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La premessa è che si condanna sempre il terrorismo, la violenza e le guerre. Tutte le guerre. Ma la storia non va dimenticata e la realtà va raccontata tutta, altrimenti non è storia e non è neanche cronaca. Non dobbiamo pertanto farci salire le lacrime agli occhi solo per quello che sta succedendo nelle ultime ore, ma dovremmo piangere anche tutto quello che è stato e che ancora è, senza che nessuno abbia voglia di raccontarlo perché scomodo. E per me non è la prima volta che questa “storia scomoda” la racconto. Leggi qui 

Dal 2007 la Striscia di Gaza, quella che gli israeliani stanno bombardando in queste ore, è una prigione a cielo aperto, e dopo gli ultimi avvenimenti è destinata a rimanere così per sempre.

A due giorni dall’attacco di Hamas le domande sono tante e molte di queste, senza risposte. E sono tutte domande che riguardano il futuro, anche quello prossimo.
Quanto sarà lunga e sanguinosa questa rappresaglia?
Quanti saranno i morti, gli ostaggi?
Quanto resisteranno le forze palestinesi che hanno attraversato il confine, e che per la prima volta in 75 anni hanno preso il controllo all’interno della striscia di Gaza?
Quanto saranno coinvolte le potenze circostanti, come il Libano?
A queste domande si può forse rispondere andando indietro e analizzando quel conflitto mai risolto e mai abbastanza sotto i riflettori per poter virare verso degli equilibri, che sono ormai compromessi per sempre.
Le forze armate di Israele stanno riprendendo il possesso dei centri abitati a Gaza, e stanno pianificando una invasione che loro definiscono “inevitabile”.
Tutti i giornali stanno raccontando le azioni di Hamas sugli israeliani, ma nessuno (o quasi) racconta l’altra realtà cioe che durante l’operazione chiamata da Israele “Spada di ferro” ci sono stati dei massicci bombardamenti che sabato notte hanno ucciso 370 palestinesi (civili, di cui 20 bambini), che hanno ferito altre 2000 persone, che hanno distrutto edifici non solo militari ma anche residenziali e ridotto in macerie il grattacielo di 14 piani  e 100 appartamenti, che ospita anche le sedi di tv e giornali. E poi ancora sedi di istituzioni di beneficienza e ong, e tantissimi appartamenti civili.

Tutto questo dove la guerra non era mai finita, mai finita; dove i bombardamenti non sono arrivati adesso, ma continuano da sempre.
Secondo il consiglio dei rifugiati, a febbraio 2000 case erano già in rovina a seguito degli attacchi degli israeliani che sono avvenuti incessantemente negli ultimi 10 anni.
Secondo il report di Medici Senza Frontiere, le forze israeliane sempre sabato hanno colpito una clinica e un’ambulanza davanti all’ospedale Nasser, a sud di Gaza, uccidendo una infermiere e l’autista dell’ambulanza; sono state danneggiate anche le colonnine per l’ossigeno. Negli altri ospedali, si stanno usando i gruppi elettrogeni ancora funzionanti, per sostenere l’arrivo costante di feriti.
Secondo le Nazioni Unite, in 20 mila hanno lasciato le zone confinanti con Gaza per trovare rifugio nelle scuole delle Nazioni Unite.
Ma cos’è Gaza. Bisognerebbe spiegarlo anche nelle scuole.
Gaza è un gigantesco campo profughi che dal 2007 vive una profonda crisi umanitaria. Questo dalla vittoria elettorale di Hamas, stesso protagonista della tragedia di questi giorni.
Da allora Israele impone su tutta la striscia un blocco aereo, terrestre e marittimo.
Netanyahu ha dichiarato di voler bombardare i covi di Hamas per ridurli in rovine e le organizzazioni locali stanno chiedendo corridoi umanitari per evacuare la popolazione.
I palestinesi quando hanno sentito le parole “lasciate Gaza” hanno risposto “non sappiamo dove andare”. Non sanno dove andare oggi, mentre gli israeliani bombardano, ma non sapevano dove andare neanche prima, quando sopravvivevano con 3 ore di elettricità al giorno. Oggi c’è l’interruzione totale della fornitura energetica.
Questa decisione presa dal ministro dell’energia di Tel Aviv è considerato un crimine di guerra. Nessuno ha pensato a Gaza mai.
Nessuno pensa oggi a quei due milioni di persone che non hanno modo di uscire dalla striscia e sono coloro che pagheranno (come sempre) il prezzo più alto degli eventi.

Ci sono degli avvenimenti che hanno un grande peso simbolico, come l’immagine del bulldozer che ha sfondato la barriera di sicurezza israeliana. Per gli abitanti di Gaza quella è la prima vittoria e la resistenza all’occupazione che dura da venti lunghi anni. Per loro quello che sta accadendo adesso è “un copione che si ripete”.
Cosa ci si aspettava? Che due milioni di vite rimanessero passive ed imprigionate per sempre? Si badi bene, nessuno è a favore del terrorismo di Hamas, anche perché Hamas non rappresenta i palestinesi che sono gente semplice e pacifica.
È solo una lecita domanda.
Il futuro vede altri morti, tanti morti. Da una parte e dall’altra, certo.
Ma per 20 anni, i leader mondiali cosa hanno fatto? Per lavarsi un pochino la coscienza hanno contribuito con una risposta umanitaria, ma neanche in maniera sufficiente e costante.
Così tanti morti (sia israeliani che palestinesi) non si vedevano dal 2000, dalla seconda Intifada, dall’insediamento illegale dei coloni in Cisgiordania, e dalle violenze nelle moschee.

Per questo i fatti drammatici di questi giorni non sono riconducibili solo alle falle nella sicurezza dei servizi israeliani, ma anche alle responsabilità politiche. Sì, politiche. Perché la politica c’entra sempre. Perché Netanyahu per 15 anni ha inculcato la sua visione del conflitto, che prevede l’isolamento assoluto di Gaza, perché la sua politica ha apertamente ignorato l’esistenza e i diritti dei palestinesi.
E oggi la ritorsione per l’attacco sferrato da Hamas, verrà pagata anche con il sangue dai civili di Gaza. Questa storia recente, lascerà segni indelebili. L’era Netanyahu è in grave, gravissima crisi e poi Hamas si rafforzerà in Cisgiordania, dove la popolazione è lontana dalla politica dell’Autorità Palestinese, considerata troppo debole. E la cosa ancor più grave è che tutto questo, possa generare nei palestinesi frustrati e nei giovani la consapevolezza che a risolvere la situazione potesse essere solo il gruppo armato. E questo sarebbe un cane che si morde la coda, con il sangue dei civili che continuerà a scorrere e il rischio che nuovi estremismi possano affacciarsi nei tempi a venire.

Ti accorgi subito di essere in Palestina, sia dal paesaggio che dall’architettura. Un deserto con 4 palme e due case, ti dice che sei in Palestina. Paesaggio che contrasta con il territorio israeliano che è sempre rigoglioso e abbondante di vegetazione. L’architettura israeliana è monotematica e monocromatica. Sembra di stare in una immensa caserma a cielo aperto, mentre in Palestina le case sono più elaborate dal punto di vista estetico – ma siamo lontani dal buon gusto – e dall’immancabile presenza di dossi artificiali.

Nei cieli palestinesi, non vola nulla che non sia israeliano o che gli israeliani non vogliano.

Ma la cosa che colpisce di più sono proprio i contrasti.
I palestinesi saranno pure più rozzi ma più affabili, gli israeliani stanno sempre lì con quell’aria austera che ti guardano dall’alto in basso, perché si sentono in cima ad una ideologica catena alimentare. Le scene sono quelle in cui la freddezza lascia il posto solo alla prepotenza, alla supponenza. Nei supermercati i militari e i civili armati israeliani, mostrano come in far west le armi, con atteggiamenti che ricordano il famoso personaggio interpretato da Lee Van Cleef.

Si pensi a Gerico: è deserto. Eppure sulla collina si intravede tra verde e palmeti la parte di territorio israeliano.

Questi i racconti di chi sul territorio si alterna, per lavoro, per turismo o per motivi umanitari. E anche se vai per motivi umanitari, però puoi fare ben poco, perché comunque non puoi far entrare in Palestina nulla che gli israeliani non vogliano. Si è dunque vittime dei capricci – o forse di esigenza? – degli israeliani che centellinano e razionano qualunque bene di prima necessità al popolo palestinese; dall’acqua all’energia elettrica, soffocando anche quel minimo di economia locale.

E poi c’è lei, Pina Belmonte, (leggi qui l’intervista) che vive da anni tra l’Italia e la Palestina dove lavora. La conosco e la stimo da un po’ di tempo ed è colei che con estrema lucidità mi racconta una realtà che è così tagliente da divenire invisibile.
Lei, che ha la possibilità di vedere cosa accade in Palestina, da vicino, vicinissimo.

Dal mese di maggio nella striscia di Gaza la situazione è sempre più complicata. Le notizie in Italia arrivano sempre un po’ distorte, quando arrivano.  Israele ha ristrutturato i check-point che sono più umani solo a livello estetico, ma la sostanza non cambia. Ristrutturati, con la musica di sottofondo, tutto computerizzato con la possibilità di un maggiore controllo da parte degli israeliani. Così quando un palestinese da Gerusalemme va a Betlemme, gli viene fatta la foto digitalizzata. Sui display le facce di tutti, anche quella di Pina che per fortuna mostra solo il suo passaporto senza essere passata letteralmente allo scanner.

I pellegrini non mancano mai, in quei luoghi, anche fuori dalle festività religiose. E’ una terra così bella, ma così tanto difficile – racconta Pina –  dove le maggiori religioni convivono per forza o per volere, insieme. E’ una terra che non si ferma mai, soprattutto Gerusalemme, tranne che un paio di ore a notte. E’ sempre in movimento, è un mix tra la preghiera del muezzin che si innalza, mentre sulla città vecchia di Gerusalemme nello stesso tempo suonano le campane, mentre gli ebrei vanno a pregare al muro del pianto.

Quando varchi la porta della città vecchia di Gerusalemme, potresti capire in quale quartiere ti trovi anche solo dagli odori, senza usare la vista.

E’ il luogo più sacro che possa esserci, eppure è bagnato dalla violenza, dal sangue.

E’ una terra piena di contraddizioni. La libertà religiosa non viene rispettata, nessun permesso è stato concesso ai cristiani per poter uscire dalla striscia di Gaza e recarsi a pregare a Gerusalemme. E’ la terra della violazione dei diritti umani. Le perquisizioni vengono fatte per strada, soprattutto ai palestinesi, dai 14 anni in su; alcune volte vengono fermati nelle postazioni, ma spesso vengono fermati per strada, sbattuti contro un muro e perquisiti, mentre i passanti guardano; e questa è una grande violazione dei diritti umani. Tutta questa violenza per semplici controlli.

Israele sta attento a garantire la sicurezza ai pellegrini e ai turisti, perché meno turisti arrivano meno soldi ci sono per Israele. Pina guarda oltre, si sofferma a guardare i soldati, a vedere cosa c’è oltre la divisa. Spesso è una scelta, poche altre volte no.

Per molti è una sorta di “previdenza sociale”. La maggior parte di loro a stento arriva a 20, 22 anni, e che imbraccia armi più grandi di loro e quasi ti viene da chiederti se siano realmente capaci di gestirle in piena sicurezza.

“Mi ha toccato una scena di un soldato – mi racconta Pina – Era in turno, in servizio. Era il venerdì della settimana santa ortodossa. C’era una marea di gente; ho notato questo soldato che si è messo in disparte e sotto il berretto aveva nascosto un libro e con la mano davanti alla bocca, pregava. Non so dirti di che religione fosse. Non penso fosse ebreo. Non tutti i soldati o poliziotti sono israeliani, ci sono anche arabi e te ne accorgi quando salgono sul pullman, perché sono più gentili e fanno la carezza ai bambini, anche”.

E poi ci sono quelli che abituati solo a dare ordini, non si aspettano il rimprovero di chi si cura del decoro dei luoghi, mentre viene detto loro che nel Santo Sepolcro non si può entrare con un gelato in mano.

E’ di domenica la notizia di incidenti e cariche di polizia sulla Spianata delle moschee. La Mezzaluna Rossa, riferisce di 20 palestinesi feriti e contusi. Attraversando la città vecchia di Gerusalemme, si respira un clima di perenne tensione. Polizia e soldati israeliani ovunque, dislocati anche sui tetti della città; tensione alla porta di Damasco, alla vigilia della festa islamica dell’Al-Adha. I Palestinesi protestano per il possibile ingresso – non autorizzato dalla polizia – di religiosi nazionalisti israeliani sulla spianata della moschea di Al Aqsa in occasione del Tisha B’av, la ricorrenza ebraica della distruzione del Tempio. Intanto coloni ed estremisti ebrei, hanno sfilato con le loro bandiere e canti, in prossimità della città vecchia.

Eppure gli occhi di Pina sanno scorgere sempre immagini di speranza, di piccoli dettagli di rispetto della vita. E così ci mostra le immagini di un mendicante che dona la sua elemosina, per omaggiare la bellezza della musica, suonata per strada, da una violinista.

E mentre Pina continua ad osservare con i suoi splendidi occhi neri, questa terra così bella e così piena di contraddizioni, il mondo, fa finta di non vedere.

Su questa terra a diritto alla vita, su questa terra, signora alla terra, la madre dei principi, la madre delle fini. Si chiamava Palestina si chiamava Palestina. Mia signora ho diritto, che sei mia signora, ho diritto alla vita.

[M. Darwish]

L’ho conosciuta qualche anno fa, viveva e lavorava a Gerusalemme…Vive e lavora ancora a Gerusalemme Pina Belmonte, una giovane donna che vede cambiare pian piano quei luoghi in terra santa, che respira speranza e che sembra vivere una sorta di missione, come se l’amore che nutre per quella terra, le venga restituito in gocce quotidiane di accoglienza che arriva, malgrado tutto.

L’ho rincontrata in Italia, qualche mese fa, prima che ripartisse per Gerusalemme; era piena di vita, di sorrisi per tutti, di capacità e di dedizione verso gli altri, verso gli ultimi. Ho provato a domandarle in questi giorni, come vanno le cose in quei luoghi che spesso sembrano dimenticati, come se tutti ne conoscessero le difficoltà, ma al contempo nessuno se ne interessasse alla fine, più di tanto, fin quando alcuni accadimenti non saltano alle cronache.

E siccome alcuni squarci di mondo e le loro storie non vanno dimenticati, sono qui a raccontarle quelle storie, aiutata dalla voce e dall’esperienza di chi alcune vicissitudini le conosce perché le vive ogni giorno, anche sulla propria pelle.

SS: Pina, da quanto tempo “vivi la città” di Gerusalemme e non certo da quanto”ci vivi
PB: Vivo la città di Gerusalemme e la Palestina da circa cinque anni anche se in cuor mio la vivo da sempre. Fin da piccola leggevo cosa accadeva in questo angolo di mondo.

SS: Cosa hai visto cambiare negli anni – se qualche cambiamento vi è stato – che potesse lasciare intravedere una piccola speranza per quella terra?
PB: Questa terra mi ha insegnato proprio la speranza. Si, nonostante tutto questa terra insegna a sperare. E’ una terra che non ha visto mai la pace, ma aspetta ancora la pace. Più che dai politici, i piccoli cambiamenti, arrivano da singole persone unite dalla vera voglia di pace. Penso al gruppo di donne coraggiose che guidano il movimento di Women Wage Peace (Le donne portano la pace).
Il loro obiettivo è quello di far sentire la voce di decine di migliaia di donne israeliane, ebree, arabe, di destra, di centro e di sinistra. Da cristiana, non possono non ricordare anche la presenza dei Francescani che da ben ottocento anni, sono presenti in questa terra, e sono numerose le attività formative e e sociali che portano avanti.

SS: Ci racconti una delle scene che i tuoi occhi vedono ogni giorno, mentre vivi e lavori in quei luoghi?
PB: Vedo due popoli che soffrono ma a farne maggiormente le spese, sono sicuramente i palestinesi, i cui diritti spesso vengono violati. Ma accanto a queste cose, vedo anche tante piccole scene, segni che fanno pensare che la pace è possibile.

SS: Ieri è terminato il giro d’Italia – prestigiosa gara ciclistica – che è iniziata a Gerusalemme ed è terminata a Tel Aviv. Sembra esserci stato un silenzio mediatico su alcuni dettagli di questo evento. Ci dici cosa ne pensi e cosa hai potuto vivere in merito?
PB: A riguardo ho letto un’interessante analisi di Alberto Nigri che descrive il Giro d’Italia come un’operazione politica e propagandistica a favore di decisioni legali e non, accettate dalla stessa Unione Europea, oltre che dalle risoluzioni dell’Onu. Ho visto in prima persona però, questo evento, perché la tappa includeva la zona dove lavoro e vivo.

SS: Il dipartimento di Stato degli Stati Uniti, ha annunciato che aprirà l’ambasciata statunitense a Gerusalemme in questo  Maggio 2018, in concomitanza con il settantesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza di Israele. Cosa cambierà nell’assetto dell’ordine, delle scelte e della vita di Gerusalemme?
PB: Ormai è ufficiale lo spostamento. Penso ci sarà una risposta molto dura qui nei territori, da parte della gente. Credo che questa decisione degli Stati Uniti, sia una violazione del diritto internazionale.

 SS: Cosa manca a quella terra, da dove bisognerebbe incominciare per ristabilire un equilibrio? Due stati, uno stato solo. Sembra tutto possibile ed inattuabile al tempo stesso.
PB: La gente vuole solo la pace, ma chi decide le sorti di questa terra, realmente la pace non la vuole, perché gli interessi economici e di potere, sono più alti di tutto il resto. A farne le spese, in ogni conflitto, non sono i potenti, ma la povera gente che ogni giorno vive e affronta con difficoltà la quotidianità.

SS: Perché resti lì? Mai ti è venuto il desiderio di andar via, di lasciarti alle spalle quella terra ma anche quella vita, che lì sembra diversa da qualunque altro posto al mondo?
PB: Ormai questa terra fa parte di me, pur non dimenticando mai le mie origini. Qui lavoro solo alcuni periodi all’anno, ma ormai mi sento parte di questa quotidianità. Devo tanto a questa terra e a questa gente, perché mi hanno insegnato tanto, mi hanno accolta fin dal primo giorno con amore e riconoscenza gratuita.

SS: Quanto difficile è vivere il quotidiano?
PB: E’ molto difficile il quotidiano, qui. E’ difficile anche vivere un’amicizia con le donne palestinesi. Se Ci spostiamo da Gerusalemme, ai checkpoint è uno strazio al cuore. Il regolamento prendere che i palestinesi scendano dal pullman mentre i turisti e chi non è palestinese resti sul pullman. Loro, dunque, devono scendere dal pullman, mettersi in fila, mostrare il documento. Uno strazio vedere le mie amiche lì in fila, come se venisse tolta loro la dignità di essere umano, mentre poi chi resta sul pullman viene controllato da due soldati che salgono sul mezzo.
La scorsa volta nel vedere le mie amiche lì in fila, appena sono risalite sul pullman mi è scesa una lacrima. Una donna musulmana di fronte a me vedendomi dispiaciuta, con aria sicura e piena di forza mi ha detto: “tranquilla, io prego”; mente la ragazza di fianco alla donna musulmana, cattolica (aveva una croce al collo) mi ha dato un fazzoletto per asciugare la lacrime. Ho ritenuto fosse giusto raccontarla, questa cosa, perché alcune cose che da noi in Italia non sono così normali, qui rappresentano la normalità. Convivo ogni giorno con queste situazioni e questi stati d’animo,  ma spesso il senso di impotenza e di tristezza mi assale.

SS: Vuoi dire qualcosa ai lettori del Sicilia24h e a tutti coloro che si imbatteranno in questa intervista?
PB: Invito tutti a venire in Terra Santa. I cristiani qui sono una minoranza. Con i pellegrinaggi, si da’ un sostegno economico e si mantengono anche vivi questi luoghi.

 

Simona Stammelluti