
Professor Marco Mazzeo - Photo Sicilia24h -
Docente di filosofia del linguaggio talentuoso e motivato, dotato di una sorprendente carica comunicativa, simpatico – ma non troppo – Marco Mazzeo, romano, classe 1973, rappresenta una delle eccellenze nell’Ateneo di Arcavacata di Rende. L’Unical (Università della Calabria) ha bisogno di insegnanti come lui, mossi non solo da una capacità oggettiva, ma anche da una spiccata dedizione che in tanti chiamano “missione”.
Ho avuto il piacere di intervistarlo nel suo ufficio al settimo piano (raggiunto rigorosamente a piedi) in un’ora apparentemente tranquilla per entrambi. Mentre gli parlo non mi sfugge un particolare: sulla parete alle sue spalle svetta una foto, che non è una foto di famiglia, ma di un filosofo austriaco di cui non svelo il nome, perché il Professor Mazzeo ha piacere di parlare di lui, proprio durante l’intervista.
D: Professor Mazzeo, lei è un giovane docente universitario, tra l’altro pendolare, che ha fatto questa scelta mettendo sul piatto della bilancia le rinunce che evidentemente si attuano quando si lavora fuori dalla propria regione, con quello che è il peso dell’insegnamento e del proprio ruolo all’interno di un ateneo. Mi racconta quando ha deciso di fare l’insegnante e quanto le è pesato dover rinunciare ad alcune cose per assolvere a questo compito.
R: Ho deciso di studiare filosofia del linguaggio il primo giorno che sono entrato all’università di Roma. Era un giorno di novembre del 1991, entrai in una classe nella quale si parlava di linguaggio, cosa che mi aveva sempre interessato perché già da adolescente era quello il mio punto forte, ed incontrai un professore molto bravo che si chiama Massimo Prampolini – che poi sarebbe diventato il mio professore di tesi – e che incominciò a parlare di un filosofo che si chiamava Wittengstein e mentre parlava disse questa frase: “le scimmie non zappano perché non parlano”. Questa frase mi rimase in testa tutto il giorno e ritornai a casa convinto di dover studiare quell’ autore. Da quel punto in poi la filosofia del linguaggio non mi ha più abbandonato. Poi dopo la laurea ho incominciato a cercare una borsa di dottorato, intraprendendo un vero e proprio viaggio tra le università sparse per l’Italia, e per tre anni ho girato tutti gli atenei. Quello più a sud è stato Palermo, quello più a nord Vercelli. Poi sono approdato all’università della Calabria, e ho incominciato a scoprire un mondo fatto di persone che io avevo già conosciuto in altri luoghi, come Daniele Gambarara, conosciuto all’Università di Roma, Paolo Virno, Felice Cimatti, di cui ero stato allievo. Erano tutti qui, senza che io lo sapessi. Quando feci la prova scritta pensai che sarebbe stato bello restare all’Unical. Questo perché qui in realtà c’è un gruppo con il quale si lavora. Non è dunque solo insegnamento, ma anche ricerca d’insieme. Ho vinto quel dottorato ed ho così cominciato questo percorso. E’ stata la Calabria a scegliermi, ed è stato giusto così, malgrado le problematiche oggettive di chi come me viaggia. La mia vita va un po’ a fasi; C’è una fase nella quale non esco di casa e studio, e poi quella nella quale riporto a persone, in questo caso i miei studenti, tutto quello a cui ho lavora nell’altra parte della mia stagione. Questa cosa è molto bella e ancora oggi in qualche modo funziona.
D: Poco fa ha raccontato di aver seguito una lezione, di essersi appassionato a quella materia e di non essersi più separato da essa. Oggi i suoi studenti, che sono sicuramente diversi da quello che siamo stati noi un ventennio fa, conservano secondo lei del talento e delle passioni, sanno dove andare, o sono un po’ “parcheggiati” senza sapere davvero che orizzonte guardare?
R: Bella domanda. La situazione è diversa non tanto in termini di passione, quanto per alcuni aspetti di fondo. La prima cosa sostanziale è capire da dove questi ragazzi vengano. Vengono da una scuola che è stata profondamente danneggiata in questi vent’anni e questo è particolarmente evidente. Io ogni anno, in inizio di corso, faccio ai miei studenti un test chiedendo loro il significato della parola “scorribanda”, che non è certo una parola particolarmente aulica, e quest’anno su 100 persone, una sola ha alzato la mano e mi ha dato la risposta giusta. Questo significa che in 5 anni, 500 persone non hanno saputo rispondere a questa domanda, il che significa che la loro dimestichezza con l’italiano si è sensibilmente ridotta, rispetto a quella che potevamo avere noi vent’anni fa. Questo è un vero problema perché dimostra come aver tolto risorse alla scuola pubblica, sta dando degli effetti, che però non possono certo essere definiti positivi. La cosa interessante è che l’Università della Calabria è ancora oggi una vera università di frontiera, ed il fatto che presso la nostra università vengano le persone più diverse, magari meno portate per lo studio teorico per quello che riguarda le proprie esperienze e gli studi passati, la considero una grande sfida, un grande segno di vitalità. Questo significa che in Calabria l’università resta un significativo punto di riferimento, e se chi è disorientato viene qui in cerca di risposte, beh, questo rappresenta un aspetto positivo. Certo…il disorientamento dei ragazzi oggi è evidente ma non solo in riferimento agli studi universitari ma anche al loro futuro, al tipo di lavoro che dovranno fare. La trasformazione del mondo del lavoro in questi ultimi vent’anni pesa sulle loro spalle in termini di incertezza e di confusione. Noi insegniamo scienze della comunicazione che nel bene o nel male, sono un punto di convergenza delle aspirazioni, ma anche dei timori della società dello spettacolo che purtroppo viviamo.
D: Paolo Gallo, responsabile delle risorse umane del Word Economic Forum ha dichiarato in una intervista che per riuscire nel lavoro, bisognerebbe seguire più il proprio talento che le passioni, perché a suo dire, le passioni sono soggettive, il talento, invece, un fattore assolutamente oggettivo. Professore come si fa secondo lei a capire se qualcuno possiede un talento? Dei suoi 150 alunni di quest’anno, quanti riusciranno a capire se sono mossi da un talento e stanno andando per la strada giusta?
Io sinceramente non credo a questa distinzione, in nessuna delle sue articolazioni. Dire che il talento sia oggettivo, mi sembra un modo carino per dire “vieni da noi e sapremo come utilizzarti”, che suona un po’ come “vieni da noi che sapremo come sfruttarti”. Mi sembra un’affermazione di parte, che non è certo la nostra. Spesso talento e passioni si incastrano tra di loro. A volte invece, si può fare qualcosa nella vita per la quale si è portati, ma che può non creare una passione e dunque si è costretti a vivere una vita florida ma infernale, sotto alcuni aspetti. Il problema a mio avviso è proprio l’orientamento. Ci troviamo in un momento delicato, per cui ai bambini piccoli, tra 0 e 10 anni, chiediamo di essere velocemente degli adulti, e di avere il talento di fare tanti sport, andare a scuola, fare i compiti, pensare alla vita sociale, avere un carnet degli appuntamenti. Nello stesso tempo chiediamo agli adulti di essere ancora come dei bambini, e quindi avere una vita indeterminata, che non deve avere mai un obiettivo troppo preciso perché tanto ci sarà chi stabilirà per cosa hai talento, come per esempio un responsabile delle risorse umane. Questo strano processo, diventa un problema per chi dovrebbe poter trovare la sua passione, individuare il suo talento, vivere in un modo significativo. Bisogna scardinare l’idea che da soli si possa capire quale sia la propria passione, o che qualcuno possa dirci “questo è il tuo talento”, perché nessuno dei due è un modo sincero per trovare la propria strada.

D: Professor Mazzeo, penso di poter affermare che lei sia una persona estremamente colta, a prescindere dalle sue competenze e dalla sua spiccata capacità di espletare il ruolo di insegnante. A mio avviso la cultura non è solo un insieme di nozioni ma anche la consapevolezza di quello che si può fare con quelle nozioni, il peso che la cultura può avere in quello che siamo e in quello che possiamo realizzare. Si è mai soffermato su questo aspetto?
R: La ringrazio per la stima che è sempre preziosa. Guardi, vengo da un quartiere di Roma che quasi nessuno conosce, che non è un quartiere stereotipato e si chiama Monte Spaccato e che rappresenta una delle periferie urbane peggiori che esistano. Ho pertanto questa estrazione, però la cosa positiva è che ho ben presente i conflitti del mondo reale perché li ho vissuti sulla mia pelle e so perfettamente quello che lei diceva poc’anzi, e cioè che conoscere delle cose non significa avere delle nozioni. Quello che cerco di fare in questa università va proprio in questa direzione, anche se per come è organizzato il mondo universitario non siamo aiutati in questo compito, non siamo agevolati nell’aiutare gli studenti a sviluppare le proprie capacità. Impartiamo delle nozioni o diamo loro delle tecniche affinché trovino un eventuale lavoro, ma in realtà dovremmo trasformarli in professionisti, anche se non si sa precisamente di cosa e quindi ci troviamo chiusi in questi tipo di contraddizione. Sviluppare il pensiero critico dovrebbe essere a mio avviso la prima mossa in un processo pedagogico in genere, perché è un modo per mettere in discussione se stessi, quello che si ha intorno, ed è quindi un requisito per costruire la propria strada, qualunque essa sia.
D: Quindi l’università può essere considerata una porta stretta dalla quale far passare la cultura, affinché poi diventi frutto sociale?
R: La porta ancora più stretta per far passare la cultura è proprio il pensiero critico, ossia la capacità di mettere in discussione alcune realtà, quello che si ha intorno, i luoghi comuni, anche alcuni propri pensieri, i propri stereotipi; ed ognuno di noi ne ha a sufficienza. Mettere in discussione non significa lamentarsi, ma portare argomenti, analizzare, discutere, scrivere, leggere, ragionare insieme, dibattere in modo fruttuoso. Questa cosa è particolarmente difficile, perché se ad oggi uno studente medio conosce poco la propria lingua madre, sarà un problema sviluppare una sensibilità verso le parole. E poi c’è questa forte tendenza a pensare che noi si debba essere dei formatori capaci di indirizzare gli studenti e prepararli al mondo del lavoro, che a volte significa formare le persone per essere sfruttate il prima possibile.
D: Leggo testualmente un passaggio preso da uno dei suoi libri, “Il bambino e l’operaio”, che mi ha particolarmente colpito: “In alcune circostanze mi è stato concesso il lusso di dimostrarmi caparbio, in altre, ho goduto del piacere di poter cambiare idea repentinamente, senza l’ostacolo di sguardi giudicanti”. Sono sorte in me due riflessioni e quindi due domande che vorrei porle. Quando secondo lei non si può assolutamente cambiare idea, quando bisogna difenderla una determinata idea fino alla fine? Questa pratica attuale di andare dove vanno tutti, di non prendere mai una posizione netta, decisa, questa nuova logica di non essere mai la voce fuori dal coro, è secondo lei condizionata dalla possibilità di essere sottoposti poi a sguardo giudicante?
R: Penso che un essere umano non debba mai scendere dalle proprie posizioni davanti ad una ingiustizia. Bisogna lottare e chiedere sempre che giustizia venga fatta. La citazione che lei fa – e che mi fa piacere venga citata – nasce da una esperienza a cui tengo molto, fatta fuori dallo schema universitario ma dentro l’università; Un seminario lungo, durato diverse settimane, molto impegnativo. Eravamo io ed il Professor Paolo Virno, preparavamo delle lezioni e poi spiegavamo agli studenti alcuni argomenti. Tutto questo mentre Paolo Virno mi poneva delle domande critiche. Io prendevo appunti prima della lezione, poi prendevo appunti delle domande che mi poneva, e poi prendevo ancora appunti delle mie stesse risposte. Così è nato questo libro. Risposte mie, ma anche risposte della situazione, risposte di me che dialogavo con Paolo Virno e con gli studenti. La mia unica abilità è stata quella di capire che dovevo prendere nota di quello che stava succedendo, considerato che sentivo la fatica per quello che stavamo realizzando, come ricercatori. Abbiamo dimostrato anche come potrebbe essere l’università del futuro. Ci sono gli studenti, più persone, si lavora seriamente, si producono delle nuove idee e in questa dimensione pubblica e collettiva, si supera questo problema della frammentazione.
D: Professore se le dessero un’ora in più oltre alle 63 già a sua disposizione, cosa insegnerebbe ai suoi alunni oltre alla filosofia del linguaggio?
R: Mi piacerebbe insegnare loro l’arrampicata sportiva. Mi piacerebbe portarli su delle pareti d’arrampicata e fare con loro un lavoro così come si faceva nel ginnasio nell’antica Grecia quando si univa al lavoro filosofico quello pratico-ginnico. Mi piacerebbe pertanto sfidare insieme ai miei studenti, la forza di gravità. Questa sarebbe una cosa bella, perché si lavorerebbe sulla sfida contro ciò che ci circonda.
D: Il 2 novembre del 1975 moriva Pier Paolo Pasolini. Mi regala una riflessione su quello che poi è stato definito l’ultimo intellettuale del ventesimo secolo?
R: Ho un ricordo di come reagirono i miei genitori alla morte di Pasolini. Ricordo questa foto ritagliata da un giornale, appesa con dello scotch ad una mattonella della cucina e mi ricordo il dolore dei miei genitori, come se avessero perso un loro amico, come se in casa mia fosse scomparso un interlocutore con il quale non sempre si può essere d’accordo, ma la cui scomparsa segnò molto … come se fosse andata via una persona di casa. Per me è una figura strana, ma che però ha sempre fatto parte del mio alveo familiare e quindi ogni volta che ci penso, recupero il ricordo come di una persona che aveva in qualche modo frequentato casa mia.
D: Professor Mazzeo, lei è un docente particolarmente motivato nel suo ruolo di insegnante. Ma se qualcuno un giorno le dicesse “può cambiare mestiere, chieda e sarà accontentato”, lei cosa risponderebbe?
R: Farei sempre quello che faccio, magari facendo qualche chilometro in meno. Mi piacerebbe continuare a fare bene ciò che già faccio. Sono motivato perché credo di avere una percentuale di incidenza e perché in questa università incontro tantissime persone, alcune molto strane, ma l’aggettivo strano che ha connotazione di generico, lo suo perché ci sono persone che mi mettono realmente in difficoltà. Ogni anno comincio a fare lezione però non so cosa mi accadrà, con chi dovrò scontrarmi e questa sfida mi motiva molto. E’ una sfida didattica che consiste nel portare dei contenuti filosofici il meno possibile semplificati, a persone che oggettivamente pur avendo corpi da ventenni, hanno conoscenze linguistiche o di nozioni, pari sostanzialmente alla terza media. Questa è una sfida pazzesca, e proprio perché sembra una sfida impossibile, che io l’affronto ogni giorno.
D: Professore, questa intervista la leggeranno in tanti. Se lei volesse invitare qualcuno ad informarsi su chi sia Wittengstein? Solo lei può riuscirci.
R: Beh, inviterei a vedere l’unico film su Wittgenstein, di Derek Jarman, che è un film realizzato da un regista che non è certo un filosofo ma che mostra una grande sensibilità teorica e che è stato capace di raccontare tantissime cose penetranti su quel filosofo. E’ un film molto interessato al personaggio, che ha fatto molto più di quanto abbiano fatto tanti scrittori accademici su questo pensatore, che magari hanno scritto di lui, ma non sono interessati a quello che lui dice. Jarman invece era interessato, e vedere il film è sicuramente meno impegnativo che leggere gli scritti di Wittengstein, ma dà un buon quadro della filosofia e dei limiti di questo pensatore.
D: Si dice che lei bocci uno studente su due. E’ vero? I suoi studenti devono quindi votarsi a Wittengstein per superare l’esame?
R: Sorride. Sì, sono tremendo, ma fa parte del gioco e per questo mi piace stare al primo anno, perché posso così creare dei presupposti chiari, circa quello che si chiede al lavoro che facciamo con gli studenti in classe, senza sconti nell’esame. Se sono chiamato a organizzare questa prova di realtà, cerco di fare un po’ di attrito.
D: Professore, lei ha un figlio di sei anni. Che consiglio gli darà quando raggiungerà la stessa età che hanno oggi i suoi alunni?
R: Gli dirò di fare una scelta di studio, se vorrà studiare, lavorativa, se vorrà lavorare, artistica, se vorrà fare l’artista, ma tendenzialmente di fare una scelta che lo indirizzi verso una via che in quel preciso momento gli sembri significativa, al di là delle speranze professionali o del futuro lavorativo che in quel preciso momento sembrerà dischiudersi. Non quindi la scelta più facile o la più remunerativa, ma solo la scelta per la quale lui si senta realizzato anche solo per il fatto che quella cosa la possa fare di lì a poco. Questa mi sembra – per quella che è la mia esperienza – una giusta garanzia. Se uno fa un’attività per la quale vede un significato a prescindere, quella è una sorta di cassaforte che nessuno potrà mai scassinare.
Simona Stammelluti