E’ tutto un pasticcio, di trama e di regia.
Volendo far passare che uno scrittore possa cimentarsi nel ruolo “anche” di regista, non si può accettare che un film tratto da un libro (il proprio libro) abbia una sceneggiatura scritta male, considerato che sarebbe bastato ricostruire i luoghi e trascrivere i dialoghi, che nel film “L’uomo del labirinto” nella sale in questi giorni, sono davvero improponibili e a tratti banali.
Se non fosse per il fatto che sono abituata ad “andare fino in fondo” probabilmente mi sarei alzata e sarei andata via dal cinema al settimo minuti di film, ma l’averlo visto tutto, fino in fondo, mi ha fornito i dettagli per dire perché questo film è brutto sotto tutti i punti di vista.
E’ un film con gravi difetti e ahimè Donato Carrisi non più agli esordi, non può certo contare sull’indulgenza di pubblico e critica, e pertanto tocca dirlo che come regista è assai mediocre. E’ forse il destino che tocca a chi vuol far di più, e finisce per fare “di più e male”.
Lo scopiazzamento dal modo di fare i thriller all’americana, è completamente fallito. Donato Carrisi ci riprova e dopo “La ragazza nella nebbia” torna dietro la macchina da presa, improvvisando – è proprio il caso di dirlo – un ruolo che non gli appartiene, nel quale incespica e poi cade, clamorosamente. Il film è arriccioppato, pieno di frasi fatte, luoghi comuni, dialoghi miseri e con enormi buchi nella trama. La storia narra del rapimento di una ragazzina che viene liberata dopo 15 anni e mentre si cerca il rapitore, tra finti profiler e un investigatore privato che fa sembrare dei mentecatti quelli della polizia, ci si avventura (forse questo era l’intento certamente non riuscito) tra aspetti psicologici derivanti dalla ricostruzione di ricordi adulterati.
Vuole essere un thriller, un po’ horror, ma completamente privo di momenti di suspense; ma ancor più è un film privo di climax. Non è concesso allo spettatore di assistere a quel momento “alto”, quel crescendo, quel culmine, quell’acme che spetta di diritto ai gialli, ai film che prevedono un colpo di scena. Perché va detto che la vicenda che porta a scoprire che i rapimenti sono più d’uno e che a rapire non è un solo personaggio, è affrontata come una zavorra e non con la dinamicità che spetta al genere.
Un film che non ha aspetti spazio-temporali precisi. Non si sa dove si sia, né in che epoca si svolgano i fatti. Un po’ all’americana anche questo, certo, ma fatto male. Anche perché fa ridere che ci siano mezzi nomi italiani, mezzi americani, un telefono di ultima generazione e un registratore con cassetta, luoghi in mezzo al nulla dove arriva una pizza e non si sa come, investigatori privati con caratteristiche italianissime e poliziotti con distintivi alla NPD.
Vien da domandarsi cosa ci facciano Dustin Hoffman e Tony Servillo, in questo film sconcluso e scialbo.
Hoffman – che non convince più di tanto malgrado la sua maestria recitativa – impersona una sorta di psicologo arrivato da chissà dove, che lo capisci alla seconda scena che è uno psicopatico, e Servillo – la cui bravura indiscussa salva la pellicola, pur non essendo il Servillo che abbiamo apprezzato nei film di Sorrentino – che diventa il protagonista assoluto del film nei panni di un investigatore privato che sta per morire e che per riscattare tutta una vita passata a recuperare crediti conto terzi, decide di dedicarsi alla ricerca del rapitore, stesso incarico per il quale era stato ingaggiato 15 anni prima senza occuparsene mai per come avrebbe dovuto. Nel ruolo della donna che viene rilasciata dopo tanti anni di prigionia, una Valentina Bellè che non convince e che sembra la caricatura di personaggi del cinema di Dario Argento.
Nel film si parla di “mostro”, anche se i rapitori alla fine non uccidono le donne rapite, quindi restano rapitori malati di mente, che utilizzano il labirinto come gioco perverso. Ma il vero labirinto è quello in cui finisce lo spettatore, mentre cerca di scappare ma non può, ed è quello di un film fatto male pieno di domande senza risposte. Bruno (Servillo) non va mai a trovare la ragazza che è stata ritrovata, perché? Cosa c’entra il prete morente con tutta la narrazione? A cosa serve ai fini della trama l’accenno al mondo oscuro degli ambienti religiosi? Qual è il legame tra il detective e la prostituta? Per non parlare del “limbo” una sorta di archivio di persone scomparse, che non si capisce né dove sia, né con quale criterio venga tenuto in vita. Alcuni dettagli del film sembrano davvero incollati così, senza farci troppo caso; peccato però che gli appassionati di thriller siano spesso spietati, molto più dei personaggi di Donato Carrisi.
E’ un film lento, troppo lento per essere un giallo psicologico, didascalico nell’intreccio degli eventi e dei pochi colpi di scena. Alcune battute sono così tanto prevedibili che le labbra ti si piegano in una smorfia.
“Come mai non c’erano specchi?” – domanda tratta dal film .
“Per evitare che la vittima potesse avere la percezione dello scorrere del tempo” – ti vien subito da pensare.
(E quella è la risposta, ovviamente).
C’è un accenno al mondo del fumetti, delle favole, ma è gestito male. Ci sono conigli che ricordano “Alice nel paese delle meraviglie”, fumetti che nascondono messaggi subliminali, personaggi che sembrano usciti da un cartone animato, ma senza un senso appropriato, all’interno della trama.
Non ho apprezzato neanche tanto la fotografia, che a mio avviso sbaglia i colori e crea un’atmosfera cupa e per nulla suggestiva.
Non avendo letto il libro mi astengo dal giudicarne la fattura, ma il riferimento che nella pellicola si fa a “Il suggeritore” (che invece ho letto) mi fa pensare che si sia voluto cercare una scorciatoia, per addrizzare il tiro, sul finale.
Chissà se Servillo e Hoffman sono andati a bersi una birra insieme durante le riprese, chissà se si sono rispettivamente chiesti cosa abbia convinto l’altro a prendere parte a questo film. Certo è che questa è la domanda che tutti gli appassionati di cinema si sono posti, all’uscita dalla sala oltre a “ma perché Carrisi non scrive libri e basta?”