
Photo Fabio Orlando
Parigi – A prima vista sembra un ragazzo come tanti … capello lungo, barba incolta. Poi lo senti suonare e ti accorgi di essere al cospetto di un vero e proprio fuoriclasse, una sorta di “orizzonte sonoro” dal quale fai fatica ad allontanarti. Look sopra le righe, suona il pianoforte con gli occhiali da sole, forse per nascondere quella timidezza che abbandona solo quando entra in intimità con il suo pianoforte. Musicista schivo, poche parole ma tutte messe “al posto giusto”, come fa meravigliosamente, con le note che suona, che anche se “improvvisate” in pieno senso jazzistico, non sono mai a caso.
Ho intervistato Dino Rubino, siciliano, di Biancavilla (CT) enfant prodige, oggi uno dei più apprezzati pianisti jazz tra i talenti italiani, ma anche eclettico trombettista, dotato di una spiccata personalità musicale oltre che di buon gusto, versatilità, capacità interpretativa, tocco tecnico, ma al contempo evocativo.
Un mondo, quello di Dino Rubino, che andrebbe attraversato “ascoltando” la sua musica, ma anche conosciuto un po’ più da vicino.

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D: Sei nato nel 1980, oggi hai 35 anni, e mentre ti “trasformavi” in un prodigio, non eri certo catapultato nel vortice della tecnologia “a tutti i costi”. Cosa sarebbe diventato Dino Rubino, se fosse stato adolescente nell’era digitale?
R: Qualche anno fa lessi un’articolo di Paolo Fresu nel quale, parlando di me, mi descriva come una “persona d’altri tempi”.
Solo col tempo capii quanto questa visione fosse esatta.
Se fossi nato nell’era digitale penso mi sarei sentito ancora più “disadattato”.
D: Mi piacerebbe sapere – se lo ricordi – quando è nato in te il desiderio di essere un jazzista, che in realtà non è un normale musicista, ma un mix tra genialità, capacità interpretative, voglia di sperimentare.
R: Ricordo bene quel momento; ero a casa seduto al piano e stavo suonando “Georgia on my mind” scoprendo per la prima volta l’improvvisazione”. Provai una sensazione difficile da spiegare, come una fiamma interiore che accendeva tutto il mio corpo.
Avevo poco più di 5 anni.
D: Quanto servono gli spartiti, per diventare un buon musicista? Perché spesso ho sentito dire “basta il talento”.
R: Personalmente ho studiato musica classica, dunque ho studiato sugli spartiti anche se in fondo penso che la musica non abbia nulla a che vedere con quest’ultimi.
Per contro il talento è fondamentale.
D: Tu sei senza dubbio un “fuoriclasse”. Vorrei che fossi tu a spiegare qual è la differenza tra un musicista bravo ed un fuoriclasse.
R: In realtà sono molto critico con me stesso, ma grazie per le tue parole. Utilizzando una metafora, penso che ci sia la stessa differenza tra fare sesso e fare l’amore. Il fuoriclasse fa l’amore con la musica o con l’arte in generale coinvolgendo corpo, cuore, anima e mente.
D: Il piano, la tromba, poi ancora il piano. Mi interessa sapere quel “passaggio”. Tentativo o necessità espressiva?
R: Necessità espressiva. Per una serie di circostanze, non ho mai avuto un buon rapporto con la tromba e dunque non riuscivo a esprimere molte cose che avevo dentro; così un giorno, grazie al consiglio di un amico, decisi di incominciare lo studio del pianoforte e pian piano me ne innamorai.
Oggi cerco di suonare entrambi gli strumenti, a volte mi riesce a volte meno.
D: Quanto conta il carattere di un musicista, nel suo modo di fare musica?
R: Un musicista suona quello che è. Nella musica non si può mentire, o quanto meno se una persona è sincera con se stessa, comprenderà l’autenticità di quello che ha suonato.
D: Il jazz è un mondo strano. In Italia lo è ancor di più, al sud Italia è roba per appassionati. Un concerto jazz, costa quasi sempre un terzo di un concerto pop, i musicisti jazz prendono cachet diversissimi dai musicisti pop. Scegliere di essere un jazzista passa anche attraverso quel meccanismo che prevede che a suonare sui palchi di tutto il mondo siano “sempre gli stessi”, o quelli con alle spalle manager che sono “squali” più che estimatori. Com’è il “tuo mondo”, la tua strada, la tua carriera? COME ti sei incamminato, DOVE sei arrivato, DOVE VUOI ANDARE e soprattutto COSA TI INVENTERAI per arrivarci.
R: Sin da piccolo sono stato sempre molto fatalista. Quello che cerco di fare è di essere pronto, di studiare, di scrivere musica, di registrare dischi, di cercare i musicisti con cui scatta una sintonia musicale.
Nel mondo della musica non esistono garanzie, non ci sono strade da seguire o strategie da mettere in campo; dunque, per buona parte, bisogna affidarsi al vento.
D: Di te i grandi (intendo per esperienza ed età) del mondo jazzistico dicono “senza ombra di dubbio” che tu sei un fuoriclasse. Ecco, questo tuo essere un fuoriclasse, si nutre anche dell’esperienza che nasce dalle situazioni musicali che si mettono in piedi, oppure è una radice profonda che al massimo può prendere linfa solo da una continua ispirazione personale?
R: Credo che siano entrambe; alcune collaborazioni mi hanno molto arricchito, facendomi scoprire quale fosse il mio respiro interiore, la melodia che si trovava già dentro di me; penso a Paolo Fresu, ad Aldo Romano, a Gianni Basso.
Tutto ciò però, deve camminare di pari passo con una consapevolezza delle proprie radici altrimenti il rischio è di lasciarsi influenzare da musicisti lontani dalla propria essenza, e questo risulterebbe molto dannoso.
Le influenze bisogna saperle sceglierle, come una donna o come un paio di scarpe comode.
D: Come si scelgono i propri compagni di viaggio? Per affinità o per curiosità?
R: Si possono scegliere anche per curiosità ma è l’affinità ciò che alla fine unisce.
D: Di cosa è “appassionato” Dino Rubino? Ascolta il jazz in macchina? A chi si è ispirato, nel corso degli anni? C’è un concerto che dal vivo ancora ti manca, e che vorresti vedere?
R: Ultimamente mi capita raramente di ascoltare jazz in macchina. Diciamo che ascolto e mi appassiono, a tutto ciò che riesce a darmi delle immagini, delle emozioni.
Le influenze sono state tantissime, da musicisti a scrittori, da poeti a registi, da pittori a gente dello sport, come Ayrton Senna ad esempio.
Mi piacerebbe moltissimo vedere un concerto di Sixto Rodriguez e spero di poterlo fare prossimamente.
D: Quanto critico è un jazzista, nei confronti della musica in generale e del jazz suonato dagli altri, nello specifico?
R: Sono critico con gli altri quanto lo sono con me stesso; se qualcosa non mi piace non l’ascolto; così come se qualche pietanza non mi piace non la mangio.

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D: Volevo fare a meno di citare i numeri, però mi sembra quasi impossibile non dire che hai vinto decine di concorsi musicali, hai partecipato a decine e decine di festival jazz in tutto il mondo e che le formazioni nelle quali hai suonato, sono state tante, e tutte riuscitissime. Si pensi all’ultima “On air Trio” con Dalla Porta e Zirilli. Però sul tuo biglietto da visita ( se ne hai uno) cosa c’è scritto, considerato che tutto un curriculum, dentro, non ci sta?
R: Premesso che non ho un bigliettino da visita, ma se mai dovessi farlo potrei scrivere “Placido Arcobaleno”.
D: Se un giorno qualcuno ti dicesse che per salvare il mondo dovresti suonare un solo pezzo, cosa suoneresti e con che strumento. In piedi con la tromba in mano, o seduto al pianoforte?
R: Suonerei quello che mi viene al momento, così come faccio nei concerti live; suonerei seduto al piano con il flicorno poggiato sul leggio e magari alla fine soffierei due note, sempre rigorosamente seduto!
D: Oggi vivi a Parigi. Se ti seguissi, un giorno di questi, che musicista vedrei? Che abitudini ha Dino Rubino?
R: Mi piace leggere, scrivere, camminare, guardare film, guardarmi intorno, osservare le persone, ascoltare chi ha qualcosa da dire, ascoltare chi non ha niente da dire (per molto meno tempo), guardare dal finestrino quando sono in viaggio; e poi mi piace la natura, molto.
Mia nonna diceva che fin quando abbiamo voglia di guardare il cielo vuol dire che in fondo va tutto bene.
D: E poi scende la sera e immagino Dino Rubino scalzo, che da solo, è seduto al pianoforte. Se questa scena i nostri lettori potessero vederla, se vi potessero assistere, cosa ascolterebbero?
R: Ascolterebbero quello che ascoltano nei concerti live; l’approccio è lo stesso anche se nei concerti live c’è uno scambio di energia col pubblico che non può esserci quando suoni nella tua stanza.
Una differenza è che a casa di tanto in tanto mi capita di cantare e accompagnarmi al piano.
Forse prima o poi capiterà anche nei live.
D: Il cassetto dei sogni di uno come te lo immagino sempre “accostato” pronto ad essere spalancato alla prima occasione utile. Lì dentro, sopra sopra, cosa c’è?
R: Tanti sogni, sparsi qui e lì nel cassetto.
Mi piacerebbe essere un buon seminatore di grano.
Simona Stammelluti
Un ringraziamento a Fabio Orlando, per le foto concesse
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