“Borsellino”, Scarantino ancora in aula

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Prosegue al Tribunale di Caltanissetta la deposizione dell’ex falso pentito Vincenzo Scarantino, prima pedina del depistaggio sulla strage di via D’Amelio.

E’ proseguita la deposizione del testimone chiave, Vincenzo Scarantino, al processo sul depistaggio delle indagini dopo la strage di via D’Amelio contro il giudice Paolo Borsellino e i poliziotti di scorta. Al palazzo di giustizia a Caltanissetta, l’ex falso pentito Scarantino, stempiato, capelli corti del tutto imbiancati, e appesantito fisicamente, ha reso ancora testimonianza di quanto da lui subito e di quanto altri, indirettamente per causa sua, hanno subito, ad esempio gli innocenti condannati all’ergastolo e costretti in carcere parecchi anni prima dell’avvento del vero pentito, Gaspare Spatuzza, e la revisione del processo. E tra l’altro, Vincenzo Scarantino, ha affermato: “Erano tutti consapevoli che io non sapevo niente. Ma dovevo portare questa croce… Mi hanno rovinato l’esistenza, io non ho mai fatto niente. Non c’entro con le stragi. I poliziotti mi dicevano cosa dovevo dire ai magistrati e me lo facevano ripetere. Io ero un ragazzo, e se non combaciavano le cose che dovevo dire, loro mi dicevano di non preoccuparmi. Io andavo dai magistrati e ripetevo, quando ci riuscivo, quello che mi facevano studiare. Ma non sempre riuscivo a spiegare ai magistrati o alla corte quello che i poliziotti mi insegnavano. Loro mi dicevano: ‘Quando non sai una cosa, basta che dici ai magistrati che devi andare in bagno, tu ti allontani e poi ci pensiamo noi. Ti diciamo noi quello che devi dire’. E così quando andavo alle udienze dicevo che dovevo fare la pipì, andavo nella stanza e mi dicevano loro cosa dire. E io poi in aula cercavo di ripetere le cose che mi dicevano”. Il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, in aula insieme al collega pubblico ministero, Stefano Luciani, lo stesso del processo in abbreviato a Montante, sollecita il testimone a ricordare il periodo trascorso sotto protezione ad Imperia, con la famiglia. E Vincenzo Scarantino risponde: “Veniva il dottor Bo con una carpetta, c’era Mattei che consegnava dei fogli e loro mi tranquillizzavano. Mi dicevano sempre di stare tranquillo ma la mia coscienza non mi permetteva di avere questa tranquillità che loro mi volevano trasmettere. Da un altro poliziotto, Vincenzo Ricciardi, ho subito minacce psicologiche. Gli dissi che ero innocente, lui mi ha fatto questa minaccia psicologica che ero lontano da mia moglie e dai miei figli che, per me, erano la cosa più importante della mia vita e quando toccavano questo tasto io rischiavo di impazzire. E Arnaldo La Barbera mi diceva sempre che ero come Buscetta e mi chiamava Buscetta junior. Io ero solo un ragazzo che rubava e vendeva sigarette, non è che facevo altro, non avrei potuto prendere nemmeno un capello di Buscetta. Eppure loro mi facevano leggere il suo libro, io non è che non so leggere…è che mi annoiava proprio. Ho deciso di collaborare con i magistrati nel 1994 perché stanco delle sofferenze subite nel carcere di Pianosa. Io chiedevo sempre di parlare coi magistrati, ma spuntavano sempre il dottor La Barbera e il dottor Bo. Non è che io volevo fare l’omertoso, io non ero un mafioso, io certe volte gli dicevo ‘sono sfortunato che non ho partecipato alla strage’, per dimostrare che io non sapevo niente, che davvero non avevo nulla da dire. Io gli dicevo che volevo collaborare però con le cose giuste, cioè per quello che sapevo, io non dovevo stare brutto con la mia coscienza. Sono diventato una persona fragile, come la carta che vola nel vento. Ma lui, La Barbera, non ne voleva sapere niente. Se non collaboravo per la strage Borsellino sarei morto”.

Angelo Ruoppolo (Teleacras)

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