Si può sopravvivere a un ricovero in una città virtuosa di una regione virtuosa?

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Quando sentiamo parlare di malasanità pensiamo sempre agli ospedali del Sud, Sicilia compresa.
Ed invece il racconto di vita vera di Michela e del suo papà, il racconto della disavventura patita all\’ospedale Sant\’Orsola di Bologna dal 19 dicembre scorso e che dura ancora oggi, è significativa di come manchino tante, troppe cose nella sanità da nord a sud, e in primis, manca l\’empatia, la voglia di essere utile al prossimo, manca l\’umanità, manca il senso del dovere che dovrebbe spingere a fare il lavoro del medico, dell\’infermiere, dell\’Oss, dell\’inserviente.
Di seguito il racconto che ho raccolto, l\’ennesima denuncia, perché è giusto che si sappia cosa accade negli ospedali, spesso osannati per buona sanità, ma che devi provare assolutamente a scansare se …
Come primo punto fondamentale, al di là del motivo e indipendentemente dalla gravità di ciò che ti ha portato in ospedale, la prima cosa che ti devi augurare è che sia un giorno feriale. Perché un paziente nei giorni di domenica e festivi, smette di essere paziente, oppure detto meglio, deve esserlo ma nel vero senso del termine e incrociare le dita sperando di poter arrivare presto e velocemente al primo giorno feriale successivo. Sembra paradossale, ma purtroppo è così. Se poi ti dovesse capitare, come nel caso di mio padre, di accedere pochi giorni prima di Natale … allora beh… la cosa si complica e di parecchio.
Non parliamo nemmeno dell’eventualità che tu sia un paziente “fragile”, del tipo che magari coltivi da anni alcune patologie, li il rischio di non cavarci la pelle diventa esponenziale.
Da qui la mia triste e surreale storia, o meglio, quella di mio padre da 20 giorni ricoverato in ospedale vittima inconsapevole di una malasanità imbarazzante.
Tutto ha inizio domenica 19 dicembre, quando nel prepararlo per la notte, scopro il pannolone completamente asciutto. Campanello d’allarme.
Voi mi direte: beh per così poco?
Dovete sapere che mio padre (83 anni) non è un paziente che potremmo definire “fragile”, ma fragile al cubo: affetto da una malattia degenerativa da oramai una decina d’anni (in tutto questo tempo non sono riusciti a fare una diagnosi precisa), allettato, incapace di intendere, di parlare e di muoversi, portatore di peg (alimentazione tramite sondino gastrico… “regalo” di un precedente ricovero…). Praticamente l’emblema della fragilità. A parte questo quadro clinico molto impegnativo, per tutto il resto gode di una ottima salute: esami sempre perfetti tanto che mia mamma (di un anno più giovane) è spesso risentita perché a un controllo incrociato, i suoi esami sono peggio.
Torniamo a noi.
Campanello d’allarme.
È domenica sera, quindi si chiama la guardia medica. La guardia medica, consiglia di andare subito al pronto soccorso. Eccallà la parola magica: pronto soccorso. Mi di rizzano tutti i peli solo al sentirla pronunciare: pronto soccorso. Purtroppo viste le precedenti esperienze cerco di capire se non c’è altra possibilità, magari che la guardia medica venga prima a visitarlo a casa magari anche a pagamento. No assolutamente no. La cortesia che ci muove è quella di chiamarci l’ambulanza. Grazie.
Dalle 21.30 che mettiamo giù il telefono, alle 01.00 siamo in pronto soccorso.
Mio padre entra direttamente con l’ambulanza e io entro in sala di aspetto.
Spero in cuor mio che gli abbiamo dato almeno un codice arancione che leggo sul monitor essercene solo 5 in attesa, perché di verdi ce ne sono ben 18… azzurri e bianchi non li considero nemmeno.
Dopo due ore mi convocano e il medico di turno mi spiega la gravità della situazione: setticemia.
Lo trovo in un gabbiotto, sulla barella con la maschera di ossigeno e una flebo attaccata. E così rimane per ben due giorni perché “ci dispiace ma non abbiamo posto per ricoverarlo”. Evito di descrivere la situazione di quei due giorni passati li.
E intanto io veglio e prego accanto a lui senza abbandonarlo un solo attimo.
Finalmente dopo due giorni ci trovano un posto: medicina interna.
Il primo “regalo” appena lo visitano in reparto è scoprire una piaga di 4o grado sul sacrale e una nella coscia destra: in confronto alla setticemia, le piaghe sono trascurabili…
E così passano i giorni, io e mia mamma e la badante a darci il cambio perché mio padre ha bisogno di una assistenza “h24” e non posso fare tutto da sola.
La terapia sembra funzionare, i valori dell’infezione migliorano costantemente, i polmoni sono a posto, i reni pure, il cuore è un portento anche se i medici dicono e ripetono che con pazienti così fragili non si può mai dire di essere fuori pericolo. E va bene, oramai è prassi che mi senta dire che mio padre è un paziente sul chivalà.
E poi il primo dell’anno arriva la bella notizia: finiscono la terapia antibiotica il 5 e il 6 gennaio lo dimettono. Deo Gratias.
Tutto sembra procedere per il meglio… quando in camera (in dieci giorni si erano avvicendati diversi degenti) vengono portate due pazienti entrambe affette da polmonite: mio padre paziente “fragile” nella stessa stanza con due affette da polmonite… da li la tragedia. Dopo pochi giorni (il 4 per l’esattezza) una delle due (quella che strangosciava interrottamente maledicendo il Signore per avergli inferto un simile supplizio, ovviamente tutto questo senza aver indossato per un solo minuto la mascherina) viene trovata positiva al covid.
Lei viene immediatamente spostata e agli altri viene fatto un tampone di controllo: tutti negativi. La camera diventa immediatamente area covid quindi per entrare bisogna bardarsi come palombari… e va bene
Quello che non va bene è che la sera stessa mio padre ha un picco di febbre fino a 39.4.
I medici evidentemente non pensano al covid ma a una nuova possibile infezione alle vie urinarie (vai a capire il perché…) e gli fanno sostituire il catetere prelevando nel mentre un campione biologico per fare nuovi accertamenti. In reparto però non hanno un catetere della sua misura e ne mettono uno più grande. Risultato? Una notte passata a fare lavaggi alla vescica con siringhe piene di sangue e coaguli. E il giorno dopo arriva l’altra batosta: tampone positivo.
E così a due giorni dalla dimissioni veniamo trasferiti al reparto covid con l’aggiunta dell’incognita sangue nelle urine.
Mia madre intanto a casa si fa un tampone di controllo e risulta positiva, la badante pure.
Lo faccio anche io: negativo. Fantastico
Sono una highlander ce la farò.
E così adesso sono qui seduta in una camera del reparto covid tutta bardata come una mummia: doppia mascherina, tutta anti traspirante, visiera e doppi guanti, sudata, senza poter bere, né mangiare, né fare pipì, dopo aver avuto l’ennesima discussione con il medico di turno (oggi è domenica… e il medico di reparto non c’è..) per rivendicare non chissà cosa solo il minimo di assistenza sindacale, circondata dalla supponenza e costretta a supervisionare il mio povero padre colpevole solo di aver avuto bisogno di ricevere delle cure. Tutto qui.
Non so quando usciremo, se usciremo e se sì in che condizioni usciremo, ma vi assicuro che quello che è capitato a mio padre purtroppo non è assolutamente un evento straordinario ma potrebbe capitare anche a vostro padre o madre o fratello o sorella o amico o amica, perché se come me che non fai parte del sistema e che stai in ospedale dalle 15/20 ore consecutive e non solo per quei 45 minuti giornalieri concessi a chi non ha parenti “fragili”, ti rendi conto purtroppo di tante cose dalle più piccole e banali alle più grandi.
Tipo?
Beh tipo che se hai bisogno e suoni il campanello, prima che qualcuno ti dia udienza possono trascorrere anche 10 minuti: in effetti se sei un paziente, qualcosa vorrà pur dire.
Tipo che devi imparare alla svelta a distinguere chi sono i medici, gli specializzandi, la caposala, gli infermieri, chi gli Oss, chi i semplici inservienti (ovviamente su tutti i turni) perché ognuno ha le sue competenze e guai a chiedere alla persona sbagliata.
Tipo appunto che se ti capita di chiedere a un infermiere se può posturare tuo padre, ti guarda offeso e va via a culo dritto sbuffando “ora passano i colleghi” e li ai 10 minuti se ne aggiungono altri 10 e più.
Tipo che mezz’ora prima e mezz’ora dopo il cambio turno (ce ne sono ben 4 nell’arco della giornata) puoi spingere il bottone, essere in agonia, metterti a urlare, ti devi mettere il cuore in pace perché tanto non arriverà nessuno.
Tipo che se tu hai i diverticoli (non parlo di mio padre eh, lui è quello sano come un pesce!) e il medico di fa una dieta a base di pasta al pomodoro e mela che lo sanno anche le galline che con i diverticoli è veleno e tu ti sfoghi con l’inserviente che ti ha portato il pasto e lui allarga le braccia “non posso farci nulla, l’hanno detto i medici” e così pure quella che avendo problemi di masticazione non c’è stato verso di farsi dare una minestrina in brodo (si proprio quella, la classica minestrina insapore e inodore neppure se ci aggiungi tre etti di grana grattugiato dentro): no pure a lei è toccata la pasta al pomodoro…
Tipo che se ti sporchi e il turno degli inservienti nella tua camera è già passato, aspetti il turno dopo…
Tipo che se ti tengono tuo padre due giorni con la flebo pensi che debba rimanere a digiuno e invece scopri che la sua nutrizione è stata ordinata ma non arriva e me lo tieni a flebo senza dirmi nulla, dai lo capisci anche tu che non stai lavorando bene. Lo chiedi e te la porto io da casa eh.
Tipo che ora mi viene in mente anche la mia surreale vicenda di 4 anni fa (chi mi conosce sa tutto) e tutto torna senza soluzione di continuità.
Tipo…
Tipo che la lista sarebbe ancora lunga ma sono talmente stanca e provata che la finisco qui.
E siamo in una città virtuosa di una regione virtuosa…
Statemi bene, mi raccomando.

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