

Parla al suo pubblico, Cristiano, saluta, è emozionato, spiega perché quel concerto ha avuto vita; è un modo per arrivare anche a chi non ascolta la canzone d’autore. I brani sono psichedelici, rimessi a nuovo ma trattengono in sé il senso di quella che fu la passione e la missione di Faber: raccontare come non esistono poteri buoni, che l’anarchia è intellettuale, dunque non politica ma dello spirito, che se fai qualcosa per qualcuno senza volere nulla in cambio, dopo stai molto meglio. “La poesia e i testi di mio padre, possono coinvolgere e farci tornare alla nostra anima, quella che ci conosce più di tutti, che possiamo interrogare, se sappiamo come alimentarla“.

Per Cristiano De Andrè quel concerto è una sorta di “messa laica”, e lui è il predicatore. Ho molto apprezzato quella immagine. Perché se è vero che per noi che siamo cresciuti all’ombra della musica di Faber e che lo consideriamo “sacro” nella accezione di importante, profondo, estatico, l’essere laici, nella maniera in cui la musica traghetta un sentimento nelle molteplici sfumature del vivere, che sono spesso crude e crudeli,  il senso di “messa laica” assume il significato di unione dentro la stessa intenzione. E non dimentichiamo che Fabrizio De Andrè realizzò un vero e proprio “miracolo laico” nato dall’incontro e dall’incastro con Mauro Pagani, in quel viaggio fatto di strumenti, di percussioni e di voci.

Abbandonato l’album “Storia di un impiegato” il viaggio continua con “A cimma“, la tarantella di “Don Raffaè“, per poi piombare in un arrangiamento silenzioso e quasi ecclesiastico de “La domenica delle Salme” con le due chitarre che sottolineano poesia ed emozioni.

Sul widiwall passano immagini di molti politici italiani e stranieri, le immagini del film “La grande abbuffata” di Marco Ferreri, e tutto ciò che serve per mettere in rima – così come fece Fabrizio De Andrè sin dai suoi esordi – quell’andare in “direzione ostinata e contraria”.

Amore che vieni, amore che vai” mi è parsa – dal punto di vista musicale e di pathos – una delle più riuscite, nella performance di ieri sera. Ho molto apprezzato come sono calibrati gli strumenti che accompagnano la performance; un ottimo interplay, un’ottima base ritmica, gli effetti in loop alle tastiere, un sinergia acustica esaltante.

Durante “Quello che non ho“, a Cristiano gli si rompe la corda della chitarra, ma ce ne accorgiamo solo noi seduti in prima fila, perché con quell’arrangiamento ipnotico e rock, tutto scorre, travolgendo.

Un excursus nella carriera e nelle intenzioni di Fabrizio De Andrè.; “Fiume Sand Creek“, “Creuza de ma“, in genovese, con Cristiano che suona il Bouzuki, i cori e una grande “A” che svetta nello schermo alle sue spalle.

Nel finale “Il pescatore“, momento nel quale quando Cristiano ha fatto vibrare letteralmente quel suo violino elettrico, così come faceva nei concerti di suo papà mi è tornato alla mente il perché scrissi una tesi su Fabrizio De Andrè. Quel motivo era che le sue storie, tutte vere, i suoi suoni del sud tutti magici, erano capaci di farti auto-isolare, e poi ancora l’indifferenza verso il potere, appagante e travolgente, erano la sua morale, ed anche un po’ la mia; quella morale che non ha avuto mai bisogno della retorica per colpire dritto in faccia, o in fondo al cuore, o ancora fin giù nello stomaco, esattamente dove è arrivato suo figli Cristiano, ieri sera, dimostrando di essere stato quel “tempo implicito” di un discorso ancora tutto da raccontare.

 

Simona Stammelluti   

 

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