Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 9 di 94
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C’è qualcosa che va molto oltre la fede, oltre quel sentimento indefinibile, potente e prepotente che prova chi “si fida” di qualcosa che non può vedere né verificare con i mezzi concessi all’essere umano.

C’è qualcosa di molto meno pregevole della fede, nella macchina organizzativa e in tutto quello che ruota intorno alla morte di Papa Ratzinger venuto a mancare l’ultimo dell’anno, e che ancora “non trova pace”.

Allora sarebbe interessante soffermarsi e analizzare questo “qualcosa” che mette in piedi un impegno e un incredibile dispendio di energie e mezzi per giorni e giorni, per celebrare le spoglie umane e mortali di un Papa Emerito che – come tutti i papi – deve essere conservato, preparato, mostrato, adorato, per l’appunto celebrato e poi, dopo giorni, tumulato lì dove lui stesso ha deciso di essere sepolto.

È a mio avviso interessante interrogarsi sul perché ad un uomo (benché Papa), non un santo, venga riservata tanta attenzione. Per giorni e giorni, i giornali gli hanno dedicato pagine e pagine per raccontarlo in tutte le maniere, così come hanno fatto i Tg che da 4 giorni hanno abbandonato tutto il resto, per raccontare quel che è accaduto nell’attesa del funerale che verrà trasmesso a reti unificate, solo domani a 5 giorni dalla sua dipartita.

Le risposte dei “fedeli” alla domanda sul perché siano giunti a Roma per dare un ultimo saluto al Papa, sono state delle più diverse. Da chi lo ha fatto perché amava quel Papa, a chi lo ha fatto con tutti i Papi che hanno attraversato la loro vita.

Eppure c’è qualcosa che un po’ angoscia in questa spettacolarizzazione della morte, seppur papale. Vedere lavorare operai per giorni, dediti a montare palchi, luci, transenne, come si fa per i concerti delle rock star; e sapere che “si può accedere anche senza invito fino ad esaurimento posti”, fa un certo effetto, se prendiamo un po’ le distanze dal ruolo che un papa ha – o forse dovrei dire – dovrebbe avere.

E per “durare così tanto” le spoglie umane di Papa Benedetto XVI sono state sottoposte alla tanotoprassi, una sorta di imbalsamazione temporanea, che permette al corpo di non decomporsi, nella fase post mortem. Pensate all’equipe che si occupa dell’aspetto estetico (proprio così è una pratica estetica)  che ha provveduto a iniettare nel sistema arterioso un fluido conservante, una particolare tipo di formaldeide. E poi trucco, parrucco, vestizione.

Pronto ad essere “mostrato”, sotto gli occhi di curiosi, oltre che di fedeli.
Perché il voyeurismo è insito nell’uomo, è il segno di una curiosità un po’ perversa, quel guardare dal buco della serratura tutto ciò che è lontano dal proprio vivere, ed anche la morte di un Papa che non era più “il papa” ma “un papa”, intriga.
Una sorta di distrazione di massa, autorizzata però.
Ed intorno un discreto business. E non ditemi che non c’avete pensato.
Una città, la città eterna che pullula di turisti fuori stagione, che arrivano ma nessuno li aveva considerati, che prendono posto in alberghi, ristoranti e che “già che ci sono” fanno un giro in un museo, in un locale, in un negozio di griffe.
Uno spettacolo, in piena regola, un po’ religioso un po’ no.
Un evento, raro (come si dice: succede una volta ogni morte di papa), ma pur sempre un evento e come tale viene trattato.
La fila per vederlo (con in mano coca e panino), per pregare (forse), per adorarlo (come se fosse un santo).
Ah già … vogliono proporlo alla santificazione.
Sarebbe da capire bene per quali motivi, e non vorremmo certo che si finisca per non negare a nessuno una santificazione come se fosse un semplice altro titolo di quelli che si usano ormai anche come intercalare.

Insomma oltre a cardinali e vescovi, domani ai funerali di Papa Ratzinger ci saranno 3.700 preti.
Tutto il mondo avrà rappresentati istituzionali. Arrivano anche i Re e le Regine.
Tutto in pompa magna, dove per magno, si intende potere, e sinceramente non esiste nessuno più potente di un Papa anche se emerito e adesso defunto.

La fede, lo studio, la conoscenza porta ognuno a vivere a proprio modo questo evento.
Ognuno ha per se un giudizio, perché se Dio non giudica, l’uomo sì ed è forse la cosa che gli riesce meglio.
Ed anche Ratzinger è stato un uomo (di Dio) che ha operato delle scelte, che ha avuto una opinione, che ha studiato e ha dato la sua versione su molte cose che uniscono (o contrappongono) da sempre il sacro e il profano, la scienza e la fede, il laico e il religioso.
Non si vuole pertanto giudicare la sua figura, ma tutto ciò che è ben lontano dalla semplicità e l’umiltà che la chiesa impone ma dalla quale prende le distanze quando deve esporre la potenza indiscussa del Vaticano e del capo della chiesa, colui che discende da Pietro.

Alla fine è la prima volta che muore un Papa Emerito, e forse la curiosità è tutta lì.
Personalmente se proprio dovessi esprimere una curiosità in merito, mi piacerebbe leggere il rogito, quel testo scritto che descrive il suo pontificato, che è posto in un cilindro di metallo, all’interno del feretro. Sì perché insieme a quelle cose così terrene ed effimere come monete d’oro e medaglie coniate durante il suo pontificato e ai paramenti liturgici indossati, c’è anche qualcosa di meno materiale e più spirituale.
Perché alla fine, è lo spirito che si “festeggia” durante un funerale, sempre che qualcuno se ne ricordi oltre la coltre di quello spettacolo che va in scena domani alle 9.30. E mi raccomando … puntuali.

 

 

 

 

 

… A te e famiglia.

Molti passeranno il tempo delle festività a rispondere a messaggi ciclostile, mandati a tutti, come se un messaggio uguale per tutti possa mettere tutto a posto, mettere in pace le coscienze, o dare il senso a questa festività.

Peccato che non basti, che non sia mai bastato tutto questo, compresi i regali dell’ultimo momento, simbolo di festività dedite solo ad un consumismo compulsivo che accomuna sotto il segno dell’apparire e quasi mai dell’essere.

Davanti al mio dissenso circa questo Natale, davanti alla mia voglia di restare in silenzio, di non rispondere agli auguri e di non consegnarne, davanti alla mia inquietudine, tristezza, malinconia circa quello che sta avvenendo nel mondo (mai troppo distanti da noi) mi sono sentita rispondere “ma mica possiamo piangerci tutti i guai del mondo“.

Ed è qui che queste persone si sbagliano: non solo possiamo, ma dobbiamo.
Dobbiamo assolutamente mettere da parte egoismo, indifferenza, senso di superiorità, menefreghismo e riscoprire le uniche due cose che andrebbero impacchettate e consegnate al destinatario più prossimo: speranza ed empatia.

Non possiamo girarci dall’altra parte e non si può più dire: “ma io cosa posso fare?
Perché si può fare  … e molto.
Si può prendere parte ad un progetto di solidarietà, si può prendere una posizione, si può dire la propria, si può rinunciare a qualcosa, ad un Natale come tutti gli altri, anche solo per rispetto a tutto quello che sta accadendo. E se proprio per davvero, si vogliono “piangere tutti i guai del mondo” basta un gesto, semplice, silenzioso, accorato e pieno di amore, dello stesso Amore che nasce la notte di Natale e che non ha nulla a che fare con “ricchi premi e cotillion”.

Perché dietro ad alberi superaddobbati e a chi ostenta a “chi ce l’ha più grande e più bello”, dietro i numeri del consumismo, delle milioni di persone in vacanza come sempre (che alla fine non rinunciano a nulla e se ne fregano di ciò che di terribile sta accadendo nel mondo) c’è una realtà che è non solo immensamente triste, ma tremendamente ingiusta.

Ditemi come si fa a non pensare ai bambini sotto le bombe e al freddo, a chi resiste ma non ce la fa più, che non ha più nulla, neanche un futuro da sperare.
I nuovi poveri, coloro che un tempo avevano di che mangiare e oggi sono in fila per un pasto caldo, che oggi, come ieri e pure come domani, non hanno nulla, neanche la speranza di un giorno normale.
Gli anziani soli e spesso abbandonati, che non “riconoscono” più la vita, perché la sopravvivenza è fredda, sterile e fa male, molto male.
I bambini piccoli che muoiono nelle acque del mediterraneo, che non sanno cosa sia il Natale e che non sapranno mai, che sentono il sonno dell’assideramento rapirli e portarli via, mentre la speranza annega insieme a loro.
Le vittime di un regime che vieta alle donne di studiare, di investire in un futuro e che piangono quella speranza che si fa sempre più piccola ma che provano a lottare; e se non dovessero lottare da sole, sarebbero più forti e più tenaci.
I condannati a morte in pubblica piazza per crimini che non esistono, perché semplicemente hanno “respirato la vita”, senza velo in testa, ribellandosi a quella morsa che rende la vita buia, perché senza libertà non esiste la luce del domani.

È un Natale dunque, senza il “camino del mondo”, senza libertà, senza cibo, senza crescita, senza vicinanza, senza solidarietà.
E la solidarietà non è soltanto un aiuto ma un investimento affinché gli altri possano non sentirsi soli.
La carità non è solo un modo per lavarsi la coscienza, ma anche per colmare il vuoto che abita il cuore di chi non ha nulla da mangiare, ma neanche la speranza. Ed è per questo che un dono a chi ha non ha nulla, insieme ad una chiacchierata può essere un regalo meraviglioso. Un pacchetto rosso con dentro la speranza.

Il mondo è distratto, l’occidente è distratto, è con lo sguardo alle proprie misere cose, mentre l’altra faccia del mondo è sotterrata dalle macerie del vivere, di un vivere spaventoso, che fa orrore, che chiede a tutti di schierarsi, di non “lasciare che sia”, di piangere sì le sorti di chi non ha abbastanza voce.

Direte: “Simona ma cosa possiamo fare, concretamente?”

Posso solo dirvi quello che farò io, anzi ciò che non farò.
Non ostenterò nulla, non mi tufferò nel consumismo a tutti i costi, non ricorrerò ad inutili sovrapprezzati regali dell’ultimo momento, non invierò auguri a nessuno.
Proverò a tendere la mano, a dividere quel che ho con chi non ha nulla, proverò ad “esserci” lì dove c’è il buio, la paura di non farcela, dove c’è la solitudine e la fame.
Urlerò il mio dissenso sempre verso ciò che è censura, violenza, privazione di ogni qualsivoglia libertà.
Userò il mio ruolo per tenere alta l’attenzione sui soprusi e i drammi che sono proprio lì, fuori dalla porta delle nostre case, perché nulla è così lontano, se sappiamo guardare senza lasciarci distrarre da tutto ciò che è effimero e destinato a spegnersi allo scadere di una collaudata mezzanotte.

Il mio augurio ve lo lascio qui, cari lettori:

Che sappiate ancora stupirvi davanti alle scelte del vostro cuore, che sappiate commuovervi e soffrire davanti al dolore di chi nulla chiede se non che ci si metta al loro fianco anche se geograficamente lontani; vi auguro di abbuffarvi di solidarietà anziché di torroni e che sappiate esprimere sempre un desiderio che possa coniugarsi con la parola “speranza” che è l’unica luce che non deve spegnersi mai.

 

BUONE FESTE DA ME, DAL DIRETTORE CASTALDO E DA TUTTA LA REDAZIONE DI SICILIA24H.IT

 

Qualche tempo fa, scrivevo un articolo che raccontava “il giorno perfetto” ossia un giorno ideale fatto da tutte quelle persone che sono solite fare semplicemente il proprio lavoro, quello che hanno scelto, per il quale vengono pagati e grazie al quale possono vivere, quello che fanno con buona volontà, abnegazione, empatia, impegno, serietà ed onestà, e che grazie alla loro condotta rendono tutto quasi “sincronizzato” affinché ci sia un mondo migliore.

E così dall’operatore ecologico al poliziotto, dall’insegnante al medico, ognuno nel proprio piccolo realizzavano un purtroppo utopico giorno perfetto.

Non ho potuto non ripensare a quello scritto, dopo aver ricevuto il racconto di vita vera di un uomo, che tutte le settimane da diverse settimane, accompagna sua moglie presso il reparto di oncologia dell’Ospedale Ciaccio di Catanzaro, affinché possa sottoporsi alla chemioterapia.

Un racconto che lascia sgomenti e a tratti delusi, perché in questa terra martoriata dal malaffare, ci si aspetterebbe almeno nel momento tragico del bisogno, di non dover subire la condizione e l’umiliazione di “non essere figli di … amico di … paziente di …”.

Ed invece la storia di questo signore – di vita vera – è piena di situazioni che fanno indignare, che buttano inevitabilmente la sanità nel fondo torbido del privilegio, che favorisce qualcuno a discapito di altri. E ribadisco, che a nessuno piace frequentare reparti d’oncologia dove chi vi si reca cerca solo di essere assistito al meglio, curato al meglio, accolto al meglio.

La storia di questa coppia, che parte da Cosenza alle 5 del mattino, che prova ad avere un numero di ingresso tra i primi, affinché la giornata di terapia iniziata così presto non finisca con il buio, uguale a quello con il quale sono partiti al mattino.

Ebbene quei numeri, distribuiti alla porta del reparto, talvolta sono presi da addetti, per poi consegnarli agli amici, perché favorire qualcuno a discapito di altri, è pratica comune nella nostra società, e dunque anche negli ospedali, anche in questo ospedale. Ma due giorni fa, la coppia di cui riporto la storia, arriva per prima, prende il numero 1 e così ci si aspetta di essere i primi, ovviamente per il proprio percorso medico. Ma si troveranno ad accedere alla seduta di chemioterapia dopo il numero 42. Avete capito bene. 41 persone dopo, pur avendo il numero 1. Ore ed ore di attesa, dopo analisi di rito e quella visita dallo specialista, alla quale accedono paziente che a volte non seguono neanche il percorso stabilito, che sono pazienti privati di medici del servizio pubblico, o che hanno da consegnare contestualmente alle visite, doni, presenti, regali … insomma, chiamateli come volete.

Magari tutti vedono quella situazione, tutti sanno, ma tutti stanno zitti, perché ormai non ci si ribella più, nessuno si permette di dire nulla fuori posto per paura di una qualche reazione che poi va a discapito del malato che lì dentro, deve in qualche modo viverci, e non vuole eventuali ripercussioni.

Ma il protagonista (suo malgrado) della storia non ci sta e allora ritiene giusto rivolgersi alle forze dell’ordine, spiegando ciò che accade sotto i suoi occhi e chiedendo un intervento. Ma – udite udite – un graduato che è dell’altra parte del telefono gli consegna una risposta che lascia interdetto l’uomo e che lo convince che questa storia non deve restare privata, ma va resa pubblica. Il suo interlocutore gli risponde che “non reputa quella situazione degna di un eventuale intervento, a meno che lui non prenda a sprangate qualcuno lì dentro” – allora sì che manderebbe una voltante. Peccato per il graduato, che le telefonate sono tutte registrate e molto probabilmente quella telefonata, provocherà una qualche conseguenza.

Facciamo quindi un piccolo resoconto: un uomo che porta sua moglie a fare la chemioterapia, a 100 km da casa, si trova davanti a latte di olio che viaggiano da corridoi a studi, che attende un turno ipotetico che quasi mai è quello dei numerini, che denuncia ma che incappa nel graduato di turno, che lo istiga quasi a commettere un atto delittuoso, quasi a farsi giustizia da solo. E capite bene che quell’uomo non può farsi giustizia da solo, perché lui è uno di quelli che fa ogni giorno il lavoro e bene, perché deve e vuole essere il tassello del famoso “giorno perfetto”. Ma non sarà il suo, quel giorno perfetto, perché affinché sia tale, tutti dovrebbero fare il proprio di dovere, con coscienza ed onestà.

Io non faccio fatica a credere al racconto ed anche alle immagini che sono state mostrate a questo giornale e non faccio fatica non solo perché a tutti noi è capitato di vedere file saltate da medici con amici a braccetto mentre fanno visita al collega di turno, ma anche perché personalmente, accompagnando un’amica per un anno interno a fare la chemioterapia nella stessa città ma in altro ospedale, ho visto andazzi analoghi.

Ora la domanda che mi pongo e che vi pongo è: bisognerà sempre chiudere un occhio, anzi tutti e due per sempre? Bisognerà continuare ad avere paura di parlare, di denunciare metodiche comportamentali che vanno a discapito di qualcuno e a favore di altri? È normale che un preposto all’ordine pubblico, rifiuti di andare a guardare da vicino una situazione?

Noi oggi, abbiamo fatto il nostro lavoro, abbiamo fatto il nostro dovere, abbiamo accolto una testimonianza e abbiamo deciso di dare voce a questa coppia, che oltre al dolore, alla paura della malattia, alla stanchezza di un viaggio, allo svilimento di una giornata che non ha avuto i contorni della normalità (per come la normalità dovrebbe essere), ha deciso di raccontare ciò che hanno vissuto.

Io non so quante persone si riconosceranno in questo racconto, quanti annuiranno leggendo questo episodio, ma so anche che probabilmente qualcuno tra quelli che ha ricevuto il “dono natalizio” si riconoscerà in queste righe e mi auguro che in un momento di riflessione, rispolveri non solo il codice deontologico, ma anche il giuramento di Ippocrate, e che decida di ricevere i doni fuori dal reparto nel quale i pazienti sono tutti uguali (al netto della gravità di ognuno) e che se esiste un numero che “indica la via”, che sia quello e nulla più a pesare sulle sorti di un giorno che non sarà mai perfetto se gli anelli della catena si interrompono proprio lì dove necessità la condotta per un mondo migliore.

Ah dimenticavo … Volevo dire al Sig. Presidente della Regione  Calabria, Roberto Occhiuto che nello stesso giorno in cui i nostri protagonisti passavano un doppio calvario, dichiarava di “aver raccolto una sanità in macerie, governata da anni da commissari nazionali, spesso senza competenze” che se il materiale umano e il tessuto sociale medico calabrese è quello raccontato in questo articolo che riporta fatti realmente accaduti, molto poco si potrà fare e a nulla varranno commissari più o meno competenti; La Calabria resterà la terra del clientelismo e delle latte di olio che camminano da corridoi a studi, sempre con qualche ritorno.

 

il #pinocchio di Guillermo del Toro è un vero CAPOLAVORO; per me andrebbe proiettato nelle scuole. 

È liberamente ispirato a quello di Collodi ed è diverso in tutto – ovviamente – da quello di Comencini. 

A dire il vero ho sempre pensato che nessun Pinocchio sarebbe potuto essere affascinante e commovente come quello, ma mi sono dovuta ricredere. 

Del Toro c’ha messo 15 anni per realizzarlo, con una squadra di 100 professionisti al suo servizio. 

Tra disegnatori, scultori, pittori, ingegneri hanno dato vita ad un film di animazione ma con la tecnica dello Stop motion, ossia un fotogramma alla volta. 

Una cosa pazzesca! 

Ho trovato la storia originale e molto ben raccontata.

I pupazzi animati hanno delle caratteristiche accentuate a tal punto da esprimere appieno il senso dei personaggi. Bellezza, bruttezza, cattiveria, bontà, amore e odio, sono espressi in maniera empatica e coinvolgente. 

La scelta di calare la storia nel periodo storico del fascismo, dei bambini reclutati, di un Mussolini che nella pellicola viene “minimizzato” e miniaturizzato, ha creato l’atmosfera giusta per enfatizzare ancor più i temi trattati: l’identità, l’importanza della famiglia, il contrasto tra bene e male, la solidarietà, il rispetto, la generosità, il valore della coscienza, la disubbidienza che diventa ribellione verso ingiustizie e soprusi.

Le musiche originali, cantate e “ballate” dai protagonisti sono una cornice perfetta al prodotto. 

La scelta di un Geppetto pieno di dolore che ritrova la voglia di vivere, un grillo parlante che riesce nell’impresa di rendere Pinocchio buono, ma che alla fine con generosità rinuncia alla sua richiesta, un mangiafuoco orrendo e subdolo, un lucignolo che prende coraggio e si ribella al suo personalissimo regime, una scimmia che da “spazzatura” diventa una piccola eroina, e un burattino che non diventa mai bambino, che resta un burattino ma solo nelle fattezze, perché sa vivere come un bambino affamato di vita, e farà i conti con un suggestivo aldilà e una vita che verrà senza mai perdere il filo di tutto: l‘amore.

E su tutto la morte, il suo significato, il dolore che arreca, la rinascita (sotto varie forme), l’accettazione della vita come tempo che alla fine scade, e porta con se un finale, che a volte è solo il senso di un circolo infinito e perpetuo, che quando si inceppa, diventa la vita di ognuno.

Del Toro con questo film ha dimostrato come si possa fare un Pinocchio senza fatina, ma con una creatura che nel regno dei morti regola le vite del burattino, che ogni volta che torna sulla terra ne acquisisce consapevolezza, fino alla scelta finale.
Ha dimostrato anche come si può essere piccoli ma coraggiosi, che si possono sfidare gli stigmi sociali, gli stereotipi, le convenzioni.

C’è la balena nel Pinocchio di Del Toro. Una creatura che si mimetizza con l’ambiente, proprio come alcune trappole del vivere, quando si viene “inghiottiti” e si pensa di non avere più scampo.

Ma Pinocchio trova scampo da tante vicissitudini, vivrà come un bambino, imparerà anche gli addii e camminerà per il mondo, ed il suo finale sarà imprevedibile … proprio come la vita di ognuno, come la vita fuori dai film.

I doppiatori italiani superaltivi, come sempre.

E poi quel senso distintivo di Guillermo Del Toro: sempre in bilico tra favola e realtà, tra forma e sostanza, tra il poetico e il visionario.

Il film consigliatissimo, lo trovate su Netlix.

La solidarietà resta il mezzo per sentirsi parte pulsante di un mondo che ha bisogno urgente di aiuto, di sostegno, di un abbraccio, di un sentimento che non ha bisogno di tante parole ma semplicemente di un gesto, una mano tesa verso gli ultimi, verso i più bisognosi.

Ed è con questo spirito che lo scorso 13 dicembre si è tenuto a Cassano alla Ionio, presso il teatrino del seminario, messo a disposizione dalla diocesi, l’evento “Il giocattolo sospeso, un sorriso per i bimbi“. La manifestazione sostenuta e promossa dall’Associazione Artisti Eccellenze Calabria guidata da Anna Maria Schifino, e poi da commercianti, dal vescovo  Mons. Savino e da cittadini, ha commosso per l’intensità e per la gioia che hanno instillato in tanti bambini che hanno ricevuto un dono, e non c’è niente di più emozionante di un bambino che stringe tra le mani un pacchetto tutto per sé. Bambini di diversa nazionalità, uniti dalla gioia di quel gesto, tutti uguali e uniti nella condivisione di una serata che alle porte del Natale si è trasformata in pura magia.
Anche Katia Di Leone, pittrice, attrice, scrittrice cosentina, un’artista a tutto tondo, capace di una generosità disarmante, ha donato con cuore sincero 60 cappellini, che lei stessa ha realizzato rigorosamente a mano, lavorando per diverse notti, sapendo bene quanto importante e madido di significato potesse essere il suo gesto, pieno di amore.

E se è vero che Amore deriva da A – mors ossia “tutto ciò che non muore”, allora questo evento, questo “donare” in un pomeriggio di dicembre, non può che essere il simbolo di come la bellezza umana altro non è che una mano tesa, un gesto umile da cuore a cuore, affinché il senso della vita si fermi proprio lì, in un sorriso, in un giocattolo sospeso, in un dono dal valore inestimabile.

 

 

 

Il 20 Novembre 2022 alle ore 19 presso la Sala Accademica del Conservatorio di Musica Santa Cecilia è di scena CORPI ACUSTICI, uno spettacolo di teatro, musica e danza nato dal laboratorio teatrale che da Settembre ha coinvolto un gruppo integrato di persone con e senza disabilità, uniti da un unico comune denominatore, l’espressione artistica: musica, parola, danza.

Uno spettacolo corale, dove ogni gesto e parola racconta l’essenza di ogni partecipante e del gruppo che ha lavorato insieme. Anche le musiche nascono dalla ricerca musicale condotta dagli allievi musicisti con i Maestri del Conservatorio Santa Cecilia, adattando e riscrivendo brani dal loro repertorio classico e jazz finalizzati allo spettacolo.

Un gruppo di 27 elementi, ognuno col suo strumento, la sua voce. Corpi che vogliono farsi sentire, acustici. Un silenzio. Un violino e tutti intorno a cercare il motivo del silenzio. E la sua voce, nascosta in un angolo remoto del respiro, tornerà a cantare.

Dalla presa di coscienza dell’incomunicabilità e delle barriere che si alzano nella vita quotidiana, che segnano spesso silenzi assordanti, lo spettacolo conduce lo spettatore alla consapevolezza che insieme queste differenze possono essere superate. Proprio il fuoco artistico, al di là di ogni differenza, lacera quei silenzi, li riempie di musica e bellezza superando ogni barriera.

Sullo sfondo, le scenografie digitali fanno da contrappunto alle parole e alle musiche in scena, valorizzando la splendida cornice della Sala Accademica del Conservatorio Santa Cecilia.

Lo spettacolo è accompagnato dalla mostra fotografica a cura di Fotografi senza Frontiere, che ne racconta il percorso laboratoriale.

 

Corpi acustici è anche un progetto complessivo che ha coinvolto allievi del Conservatorio Santa Cecilia con e senza disabilità in percorsi strumentali, di musica d’insieme e Ritmica Dalcroze, partecipanti interni ed esterni al Conservatorio nel laboratorio teatrale, con la realizzazione dello spettacolo teatrale, della mostra fotografica e di un video di backstage.

 

CORPI ACUSTICI è un progetto realizzato da Fuori Contesto, in collaborazione con il Conservatorio di Musica Santa Cecilia e Hubstract-Made for Art.

CORPI ACUSTICI è vincitore dell’avviso pubblico Comunità solidali 2020, finanziato dalla Regione Lazio con risorse statali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

 

Per informazioni e prenotazioni:  info@fuoricontesto.it, 3291554787

 

2 novembre 1975
Pier Paolo Pasolini, fu talmente tante cose in vita, che una vita non basterebbe per conoscerlo in ogni sua pregevole attività svolta.
Poeta, scrittore, regista, giornalista, drammaturgo, sceneggiatore, editorialista, saggista, traduttore.
Bisognerebbe amare ed essere appassionati di ognuna di queste categorie artistiche, per amarlo profondamente, forse.
Eppure, Pasolini, resta il più straordinario intellettuale del ‘900 e nell’epoca nella quale tutti si atteggiano ad uomini “di sapere” lui spicca, con tutta la sua crudeltà – che poi é stata anche il suo punto d forza – nel criticare la società moderna, la società dei costumi, le abitudini borghese, quei cambiamenti del vivere che ha avuto protagonisti che Pasolini analizzò in maniera quasi maniacale.
E poi quel rapporto con la sua omosessualità, alla quale fu attribuita anche la sua morte, considerato che il suo omicidio sarebbe avvenuto proprio a seguito di richieste sessuali rivolte a Pelosi.
Manca ad oggi una figura come Pasolini, perché nessuno ha saputo mai più dopo di lui essere figura così centrale della nostra cultura, un poeta capace di segnare un’epoca, un geniale regista e un uomo con cui la parola era davvero inesauribile.
Forse non tutti sanno che Pasolini scrisse anche canzoni, scrisse per Sergio Endrigo, per Gabriella ferri, per Domenico Modugno. Non ci fu per davvero un campo nel quale non si cimentò, riuscendo con successo.
Poi ci fu chi l’amò profondamente, pur vestendo solo i panni di un’amica speciale che pur essendo sempre rimasta nell’ombra, defilata, descriveva il suo rapporto con lui come “una ingordigia del reale”. Per lei, Donna borghese, PPP era il piccolo Gesù di paese.
“La sua vita era fatta di regolarità e disciplina, eppure credo che non fosse felice di quella sua vita” – racconta la donna che l’amò.
Visse portando addosso la delusione umana, e quella tristezza che – chi lo ha letto ed amato – conosce bene.
In questo giorno che di anno in anno non passa mai inosservato, ho deciso di porre l’attenzione su alcuni scatti che raccontano bene chi fu Pasolini.
La prima è una foto scattata da Mario Dondero, grande amico di Pasolini, che lo ritrae con sua mamma amatissima Susanna Coluzzi.
Sono abbracciati, sembrano avere le stesse rughe, lo stesso sorriso accennato e il medesimo sguardo che lascia intendere un sogno comune.
Sono una cosa sola, sono all’unisono, sembrano proteggersi vicendevolmente.
La seconda è l’Alfa Romeo GT 2000 spider  verde di Pasolini, quella che lo condusse ad Ostia quella sera del 2 novembre ’75 quando fu assassinato.
L’auto esiste ancora, è spuntata fuori l’anno scorso a Varese e il nuovo proprietario ha promesso un restauro per esporla. Un’idea stupenda e tutti aspettiamo di poterla rivedere perché pezzo di storia, della storia di Pasolini.
La terza foto ritrae Pasolini con i capelli al vento sulle dune di Capocotta, mentre spiega che l’Italia sta vivendo uno “sviluppo senza progresso”, e da allora tutti hanno imparato che sviluppo e progresso non sono sinonimi, ma che nella loro sostanza possono anche rappresentare degli opposti.
Nella quarta foto l’assegno firmato da Pasolini, per pagare l’ultima cena nell’osteria di Aldo Bravi.
Ultima cena con Ninetto Davoli, che gli costò 11 mila lire. Assegno mai incassato e incastonato in una teca per ricordare quel giorno, il 2 novembre del 1975, nell’osteria Pommidoro. Quell’assegno, quella firma, furono per Aldo Bravi, morto lo scorso anno, un modo per tenere stretto il ricordo di un amico.
L’ultima foto è sul luogo dell’omicidio, all’idroscalo di Ostia. Uno spiazzo fatiscente. Le indagini sul suo omicidio non furono brillanti, la verità completa non è mai emersa; gli amici chiedono ancora di fare luce sull’accaduto. Tante le versioni riguardo all’uomo che per la giustizia italiana è stato l’assassino di Pier Paolo Pasolini, Pino Pelosi.
La scena del crimine è significativa.
Pasolini viene ucciso di notte, il corpo viene scoperto all’alba, è domenica e quel luogo dopo i primi rilievi viene subito sgombrato, perché è un campo da calcio, ci sono un sacco di ragazzini che sono arrivate da tutte le periferie di Roma per un torneo.
Lì, dove Pierpaolo – che era una super ala destra nel calcio – era morto, poche ore dopo si giocò a pallone.
Qualcosa di poetico che accompagnò quella sua uscita di scena.
LA FOTO DI COPERTINA È DI PROPRIETÀ DI SICILIA24H   © 

Da sempre la Calabria fa i conti con i terremoti, e vivere qui, significa accettare di doversi svegliare nel cuore della notte, inermi ed impotenti davanti alla forza – e a volte anche alla violenza  – della terra che trema.

Anche ieri sera in scena la paura, il panico, durante e dopo la scossa di magnitudo 5.1 registrata alle 22.42 al largo della costa calabra Scalaea-Cosenza.

La sala sismica dell’Ingv ha localizzato il terremoto ad una profondità di 286 km, al largo della costa nord-occidentale.

Dai primi controlli non ci sarebbero danni, e questo proprio perché la scossa si è consumata in fondo al mare attutendone l’effetto sulla terraferma. Ma continuano i controlli della Protezione Civile.

Nel cosentino, nella zona montana, l’effetto si è sentito ancora meno.

Intanto la scossa si è avvertita in tutta la Calabria, fino a Messina.
Nel crotonese, nel vibonese, a Catanzaro, nella Piana di Gioia Tauro e a Reggio Calabria.
Da ogni parte della regione, sono giunte segnalazioni.

 

È tornato in Calabria lo scorso 23 ottobre, Andrea Puglisi, raffinato attore di teatro che sul palco del Teatro Comunale di Mendicino (Cs) ripropone un testo che lui stesso ha scritto e che mette in scena con una sensibilità intensa e coinvolgente.

“Paulinuzzu Millarti“,  storia di Paolo Montalto –  che parte per la guerra per poi far ritorno a casa, da una madre ormai vecchia che stenta a riconoscerlo, dopo mille vicissitudini –  si muove nelle parole e nei gesti scenici di Andrea Puglisi, capace di fare da solo in scena tanti personaggi, con un ritmo serrato che ben si presta alle vicende narrate.

L’orrore della guerra, la necessità di doversi preservare, il dolore della perdita, le atrocità viste, il destino, le opportunità, tutto ben  raccontato ed interpretato dentro una scenografia efficace, che l’attore sa vivere e trasformare mentre prende forma crudeltà che non fa sconti.

Credibile, cresciuto e capace, Andrea Puglisi – diretto in scena da Benedetta Nicoletti che ne cura la regia – utilizza in maniera virtuosa il dialetto siciliano, per raccontare vicissitudini, sentimenti, e quella storia vera che lui fa sua, dopo un racconto ricevuto da colui che quella guerra l’ha vissuta per davvero.

Ai microfoni di Sicilia24h, l’attore racconta il suo teatro e si racconta amabilmente