Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 8 di 94
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Morti di fame e di freddo.

Tra gli 8 cadaveri trovati dalla guardia costiera nella notte tra il 2 e il 3 febbraio al largo di Malta anche una donna incinta. Erano partiti il 28 gennaio dalla Tunisia. Portati in salvo in 42, sono stati trasportati all’hotspot di Lampedusa.
Ma oltre agli 8 morti ci sono anche altre due vittime: un neonato scivolato in mare dalle braccia della madre.
Così Salvatore Vella, procuratore di Agrigento ai microfoni della Rai:

Questa giovane donna durante la navigazione aveva in braccio questo piccolo  di 4 mesi. La donna si è accasciata, il marito e gli altri migranti l’hanno soccorsa, ma lei era morta e il bimbo che aveva in braccio, di notte, scivola in mare e muore”

La seconda vittima è un uomo che sedeva sul bordo della barca, sfinito dal freddo e dal digiuno, è caduto in mare. I corpi ritrovati sono di 5 uomini e di 3 donne, una delle quali in avanzato stato di gravidanza. Tutti morti verosimilmente per ipotermia, per freddo, perché di notte in mare fa freddissimo, oppure – come dice ancora il procuratore Vella – per stenti, considerato che avevano finito acqua e viveri da qualche giorno e stavano bevendo acqua di mare.

 

Una emozionatissima Liliana Segre su Rai 1 insieme a Fabio Fazio per celebrare il giorno della Memoria con una serata “per non dimenticare”.
Il racconto della sua terribile e dolorosa esperienza nei campi di concentramento di Birkenau e Auschwitz, dal binario 21, della stazione di Milano, nella pancia, nel fondo della stazione da dove partivano i treni carichi di ebrei che divenivano deportati. Oggi in quei luoghi vi è un Memoriale, che tutti dovrebbero visitare. Appena si arriva in quel luogo vi è un grande muro con la scritta “INDIFFERENZA” che è la parola chiave scelta proprio da Liliana Segre e che rappresenta proprio il sentimento patito dagli ebrei; l’indifferenza della gente nei confronti di ciò che stava accadendo durante tutto il periodo, non soltanto durante la deportazione e che oggi non dovrebbe più esistere.
Il senso e l’importanza della memoria è stato il filo conduttore della serata durante la quale la senatrice a vita ha raccontato alcuni dettagli della sua prigionia nei campi di concentramento, della sua vita di ragazzina in un posto assurdo, nel quale la vita o la morte erano solo affidati al caso.
Ad accompagnarla nel racconto Fabio Fazio, che con tanta delicatezza le ha posto delle domande, lasciando alla Segre l’emozione travolgente del racconto. La sua salvezza dovuta al fatto che conosceva la parola “solo” in tedesco, la “fortuna” di essere stata scelta come schiava per lavorare nelle fabbriche, salvandosi dalla camera a gas, la lunga marcia della morte lungo la quale ebbe la possibilità di vendicarsi verso coloro che erano stati i suoi aguzzini, e poi la scelta di non lasciare spazio all’odio e di riprendersi la sua vita, che poi ha vissuto fino ad oggi in pace.
E poi quando Fabio Fazio le ha chiesto come riuscisse a superare le notti, nei campi di concentramento, Liliana Segre ha risposto: “Ero giovane ed ero forte. La notte ero fortissima. Questo voglio dire ai giovani, siate forti, fortissimi“.
Toccante il racconto della “tragedia” – come lei stessa l’ha definita – di quando facendo ritorno a casa, da quella che restava la sua famiglia, i nonni e gli zii, non solo tutti stentarono a riconoscerla perché differentemente allo scricciolo che era quando era stata portata via, era grassa, brutta e rozza, ma soprattutto perché tra le tante cose che avrebbero potuto chiederle, le domandarono solo il perché fosse diventata così grossa e se fosse ancora vergine.
Si commuove, Liliana Segre raccontando come in quei 4 mesi, dall’inizio di maggio quando fu liberata, alla fine di agosto, quando fece ritorno a casa, passò il suo tempo a mangiare, e una volta arrivata in città un signore le fece l’elemosina.
Durante la serata le voci di Pierfrancesco Favino e di Paola Cortellesi, hanno declamato un monologo sull’odio e la famosa poesia di Primo Levi, tratta da “Se questo è un uomo”. Ascoltare quelle parole, in un giorno come questo, quell’invito a raccontare e tramandare quell’orrore affinché non si dimentichi, è stato molto toccante.
Il conclusione, in onore di Liliana Segre e di tutte le vittime dell’olocausto, il coro del Teatro alla Scala di Milano ha intonato il “Va pensiero” di Verdi.
Una rosa bianca donata alla senatrice a vita e la forza di una testimonianza che è simbolo di come la forza di chi ha vissuto quell’orrore, sa divenire linfa, affinché non accada mai più.

 

Matteo Messina Denaro è ora nel carcere de L’Aquila a regime carcerario del 41 bis.
E in queste ore deve pensare alla linea difensiva che dovrà attuare nei processi e negli innumerevoli interrogatori che lo attendono, considerati tutti i capi d’accusa.
Ebbene, ha deciso di nominare come suo legale, sua nipote Lorenza Guttadauro, avvocato penalista e consanguinea non di uno, ma di due boss mafiosi. La legale infatti, che esercita in uno studio di Palermo, è figlia della sorella del boss, Rosalia Messina Denaro, e di Filippo Guttadauro, arrestato e condannato per associazione mafiosa e figlio di uno storico capobastone. Il nonno paterno della legale è infatti lo storico boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro. La legale è inoltre sposata con Girolamo “Luca” Bellomo, già condannato per crimini mafiosi e che sarebbe stato uno dei pupilli  di Messina Denaro, oltre che finanziatore della sua latitanza.

Ad Adnkronos, la legale con la quale la nomina non è ancora stata formalizzata ha detto:

Sono rimasta sorpresa anche io dalla nomina ricevuta da Matteo Messina Denaro, le dico la verità, non me l’aspettavo

Gli applausi che si sono sentiti quando è stato arrestato sono probabilmente significativi di una terra che ha voglia ancora di riscatto, della volontà di liberarsi dalla prepotenza mafiosa, della privazione di libertà in tutti i campi, gli stessi dove la mafia ogni giorno si infiltra diventando invisibile.
Dopo l’arresto di stamane del super-latitante Matteo Messina Denaro, viene da pensare che alla fine (meglio tardi che mai) la giustizia arriva, si palesa e dunque non esiste l’impunibilità e l’invincibilità della mafia.
Giovanni Falcone era solito dire: “la mafia è un fenomeno umano e come tale ha avuto in inizio e avrà anche una fine”.
La mafia ha però sempre giocato sul mito della invincibilità, ma oggi con questo arresto esemplare, questo mito non c’è più.
Ma ci sono voluti trent’anni prima che questo giorno arrivasse perché il mafioso gode dell’appoggio di tutto un ambiente che lo favorisce; Matteo Messina Denaro era considerato un “benefattore” nella sua zona di competenza, e quindi nessuno lo avrebbe mai tradito. Probabilmente il boss ha preferito non diventare il capo assoluto, non un “capo dei capi” (come fu Totò Riina) proprio per mantenersi nel suo territorio, con i suoi affari per poter garantirsi al massimo questa latitanza. C’è voluta una malattia grave per spingerlo verso Palermo, per curarsi in una delle migliori cliniche private palermitane, sotto falso nome (Andrea Bonafede), per poter avere dunque una falla, nella sua rete di protezione.
Ma chi l’ha curato, sapeva?
Le ipotesi – come ha detto Piero Grasso – sono due: o c’è un favoreggiatore che l’ha favorito per farlo curare, o c’è un traditore che lo ha tradito per farlo arrestare. Il favoreggiatore se c’è, prima o poi verrà scoperto, il traditore non lo scopriremo mai.
Arrestato quest’oggi mentre faceva colazione, durante una brillante operazione che non ha coinvolto nessuno all’interno dell’ospedale; i carabinieri in borghese – che in un primo momento hanno fatto fatica a riconoscerlo, che non erano sicurissimi che fosse lui – lo hanno preso a braccetto dicendogli “venga con noi, le dobbiamo parlare” e lui ha detto subito detto “sono Matteo Messina Denaro”. In ambito mafioso chi ti avvicina non puoi sapere subito se sono forze dell’ordine o avversari ed è per questo che ha subito detto il suo nome, e una volta capito che lo stavano arrestando non ha opposto resistenza.
Matteo Messina Denaro sa tante, tantissime cose del periodo stragista.
È stato lui uno dei componenti del commando che era stato mandato da Riina nel febbraio del ’92 a Roma per seguire, pedinare e uccidere Falcone con armi comuni mentre era al ristorante. Quell’attentato non andò a buon fine perché ci fu un errore di ristorante. Il commando andò al ristorante “La matriciana” al quartiere Prati, mentre Falcone andava spesso al ristorante “La carbonara” a Campo dei Fiori, dietro il ministero della giustizia. Spesso finendo tardi al ministero, liberava la scorta e faceva due passi a piedi. Giovanni Falcone a Roma si sentiva sicuro.
È stato il figlioccio di Riina, cresciuto sulle sue ginocchia, da lui ha imparato ad uccidere, ne  ha custodito e ne custodisce i segreti e le confidenze. Condannato per essere tra i mandanti degli attentati mafiosi avvenuti tra il 1992 2 il 1993. Quindi la strage di Capaci, di Via D’Amelio, gli eccidi di Roma, Firenze e Milano. Ha compiuto tredici omicidi tra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido nel 1996.
Messina Denaro era proprio il preferito di Riina, quando i corleonesi si presero Palermo.
La domanda che in molti si stanno ponendo in queste ore è se Messina Denaro parlerà. Chi conosce bene lui e l’ambiente mafioso (parliamo di magistrati) pur sperandolo, ritiene che non lo farà, considerato il fatto che i grandi capi di Cosa Nostra non hanno mai parlato. Provenzano e Riina si sono portati segreti nella tomba.
E chissà se avrà mai un rimorso di coscienza, per tutto quello che ha ideato e ha contribuito a provocare, mettendo da parte l’omertà mafiosa. Forse allora potrà raccontare tutti i dettagli delle stragi, tutti i contatti che ha avuto insieme a Bagarella per tutte le stragi commesse.
Si dice che lui sia stato quello più “acculturato” rispetto ai suoi pari grado; infatti era lui ad individuare i beni culturali ed artistici da colpire per incominciare ad avviare le trattative con lo Stato.
Se diventerà un collaboratore di giustizia, probabilmente avverrà perché ha un pentimento intimo, non per avere dei benefici.
Per Piero Grasso non è tipo da utilizzare la legge dei pentiti.
Ma la mafia non è finita con questo arresto, continua a tramare nell’invisibilità, tra traffici e profitti.

Il boss Matteo Messina Denaro, ex primula rossa è al momento presso la caserma dei carabinieri di San Lorenzo di Palermo. In seguito sarà trasferito presso una località segreta.
Arrestato durante un blitz questa mattina poco meno di un’ora fa, un blitz condotto da centinaia di carabinieri del Ros, del Gis e del comando territoriale della regione siciliana, coordinati dal procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia.
Al momento dell’arresto, il boss stava facendo colazione nel bar della struttura sanitaria dove si stava sottoponendo a delle terapie per curare il cancro che lo aveva colpito un po’ di tempo fa. All’uscita dalla struttura sanitaria del boss con le forze dell’ordine c’è stato un applauso dei palermitani che si trovavano all’esterno della clinica La Maddalena.Trent’anni di latitanza, durante i quali il boss ha avuto fidati luogotenenti di cosa nostra, la cerchia familiare che ha garantito questa lunga latitanza; un esercito che negli anni è stato decimato dai tanti blitz delle forze dell’ordine.

Figlio di un padre boss mafioso, amante del lusso, ha ordinato stragi, ha fatto profitti illeciti;

La notizia dell’arresto arriva a trent’anni dall’arresto del capo del capi, Totò Riina che avvenne il 15 gennaio del 1993.
Le ultime notizie arrivano dal generale di divisione Comandande dei Ros Pasquale Angelo Santo che ha condotto il blitz:

Un lavoro congiunto tra polizia di stato e carabinieri. La cattura di Matteo Messina Denaro ha una importanza storica. Era l’unico stragistra rimasto in libertà.

La notizia apre un anno bellissimo per la lotta alla mafia. I latitanti non sono dunque invincibili come si sentono.
Una grande botta alla mafia, anche se la mafia non finisce con questo arresto.
Arrestare Matteo Messina Denaro nel cuore del suo territorio è un segno importante.
La procura di Palermo in questi anni ha effettuato centinaia e centinaia di arresti, tra cui i fratelli e la sorella di Matteo Messina Denaro, sono in carcere, hanno sequestrato e confiscato beni, ma mai nessuno di loro lo ha tradito. Una rete di favoreggiatori che purtroppo “amava” questo uomo. Questo arresto, svelerà finalmente il volto di questo uomo, che ha traghettato la mafia stragista di Totò Riina in una mafia imprenditoriale ed invisibile che oggi inquina l’economia e la politica.

 

 

Mi sono presa un po’ di tempo per pensare e ripensare a questa vicenda.
Perché sono una giornalista che dovrebbe raccontare la cronaca ma anche una madre che fa i conti tutti i giorni con quel ruolo assai difficile e che ha come unico obiettivo, il bene dei propri figli.
Alla luce di questa mia ultima affermazione viene da domandarsi dove risieda il bene per i propri figli, quando si agisce come hanno agito quei genitori che a seguito del gesto gravissimo ed ignobile di quegli studenti che hanno “sparato” contro la prof di scienze, hanno fatto ricorso (vincendolo) per far annullare la sospensione (giusta) ai loro figli.
Ma facciamo un passo indietro.
È l’11 ottobre quando, dei ragazzi del primo anno (parliamo dunque di ragazzi di 14 anni) dell’Istituto Tecnico Viola-Marchesini di Rovigo (se fosse successo in Sicilia si sarebbe detto che quei ragazzi vivono in una terra di mafia, ed invece vivono e fanno i bulli al nord) creano un danno alla professoressa di scienze Maria Cristina Finatti (alla quale va tutta la mia solidarietà sempre) sparandole contro con una pistola ad aria compressa, ferendola alla testa. Tutto questo mentre un altro alunno filma la scena per poi postarla sui social (TikTok che è la negazione assoluta di ciò che può essere la cultura) allo scopo di fare visualizzazioni, followers e dunque avere una qualche notorietà.
Prima di addentrarci in tutte le conseguenze di questo gesto, proviamo ad analizzare tutte le cose sbagliate fino a questo momento.
Ragazzi 14enni entrano in classe con cellulari (che dovrebbero essere spenti e riposti appena entrati) e con una pistola ad aria compressa, con uno scopo ben preciso. Intanto dovremmo domandarci perché un 14enne possiede una pistola ad aria compressa, chi gliel’ha comprata e perché.

La prof denuncia tutti e 24 gli alunni, considerato che chi non prende le distanze da quella condotta, è complice.

Il 18 ottobre tra l’altro il consiglio di classe dispone la sospensione di 5 giorni  per lo studente che aveva sparato e altrettanti per quello che aveva ripreso la scena con il cellulare, due giorni invece per il proprietario della pistola e per l’alunno che l’aveva poi lanciata dalla finestra nel tentativo di sbarazzarsene. Punizioni decise ma mai attuate. Il motivo? La famiglia di uno dei giovani coinvolti ha presentato un ricorso interno alla scuola e il provvedimento è stato annullato: pare vi fosse un errore nella stesura del testo della sospensione.

L’attenzione però a mio avviso non è sull’annullamento del provvedimento (può accadere per innumerevoli motivi o vizi di forma), ma sulle motivazioni che spingono dei genitori a fare ricorso.
Altro che “vizio” c’è in questa condotta.
C’è una mancanza sostanziale nel ruolo di chi deve educare al rispetto, al rispetto delle regole e del ruolo di colui o colei preposto all’insegnamento e non solo. Perché il gesto sarebbe stato altrettanto grave se fosse stato commesso contro un altro compagno, un collaboratore scolastico, o un passante per strada.
C’è questo lassismo verso errori che hanno l’aggravante di essere premeditati, che sono incastonati in azioni che vengono studiate per altri scopi, che ledono non solo nel corpo ma anche la dignità altrui. L’educazione è un bene fondamentale per la crescita dei ragazzi e della società, e la mancata punizione, sostituita invece con quel ricorso, è la spia di un percorso formativo familiare che si è interrotto in maniera grave e forse irreparabile.
Dov’è finito il genitore che insegna il rispetto perché anch’egli rispetta il ruolo altrui?
Dov’è l’esame di coscienza da instillare nel giovane che in casi come questo non capirà mai di aver sbagliato?
Dov’è la punizione che serve a tenere alta l’attenzione su ciò che non si deve mai fare?
I giovani a cui si lascia fare qualunque cosa, se non messi davanti alle proprie responsabilità e alle conseguenze delle loro azioni, cresceranno con l’idea che possono fare tutto, tanto non esistono conseguenze.
Cosa c’era di sbagliato in quei 5 giorni di sospensione?
Erano giusti, quei giorni di sospensione. Soprattutto se in quei 5 giorni, i ragazzi fossero stati privati di quei mezzi che permettono loro di sentirsi potenti, importanti, “seguiti”. Sarebbero dovuti essere 5 giorni di studio, di riflessione, di faccende domestiche e di consapevolezza. Ma non può esserci consapevolezza a 14 anni se qualcuno preposto ad indicare la strada, ad insegnare cosa sia giusto e cosa no, non ne ha a sua volta. Perché dubito che quei genitori abbiano consapevolezza del danno che hanno procurato ai loro figli, vincendo quel ricorso.
Non si può rimettere a posto nulla, se non si applica la formula “chi rompe paga”, chi sbaglia, in qualche modo paga.
È fondamentale tenere in piedi quei sentimenti portanti, quei princìpi intellettuali e morali che mettono in correlazione i giovani con gli adulti, che sottolineano i ruoli, che creano empatia, che tengono in piedi le regole e il rispetto per esse.
Sarebbe interessante interrogare quei genitori e chiedere loro perché lo hanno fatto, perché hanno firmato quel ricorso, perché non hanno voluto quella sospensione; anche senza sospensione, anche se tutti faranno finta di niente, i figli restano dei maleducati, irrispettosi, bulletti irriverenti.
La “non sospensione” non lava via la colpa, anche a fronte delle mancate scuse all’insegnante.
Ma forse i genitori si sono sentiti – o forse dovrei dire si sentono – sotto esame, come se qualcuno avesse voluto “sospendere anche loro”, come se quella sospensione volesse giudicare la loro condotta.
Non era per loro, la sospensione, il giudizio; ma un esame di coscienza non farebbe loro male.
Io da madre, mi sarei sentita mortificata, delusa ed anche sconfitta.
Perché i comportamenti dei nostri figli sono un po’ la bussola, la cartina tornasole in quel mestiere così difficile che è quello di genitore. Non abbiamo libretti di istruzione, ma abbiamo una “sospensione” a dirci, forse, che qualcosa è da rifare.
Una bella lezione non guasterebbe.
Insegnare loro per esempio a gestire le emozioni, a fare qualcosa per gli altri, a vivere i propri anni senza la pretesa di possedere un potere che è solo figlio di ignoranza e di ignominia.

 

 

 

Ve lo ricordate il racconto di Michela e il suo papà (potete leggerlo qui) che abbiamo raccolto una settimana fa, che raccontava la malasanità all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, considerato da tutti un ospedale “virtuoso”?

In merito a quel racconto abbiamo ricevuto la testimonianza di una giovane che lavora come sanitario nella stessa struttura e che conosce bene quella realtà. È una vera denuncia di una realtà che a tratti fa orrore.

 

Purtroppo o per fortuna come sanitario riconosco la realtà nel racconto della signora Michela, lo riconosco ogni giorno da quando ho iniziato ad approcciarmi a questo mondo.
Viviamo in una sanità virtuosa che però subisce sempre più tagli, di ogni tipo, non ultima per colpa/grazie alla guerra ed all’aumento delle patologie virali poi le risorse sia materiali che farmaceutiche scarseggiano e non si riesce a far fronte alla richiesta. Siamo spesso costretti a modificare terapie antibiotiche poiché non si ha disponibilità (e non sempre è l’antibiotico ovviamente a cui il paziente risponde), siamo costretti a crearci il dosaggio magari che ci serve, siamo costretti a richiedere mille consulenze per valutare le nuove combinazioni di terapie e la loro possibilità di eventuali interazioni.
La scarsa qualità che si ha, sia di medici che di infermieri, è anche colpa dell’università, che permette a tutti di laurearsi nonostante magari non sia proprio corretto far proseguire alcune persone. Ho avuto compagni di corso, presso una Facoltà prestigiosa come quella di Bologna, che si sono laureati con me nonostante gli esiti negativi delle valutazioni in tirocinio, ma è solo la punta dell’iceberg dell’università.
Altra problematica è il sistema sia pubblico che privato, che permette a chiunque di lavorare anche se lo fa male e causa anche danno ai pazienti (se non la morte) grazie a mille sotterfugi, esempio lampante si ha in ambito chirurgico; se un paziente decede il trentunesimo giorno post intervento allora la morte non è riconducibile all’intervento. Sapete quanti pazienti vengono trascinati a quel fatidico giorno? Sapete purtroppo quanti parenti non sanno la realtà di cosa sia successo perché nei referti vengono omessi dettagli e si sentono dire “era un intervento chirurgico, poteva avere delle complicanze, com’è scritto nel consenso che è stato firmato?” E tu che ci lavori stai in silenzio, sperando che un giorno magari qualche parente capisca ed arrivino i NAS a far domande, perché sai che sono medici e strutture che alle spalle hanno il mondo e se fossi tu a denunciarli non resteresti mai anonima e non potresti più lavorare, ma comunque sia ti porti il peso di quei pazienti e di quei familiari addosso per tanto, perché ti senti complice anche tu di un “omicidio”.
Vi parla un coordinatore, una persona giovane che studia ogni giorno per migliorare e crescere e che comunque lotta quotidianamente con una direzione per avere/creare/migliorare, ma che puntualmente viene fermata per mancanza di risorse umane (infermieri e medici) o materiali, oltre che per la testardaggine delle persone “vecchie” che credono di saper fare il loro lavoro boicottando il cambiamento e l’innovazione perché “si è sempre fatto così”.
Questo purtroppo è solo lo specchio della sanità, oltre ai continui tagli, al continuo aumentare le responsabilità senza giusta tutela e giusto riconoscimento economico (motivo per cui la maggior parte scappa all’estero). Per non parlare del continuo carico di lavoro che viene aumentato per mancanze di risorse umane, doppi turni, riposi saltati ed abuso delle tanto discusse reperibilità: una persona che fa mattina ed ha un turno di reperibilità 20-7 per “urgenze ed emergenze” potrà esser chiamato alle ore 19 perché la sala operatoria sfora come orario e quindi l’elezione prosegue oltre l’orario previsto di fine semplicemente perché l’organizzazione delle sale operatorie viene pensata senza valutare la fattibilità di alcuni interventi da parte di alcuni chirurghi? Magari sono i reperibili che terminata alle 22 la chiusura dell’elezione, alle 2 di notte vengono richiamati per la reale urgenza e lavorano fino alle 7, aspettando il cambio e alle 13 devono ripresentarsi per coprire il turno del pomeriggio.
Noi giovani siamo davvero diversi nelle nostre generazioni, ma non siamo diversi dalle precedenti però, veniamo accusati di non aver voglia di lavorare e di pretendere solo, ma gli esempi che abbiamo quotidianamente…. ci hanno insegnato qualcosa di diverso o sono solo bravi a giudicare senza guardar il proprio orticello?

Si attendeva una ventata di aria nuova, di nuove forze che potessero dare nuovo slancio al territorio, che con competenza si interessassero dell’aspetto politico e culturale della cittadina di Montalto Uffugo

È proprio il direttivo, costituto da giovani professionisti a spiegare in una nota stampa, le motivazioni che hanno spinto il gruppo a costituire questa nuova realtà politico-culturale:

La consapevolezza di voler essere protagonisti e non spettatori delle scelte che riguarderanno il futuro dei cittadini ha spinto un gruppo di giovani di Montalto Uffugo a unirsi nell’associazione politico – culturale denominata “Innoviamo”.
Abbiamo raccolto l’invito che viene da più parti sia a livello nazionale e sia locale di impegnarsi in politica e per il territorio fornendo un punto di vista in più, unanime e innovatore, nel pensiero come nell’azione.
Da tempo condividiamo momenti di confronto sui temi esteri, nazionali, regionali e locali che hanno dato vita a una convinzione sempre più marcata della necessità di occuparci fattivamente di tutti quegli aspetti che influenzano nel bene e nel male la vita dei cittadini, il progresso della società, lo sviluppo di un territorio.
Noi di “Innoviamo” crediamo che le sorti di Montalto Uffugo siano in mano ai cittadini, pertanto, guardiamo con attenzione e interesse alle prossime amministrative per la creazione di una valida alternativa alimentata dal contributo e dall’impegno di coloro che desiderano realmente un cambiamento mediante una nuova visione di città.

L’associazione, che vede presidente Antonio Brogno, vicepresidente Maria Esposito, segretario Federica Giannuzzi nonché l’assemblea dei soci quale organo collegiale, conta già tantissime adesioni e sostenitori.

Così prosegue la nota:

Siamo fiduciosi di poter interloquire con tutti coloro che hanno a cuore la nostra comunità, attraverso argomentazioni programmatiche sui temi più sentiti e di maggiore interesse.

Nei prossimi giorni l’associazione si presenterà al territorio con un incontro pubblico.

“Innoviamo” sarà protagonista assoluta delle sorti della nostra città

– conclude la nota.

Quando sentiamo parlare di malasanità pensiamo sempre agli ospedali del Sud, Sicilia compresa.
Ed invece il racconto di vita vera di Michela e del suo papà, il racconto della disavventura patita all’ospedale Sant’Orsola di Bologna dal 19 dicembre scorso e che dura ancora oggi, è significativa di come manchino tante, troppe cose nella sanità da nord a sud, e in primis, manca l’empatia, la voglia di essere utile al prossimo, manca l’umanità, manca il senso del dovere che dovrebbe spingere a fare il lavoro del medico, dell’infermiere, dell’Oss, dell’inserviente.
Di seguito il racconto che ho raccolto, l’ennesima denuncia, perché è giusto che si sappia cosa accade negli ospedali, spesso osannati per buona sanità, ma che devi provare assolutamente a scansare se …
Come primo punto fondamentale, al di là del motivo e indipendentemente dalla gravità di ciò che ti ha portato in ospedale, la prima cosa che ti devi augurare è che sia un giorno feriale. Perché un paziente nei giorni di domenica e festivi, smette di essere paziente, oppure detto meglio, deve esserlo ma nel vero senso del termine e incrociare le dita sperando di poter arrivare presto e velocemente al primo giorno feriale successivo. Sembra paradossale, ma purtroppo è così. Se poi ti dovesse capitare, come nel caso di mio padre, di accedere pochi giorni prima di Natale … allora beh… la cosa si complica e di parecchio.
Non parliamo nemmeno dell’eventualità che tu sia un paziente “fragile”, del tipo che magari coltivi da anni alcune patologie, li il rischio di non cavarci la pelle diventa esponenziale.
Da qui la mia triste e surreale storia, o meglio, quella di mio padre da 20 giorni ricoverato in ospedale vittima inconsapevole di una malasanità imbarazzante.
Tutto ha inizio domenica 19 dicembre, quando nel prepararlo per la notte, scopro il pannolone completamente asciutto. Campanello d’allarme.
Voi mi direte: beh per così poco?
Dovete sapere che mio padre (83 anni) non è un paziente che potremmo definire “fragile”, ma fragile al cubo: affetto da una malattia degenerativa da oramai una decina d’anni (in tutto questo tempo non sono riusciti a fare una diagnosi precisa), allettato, incapace di intendere, di parlare e di muoversi, portatore di peg (alimentazione tramite sondino gastrico… “regalo” di un precedente ricovero…). Praticamente l’emblema della fragilità. A parte questo quadro clinico molto impegnativo, per tutto il resto gode di una ottima salute: esami sempre perfetti tanto che mia mamma (di un anno più giovane) è spesso risentita perché a un controllo incrociato, i suoi esami sono peggio.
Torniamo a noi.
Campanello d’allarme.
È domenica sera, quindi si chiama la guardia medica. La guardia medica, consiglia di andare subito al pronto soccorso. Eccallà la parola magica: pronto soccorso. Mi di rizzano tutti i peli solo al sentirla pronunciare: pronto soccorso. Purtroppo viste le precedenti esperienze cerco di capire se non c’è altra possibilità, magari che la guardia medica venga prima a visitarlo a casa magari anche a pagamento. No assolutamente no. La cortesia che ci muove è quella di chiamarci l’ambulanza. Grazie.
Dalle 21.30 che mettiamo giù il telefono, alle 01.00 siamo in pronto soccorso.
Mio padre entra direttamente con l’ambulanza e io entro in sala di aspetto.
Spero in cuor mio che gli abbiamo dato almeno un codice arancione che leggo sul monitor essercene solo 5 in attesa, perché di verdi ce ne sono ben 18… azzurri e bianchi non li considero nemmeno.
Dopo due ore mi convocano e il medico di turno mi spiega la gravità della situazione: setticemia.
Lo trovo in un gabbiotto, sulla barella con la maschera di ossigeno e una flebo attaccata. E così rimane per ben due giorni perché “ci dispiace ma non abbiamo posto per ricoverarlo”. Evito di descrivere la situazione di quei due giorni passati li.
E intanto io veglio e prego accanto a lui senza abbandonarlo un solo attimo.
Finalmente dopo due giorni ci trovano un posto: medicina interna.
Il primo “regalo” appena lo visitano in reparto è scoprire una piaga di 4o grado sul sacrale e una nella coscia destra: in confronto alla setticemia, le piaghe sono trascurabili…
E così passano i giorni, io e mia mamma e la badante a darci il cambio perché mio padre ha bisogno di una assistenza “h24” e non posso fare tutto da sola.
La terapia sembra funzionare, i valori dell’infezione migliorano costantemente, i polmoni sono a posto, i reni pure, il cuore è un portento anche se i medici dicono e ripetono che con pazienti così fragili non si può mai dire di essere fuori pericolo. E va bene, oramai è prassi che mi senta dire che mio padre è un paziente sul chivalà.
E poi il primo dell’anno arriva la bella notizia: finiscono la terapia antibiotica il 5 e il 6 gennaio lo dimettono. Deo Gratias.
Tutto sembra procedere per il meglio… quando in camera (in dieci giorni si erano avvicendati diversi degenti) vengono portate due pazienti entrambe affette da polmonite: mio padre paziente “fragile” nella stessa stanza con due affette da polmonite… da li la tragedia. Dopo pochi giorni (il 4 per l’esattezza) una delle due (quella che strangosciava interrottamente maledicendo il Signore per avergli inferto un simile supplizio, ovviamente tutto questo senza aver indossato per un solo minuto la mascherina) viene trovata positiva al covid.
Lei viene immediatamente spostata e agli altri viene fatto un tampone di controllo: tutti negativi. La camera diventa immediatamente area covid quindi per entrare bisogna bardarsi come palombari… e va bene
Quello che non va bene è che la sera stessa mio padre ha un picco di febbre fino a 39.4.
I medici evidentemente non pensano al covid ma a una nuova possibile infezione alle vie urinarie (vai a capire il perché…) e gli fanno sostituire il catetere prelevando nel mentre un campione biologico per fare nuovi accertamenti. In reparto però non hanno un catetere della sua misura e ne mettono uno più grande. Risultato? Una notte passata a fare lavaggi alla vescica con siringhe piene di sangue e coaguli. E il giorno dopo arriva l’altra batosta: tampone positivo.
E così a due giorni dalla dimissioni veniamo trasferiti al reparto covid con l’aggiunta dell’incognita sangue nelle urine.
Mia madre intanto a casa si fa un tampone di controllo e risulta positiva, la badante pure.
Lo faccio anche io: negativo. Fantastico
Sono una highlander ce la farò.
E così adesso sono qui seduta in una camera del reparto covid tutta bardata come una mummia: doppia mascherina, tutta anti traspirante, visiera e doppi guanti, sudata, senza poter bere, né mangiare, né fare pipì, dopo aver avuto l’ennesima discussione con il medico di turno (oggi è domenica… e il medico di reparto non c’è..) per rivendicare non chissà cosa solo il minimo di assistenza sindacale, circondata dalla supponenza e costretta a supervisionare il mio povero padre colpevole solo di aver avuto bisogno di ricevere delle cure. Tutto qui.
Non so quando usciremo, se usciremo e se sì in che condizioni usciremo, ma vi assicuro che quello che è capitato a mio padre purtroppo non è assolutamente un evento straordinario ma potrebbe capitare anche a vostro padre o madre o fratello o sorella o amico o amica, perché se come me che non fai parte del sistema e che stai in ospedale dalle 15/20 ore consecutive e non solo per quei 45 minuti giornalieri concessi a chi non ha parenti “fragili”, ti rendi conto purtroppo di tante cose dalle più piccole e banali alle più grandi.
Tipo?
Beh tipo che se hai bisogno e suoni il campanello, prima che qualcuno ti dia udienza possono trascorrere anche 10 minuti: in effetti se sei un paziente, qualcosa vorrà pur dire.
Tipo che devi imparare alla svelta a distinguere chi sono i medici, gli specializzandi, la caposala, gli infermieri, chi gli Oss, chi i semplici inservienti (ovviamente su tutti i turni) perché ognuno ha le sue competenze e guai a chiedere alla persona sbagliata.
Tipo appunto che se ti capita di chiedere a un infermiere se può posturare tuo padre, ti guarda offeso e va via a culo dritto sbuffando “ora passano i colleghi” e li ai 10 minuti se ne aggiungono altri 10 e più.
Tipo che mezz’ora prima e mezz’ora dopo il cambio turno (ce ne sono ben 4 nell’arco della giornata) puoi spingere il bottone, essere in agonia, metterti a urlare, ti devi mettere il cuore in pace perché tanto non arriverà nessuno.
Tipo che se tu hai i diverticoli (non parlo di mio padre eh, lui è quello sano come un pesce!) e il medico di fa una dieta a base di pasta al pomodoro e mela che lo sanno anche le galline che con i diverticoli è veleno e tu ti sfoghi con l’inserviente che ti ha portato il pasto e lui allarga le braccia “non posso farci nulla, l’hanno detto i medici” e così pure quella che avendo problemi di masticazione non c’è stato verso di farsi dare una minestrina in brodo (si proprio quella, la classica minestrina insapore e inodore neppure se ci aggiungi tre etti di grana grattugiato dentro): no pure a lei è toccata la pasta al pomodoro…
Tipo che se ti sporchi e il turno degli inservienti nella tua camera è già passato, aspetti il turno dopo…
Tipo che se ti tengono tuo padre due giorni con la flebo pensi che debba rimanere a digiuno e invece scopri che la sua nutrizione è stata ordinata ma non arriva e me lo tieni a flebo senza dirmi nulla, dai lo capisci anche tu che non stai lavorando bene. Lo chiedi e te la porto io da casa eh.
Tipo che ora mi viene in mente anche la mia surreale vicenda di 4 anni fa (chi mi conosce sa tutto) e tutto torna senza soluzione di continuità.
Tipo…
Tipo che la lista sarebbe ancora lunga ma sono talmente stanca e provata che la finisco qui.
E siamo in una città virtuosa di una regione virtuosa…
Statemi bene, mi raccomando.