Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 77 di 94
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L’Unità Urologica Mobile ha fatto tappa a Cosenza dove, nella sola mattinata di sabato 26 novembre, ha eseguito circa 42 visite

Cosenza – L’iniziativa rientra nel programma di sensibilizzazione del pubblico maschile sulla prevenzione del tumore alla prostata realizzato dalla Fondazione PRO – Prevenzione e ricerca in oncologia, presieduta dal suo fondatore prof. Vincenzo Mirone, ordinario di urologia presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli.

Successivamente l’Unità mobile sarà presente a Bari, Salerno, Avellino e Reggio Calabria.

L’iniziativa è stata presentata nel corso di un incontro con la stampa e le autorità locali al quale hanno preso parte il prefetto di Cosenza Gianfranco Tomao, il direttore del carcere Filiberto Benevento, il dottor Francesco Ventura Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Urologia dell’Ospedale dell’Annunziata, Massimo Bozzo delegato alla sanità di Palazzo dei Bruzi, Gianantonio Tomaselli della Omega Pharma, azienda farmaceutica che collabora all’iniziativa, l’on. Salvatore Magarò.

La prima tappa in Calabria dell’Unità Urologica mobile ha destato molta curiosità tra i cittadini di Cosenza che, oltre ad essersi sottoposti ad un primo screening hanno anche ricevuto materiale informativo sul cancro alla prostata, uno dei principali tumori che colpisce la popolazione maschile. Allarmanti i dati resi noti dal prof . Mirone durante la conferenza stampa: tra la popolazione maschile che ha superato i cinquant’anni, una persona su sette in Italia si ammala di cancro della prostata che causa 11.000 decessi l’anno. La prevenzione è pertanto un’arma efficace poiché sono stati raggiunti risultati eccellenti sia nella cura che negli interventi stessi oggi affrontati con molti meno rischi anche per l’utilizzo della robotica in ambito chirurgico.

L’incontro con le autorità locali ha dato ulteriori spunti di riflessione sull’argomento ed ha aperto una discussione sulla possibilità di pensare, in una prospettiva futura, ad un accordo di programma tra la Fondazione Pro e l’amministrazione penitenziaria di Cosenza per dare la possibilità ai detenuti di sottoporsi a visite periodiche gratuite e ad una intesa con l’arcidiocesi di Cosenza-Bisignano per consentire anche alle persone meno abbienti di effettuare gli esami di prevenzione del cancro alla prostata, così come già attivato nella città di Napoli. In tal senso un dialogo è già avviato con il direttore del carcere di Cosenza e con monsignor Francesco Nolé.

L’unità urologica mobile, messa a disposizione della Fondazione Pro, nel giro di due anni, ha compiuto oltre 2 mila visite gratuite in tutta Italia, consentendo anche di individuare tumori allo stadio iniziale, poi perfettamente guariti.

Mi viene subito in mente una delle sue celebri frasi, adesso che Fidel non c’è più: “Il peggiore dei sacrilegi è il ristagno del pensiero”. Sembra una sorta di pensiero profetico, considerato questo momento storico nel quale c’è un significativo ristagno del pensiero, mentre il mondo cambia e sembra allontanarsi sempre più da ideali possibili.

I social network lo avevano spesso dato per morto, forse anche a causa delle sue lunghissime assenze dalla scena pubblica. Questa volta però la notizia è vera. Fidel Castro è morto. Aveva 90 anni e nelle prossime ore il suo corpo sarà cremato. A dare la notizia della sua morte con un intervento in Tv, suo fratello Raul, attuale Presidente di Cuba.

Simbolo per la sinistra, protagonista della scena politica di Cuba e non solo, fu colui che diede battaglia alla più grande potenza del mondo. Fu rivoluzionario, ma anche dittatore sanguinario per i nemici.

Figlio di un proprietario terriero spagnolo e di una cubana, la sua fu una vita vissuta tutta d’un fiato, sin da quell’istruzione nei collegi e nelle scuole gesuite, che incisero fortemente sulla sua formazione culturale. Fu un giovane con le idee chiare, tanto che subito dopo la laurea in giurisprudenza, si presentò alle presidenziali. Ma quello era il tempo del golpe, al quale lui rispose con l’assalto alla caserma della Moncada. Era il 26 luglio del 1953. Fu un disastro per Fidel. Molti suoi uomini vennero catturati, altri uccisi. Lui, finì in prigione condannato a 15 anni, ne scontò poco più di uno. Ma il suo progetto rivoluzionario era già ben delineato tanto che durante la sua arringa di difesa pronunciò quella sua celebre frase “condannatemi, non importa, la storia mi assolverà“.

Dopo il carcere andò in esilio, prima in America, poi in Messico dove conobbe Ernesto Guevara. Di lui Fidel disse: “Ricordo sempre il Che come una delle persone più straordinarie, uno degli uomini più nobili e disinteressati che io abbia mai conosciuto”.

Fu proprio insieme al “Che” a suo fratello Raul e altre 79 uomini che Fidel sbarcò nell’isola a bordo di un piccolo yacht, il Gramna. Era il 1956. Ma il suo gruppo fu sterminato e solo in 21 riuscirono a rifugiarsi nella Sierra Maestra. Ne susseguirono 2 anni di guerriglie, mettendo alle corde il dittatore Fulgencio Batista, che era legato alla mafia italo-americana.

Era il 1 gennaio del 1959 quando entrarono all’Avana. Quel giorno Castro era già il capo indiscusso di una rivoluzione che nessuno, all’epoca, sapeva dove avrebbe condotto il mondo, ma la cosa certa era che Cuba era stata liberata. L’impatto mondiale di quell’evento fu immenso, e rappresentò uno squarcio proprio in quella che era all’epoca la guerra fredda.

Incominciarono così i viaggi di Castro nel resto del mondo. La prima tappa fu proprio negli Stati Uniti nell’aprile del 1959, invitato da una società di editori di giornali. Poi fu invitato da Nixon, che di lui dirà: “è un tipo naif, ma non necessariamente un comunista“. Eppure i rapporti tra i due stati divisi soltanto da pochi chilometri di mare, peggiorarono in fretta.

Furono periodi molto caotici, quelli che seguirono e per tutto il 1959 all’interno del gruppo dirigente, si sviluppò un duro scontro sul futuro della rivoluzione. Guevara e il fratello di Castro, Raul, premevano per la via socialista. Camilo Cienfuegos, Sori Marin e Huber Matos per il ritorno alla Costituzione del 1940, libere elezioni e democrazia. Nel 1961 un piccolo esercito addestrato e finanziato dalla Cia proverà a sbarcare sull’isola, intenzionati a rovesciare i “barbudos” di Castro.  Seguì la crisi dei missili del 1962 che rischiò di trascinare il mondo in una guerra nucleare mondiale.

Fidel Castro è stato per decenni il nemico numero uno degli Stati Uniti, con il risultato che mentre accresceva la sua dipendenza dall’Urss, appoggiava le guerriglie nell’America Latina, diventanto il leader dei paesi non allineati.

Castro ebbe 3 figli, uno dal suo matrimonio, gli altri da relazioni extraconiugali. Ha resistito a 10 presidenti degli Stati Uniti e a diversi attentati. Il “Comandante” come lo chiamavano i cubani, ha retto anche gli urti derivanti dalla disintegrazione socialista e dal crollo dell’Urss.

Era un cubano al quale non piaceva il ballo (cosa assai strana), ma era dotato di grande arte oratoria. Era capace di parlare per ore davanti alla tv di stato. La sua salute era stata sempre di ferro, fin quando non lo colse una emorragia intestinale, all’età di 80 anni, durante un viaggio in Argentina. Fu allora che delegò il potere nelle mani di suo fratello Raul, che da allora ha dettato il ritmo dei cambiamenti.

Dell’era Castro – intesa come sino alla sua morte – va sicuramente ricordata la data del 17 dicembre del 2014 quando a sorpresa, e grazie alla mediazione di Papa Bergoglio, L’Avana e Washington hanno annunciato il “disgelo bilaterale”.

  • “nessun rivoluzionario muore inano” – Fidel Castro.

Simona Stammelluti

Su un personaggio così si potrebbe tranquillamente “romanzare”, ed invece la vita di Chet Baker e le sue vicissitudini sono il frutto di un modo di vivere unico e “fuori portata”, proprio come il suo modo di fare musica.

Se lo dovessi definire con poche parole lo definirei come l’unico trombettista il cui fraseggio spietatamente logico e sincopato, sapeva essere allo stesso tempo profondamente “sentimentale”.

Uno tra i maggiori trombettisti jazz del secolo scorso, in Italia è stato di casa, e in quel lembo di terra tra la Versilia e la Lucchesia, ha vissuto avventure e “disavventure”.

Difficile sapere tutto (o quasi) su Chet se non si è dei veri appassionati, oppure se come me, si é figli di un jazzista, si è cresciuti ascoltando la musica e la storia del jazz, al posto delle favole, prima di andare a dormire.

Era il 1960, ed in Versilia, si consumò il dramma di uno dei più strepitosi trombettisti, che scontò 16 mesi di carcere.  Potremmo dire ai giorni d’oggi che 16 mesi sono poco o nulla, per chi ha guai con la giustizia. Per lui, invece rappresentarono un vero e proprio inferno.

L’immagine di Chet seduto sul davanzale della sua camera d’albergo poco prima di essere arrestato, è nota a tutti, in tutto il mondo.

Quell’anno, era il 1960, Baker era in fuga dagli Usa perché aveva già da tempo problemi con la droga. Il 22 agosto, sulla provinciale che da Lucca porta a Viareggio, diretto alla Bussola, dove suonava per il periodo estivo – insieme alla Roman New Orleans Jazz Band – si ferma ad un distributore, chiede di poter usare il bagno, e lì dentro ci resta per più di un ora. Il benzinaio insospettito, chiamò la polizia che butta giù la porta.La scena alla quale i poliziotti assistettero fu quella di un uomo – che diceva di essere Chet Baker – a terra, con una siringa ancora nel braccio e del sangue tutto intorno.

In realtà quello che Chet si era iniettato, altro non era che un potente antidolorifico, che però in Italia all’epoca era illegale e così per lui non ci furono che le sbarre del carcere.
Ci furono indagini, poi il processo e la condanna. Ci fu anche un appello…ma lui aveva già scontato i suoi 16 mesi. Mesi di disperazione, di depressione, di sconforto per Chet al quale solo nell’ultimo periodo fu concesso di suonare la tromba, ma non più di 10 minuti al giorno.  Lui, che con la tromba ci dormiva, che l’abbracciava e “l’imbracciava”come se da essa potesse derivargli sempre l’entusiasmo di vivere.

La detenzioni costrinse Chet ad una difficile ma inevitabile disintossicazione, ma dopo quella disperata e triste esperienza non torno più come prima, e non suonò più come prima.
Come non ricordare, durante quella sua prigionia, quel piccolo concerto che, per Natale, Henghel Gualdi e i suoi, fecero sotto la finestra della cella di Chet, per Chet, per non farlo sentire solo ed abbandonato, prima di essere barbaramente cacciati dalle guardie. O quelle piccole folli di gente che amavano sentirlo suonare, che sostavano puntualmente sotto quella finestra a scacchi negli orari divenuti consueti, nei quali Chet suonava, seduto sul davanzale, dando fiato alla sua tromba, dalla quale usciva un suono languido, struggente, malinconico, commovente e a tratti fortemente disperato, seppur sempre meraviglioso.

Furono quei 16 mesi in carcere che Chet scrisse stupende canzoni che entrarono poi nella leggenda. In molti sostennero che Chet si suicidò, e che non cadde per caso da quella finestra dell’albergo di Amsterdam in quel 13 maggio del 1988.

Chi lo conobbe bene però, continua ancora oggi a sostenere che non ne avrebbe avuto mai il coraggio…almeno non di separarsi da quella tromba che lo rese dannato e maledettamente “cool”.

Lui, che odiava gli spartiti, ma amava i davanzali, fu vittima di una fatalità.  Ma non morì per chi come me ancora oggi, ascolta e – così come lui desiderava – prova a comprendere a pieno, quella sua musica, che non fu mai “totalmente” improvvisata, come invece la sua vita, fu.

Simona Stammelluti

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In uno scenario del lavoro sempre più fermo in Calabria, l’unica opportunità per molti giovani diventa l’auto-imprenditorialità. Molto spesso la maggioranza dei progetti restano nel mondo delle idee perché chi ha un buon progetto non ha poi le conoscenze o le competenze necessarie a reperire finanziamenti e fondi, soprattutto quelli messi a disposizione dall’Unione Europea.

E’ proprio per sopperire a questo deficit che i giovani del Movimento Cristiano Lavoratori di Cosenza, raccogliendo la sfida, hanno lanciato il WorkshopNuove Strategie per lo Sviluppo dei Territori. Nuove Imprese, start-up innovative cooperative” che si terrà giorno 18 e 19 novembre alla Sala Conferenza della Camera di Commercio di Cosenza.

Il programma prevede l’avvio dei lavori alle ore 9.30 del giorno 18, una sospensione alle 13.30 e la ripresa nel pomeriggio dalle 15.00 alle 18.00. La seconda sessione apre invece alle ore 9.30 giorno 19 e termina nella stessa mattinata, alle 13.30.

Per entrambi i giorni le attività saranno curate dalla formatrice Claudia Lanteri, Direttrice coop. soc. C.S.I. TRE, Responsabile Fondi Europei Fondazione Paolo di Tarso, Presidente Slow Tourism Alto Adige, Presidente Ass. Europea Dieta Mediterranea, Responsabile progetti formativi FSE Alto Adige.

Inoltre interverranno diversi ospiti: M. Nicolai, Direttore ARCEA (Agenzia Regione Calabria per le Erogazioni in Agricoltura); P. Molinaro, Presidente Coldiretti Calabria; M. D’Acri, Consigliere Regione Calabria; G. Passarino, professore straordinario di Genetica e vicedirettore Dipartimento di Biologia, Ecologia e Scienze della Terra; K. Algieri, Presidente della Camera di Commercio.

Il Workshop è gratuito e aperto a tutti, previa compilazione di un modulo di iscrizione, proprio per dare modo a chiunque sia interessato di capire quali sono le possibilità che offre il territorio per la realizzazione di un progetto individuale o di gruppo e di conoscere in maniera non superficiale il contesto socio economico nel quale si vuole operare.

Un workshop, dunque, che parta dal diritto al lavoro e che semplifichi l’attività di chi vuole avviare una nuova impresa, una start-up o una cooperativa.

La SCHEDA DI ADESIONE è scaricabile al link http://www.mclgiovanicosenza.it/images/scheda-adesione.pdf e deve essere inviata a mcl.giovanicosenza@gmail.com

Cosenza – I Carabinieri della Compagnia di Cosenza assieme ai militari del NAS stanno procedendo – su ordine della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza – al sequestro preventivo, con facoltà d’uso condizionata, di sette sale operatorie dell’Ospedale Civile dell’Annunziata e precisamente quelle dei di  Reparti di Chirurgia Generale e di Ortopedia, ove è presente anche una sala di day surgery per oculistica.

Il provvedimento, disposto dal Sostituto Procuratore Donatella Donato, sotto la supervisione del Procuratore Capo Mario Spagnuolo e del Procuratore Aggiunto Marisa Manzini, scaturisce dagli accertamenti svolti dai militari dell’Arma che hanno eseguito approfondite ispezioni anche con l’ausilio del personale del Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza Ambienti di Lavoro (SPISAL) di Catanzaro.

I controlli messi a punto hanno evidenziato una serie di carenze sotto il profilo igienico-sanitario con particolare riferimento a rischi di contaminazione derivanti dalla promiscuità nel ciclo sporco-pulito, dalla presenza di locali adibiti a stoccaggio di rifiuti speciali in aree non previste, nonché dal mancato rispetto dei parametri microclimatici e microbiologici previsti con la pressurizzazione delle sale operatorie.

Sono state altresì contestate violazioni in tema di sicurezza dell’ambiente di lavoro. Nel provvedimento di sequestro sono state indicate una serie di prescrizioni a cui è subordinata la facoltà d’uso, pertanto in caso contrario, l’utilizzo delle sale operatorie è da ritenersi interdetto.

Simona Stammelluti

Un film senza fronzoli, senza troppe pretese, senza effetti speciali, senza colonne sonore da ricordare. Un film dai colori smorzati e dalle inquadrature spesso molto vicine, affinché si possa toccare e percepire vite che pulsano e le loro disperazioni


Michele Placido, che firma la regia di questo film “7 minuti“, ispirato ad una storia vera accaduta in Francia, scommette tutto sulle donne, sul loro mondo, sul loro problema con il lavoro, sul loro coraggio, sulle loro scelte spesso più coraggiose di quanto loro stesse possano credere possibile.

11 donne, operaie di una fabbrica tessile di provincia che sta per passare in mano ad una multinazionale, che sono costrette a fari i conti con le proprie personali disperazioni, con la “precarietà” che è prima di tutto emotiva.

Un film che gira intorno ad una scelta, ad un “sì” o ad un “no” e alle conseguenze di quella scelta. Una decisione che possa essere scevra da compromessi, oltre che capace di zittire l’urlo invalidante della paura; una scelta che possa fare la differenza, per divenire un esempio.

Operaie, ma anche madri, figlie, giovani alla ricerca di un posto nel mondo, non solo lavorativo, extracomunitarie che si sentono finalmente vive perché hanno un lavoro. Donne che siedono intorno ad un tavolo e che, seppur apparentemente tutte amiche ed affiatate, sono pronte a sbranarsi con parole e azioni, pur di difendere un bisogno, più che un diritto.

Sono le donne alle quali viene chiesto di prendere una decisione anche per  gli altri 300 lavoratori che attendono di sapere quale sorte toccherà loro. Donne che si trovano a fare una scelta quasi scontata, considerato che, terrorizzate dalla paura di essere licenziate e di dover dunque rinunciare a ciò che dà loro da vivere, si trovano nella condizione di dover decidere se accettare o meno di rinunciare a 7 minuti di pausa.  Una finta opportunità dunque, ben nascosta dietro un’apparente rinuncia.

Un film che può sembrare statico perché svolto in un’unica location ma che è estremamente dinamico e pulsante, mentre prova – riuscendoci – a sviscerare il dramma del mondo lavorativo femminile, in uno spaccato molto credibile di una società multiraziale, nella quale cambiano colori e lingue, lasciando immutate necessità e comuni disperazioni.

E’ un film ostinato ma non didascalico, che induce a riflettere e che tira fuori una morale.

Hanno tutte bisogno di lavorare, le donne della fabbrica, hanno tutte bisogno di quel lavoro e tutte in prima battuta decidono di accettare quella proposta, ossia di rinunciare a 7 miseri minuti. Ma quando Bianca, il loro portavoce e la più anziana tra loro, cerca di spiegare il perché del suo rifiuto nei confronti di quella proposta, le dinamiche di quella decisione da prendere, incominciano a cambiare connotati. 7 miseri minuti che però sono il segno del potere che toglie poco a poco, senza grossi dolori, per vedere a cosa si è disposti a rinunciare pur di conservare un lavoro. Il potere di chi comanda, che si contrappone al potere di chi lavora, di chi mette a disposizione della collettività ciò che sa fare.

Un potere che però trema, davanti ad un tempo che scorre, che racconta di come quella scelta che loro, dal posto di comando davano per scontata, tarda ad arrivare.

E così da una scelta, possono scaturire reazioni a catena.
Essere a favore o contro, distinguere ciò che è giusto da ciò che è logico. Tutto mentre diversità e personalità, si contendono una ragione che però deve mirare a difendere una dignità, che vale molto più di 7 minuti di pausa a cui rinunciare.

Coraggio, liti, malanimo, divisioni e spaccature, in quella piccola società operaia fatta di donne che appaiono tutte diverse, forti ed incrollabili ognuno a modo proprio, ma che hanno invece tante e tali fragilità e debolezze emotive, che stanno tutte dalla stessa parte, ossia di quella dei deboli che vengono sfruttati e che tacciono perché “non hanno scelta”.

Ma la scelta, è ancora possibile.

11 donne con 11 storie diverse, ma che confluiscono nella medesima voragine della paura di perdere.

Spicca tra le attrici protagoniste Ottavia Piccolo, che nel film interpreta Bianca, la veterana, colei che ha fatto da “mamma” alle più giovani, la più lucida ma anche la più cruda. A lei vengono “volutamente” affidate meno battute, proprio perché capace di straordinaria presenza scenica, dotata di una capacità espressiva degna di nota, costruita in anni ed anni di teatro. Avvantaggiata – come lei stesso spiega in una intervista – dal fatto di aver portato in scena in oltre 200 repliche, lo spettacolo teatrale scritto da Stefano Massini che ha firmato a 4 mani con Michele Placido la sceneggiatura di “7 minuti”.

Credibile Fiorella Mannoia nel suo esordio come attrice, Ornella nel film, che fa la parte della mamma di Viola, Cristiana Capotondi, giovane ed incinta, che si batte per la sua scelta, prima di dare alla luce suo figlio.

Intensa e pulsante l’interpretazione di Ambra Angiolini che ha fatto passi da gigante negli ultimi anni, dimostrando un talento che ormai parla per lei.
E sulla sedia a rotelle, non urla il suo cognome Violante Placido, alla quale viene affidato il ruolo di colei che “sembra” stare meglio delle altre, ma è proprio l’emblema della rinuncia alla dignità, ed il racconto che fa alle sue compagne circa la verità sull’incidente in fabbrica e quel che ha dovuto subire, è uno dei momenti salienti della pellicola.

Tiene per se la parte del proprietario della fabbrica, Michele Placido, in un piccolo cameo, come se volesse dirigere “da dentro”, questo suo film, che non ha certo un finale scontato, che è stato dotato di un’ottima dote di suspense, che tiene l’attenzione dello spettatore sempre alta e che permette di scommettere su un finale per nulla prevedibile.

Cosa decidono alla fine le 11 donne, circa quei 7 minuti ai quali devono rinunciare?
Andate al cinema, guardate il film e lo scoprirete.

Simona Stammelluti

Talento, carisma, magia, garbo e rispetto per il mondo, a partire dai suoi musicisti.
In questo anno nefasto che ha portato via Prince e David Bowie, ci lascia anche lui, Leonard Cohen, 82enne canadese, poeta, cantautore, romanziere, letterato ed intellettuale, una delle personalità più influenti ed eclettiche della scena musicale mondiale.
Una vita divisa in due, partita dagli eccessi e conclusasi nella dimensione di chi ha cercato un suo “senso” lontano da tutto e da tutti, tanto da restare fuori dalle scene per oltre 15 anni. Eppure nessuno mai ha potuto dimenticarlo o riporlo chissà dove, considerato che nel 2008, data del suo ritorno in auge, ha riscoperto un successo che è stato inarrestabile fino alla fine.
Solo pochi giorni fa, il 21 di ottobre, aveva dato alla luce il suo ultimo lavoro “You want it darker” che lo stesso cantautore aveva definito “un’autentica esplorazione della mente religiosa”.
Senza sapere quando né dove sia morto Cohen, la notizia appare e travolge dalle pagine del famoso social network con parole che fanno commuovere ma nelle quale gli appassionati riconoscono il proprio idolo: “abbiamo perduto uno dei visionari più prolifici e rispettati del mondo della musica”. Aveva cantato davvero di tutto, Cohen nella sua carriera.
Il sesso, il sociale, la politica, la religiosità, era riuscito a stupire sempre, scrivendo libri, dirigendo film, realizzando colonne sonore oltre ai suoi famosi capolavori che in queste ore saltano alla mente di tutti e che con un pizzico di malinconia, si intona anche solo a bocca chiusa.
Arrivò tardi alla musica, quasi trentenne, portando con se più le sue origini ebraiche che quelle di colui che era nato in una famiglia borghese. Arrivò alla musica dopo essere stato poeta e dopo il successo del suo romanzo “Beautiful lovers” che ebbe un grande successo tra la critica.
Le donne caratterizzarono la sua vita e la sua carriera. Dalla prima, la cantautrice Judie Collins, che lo convinse non solo a scrivere canzoni ma a presentarsi davanti ad un pubblico, sino a Marianne Ihlenn, sua musa ispiratrice – ricordiamo che a lei sono dedicati i pezzi Marianne, So Long e Bird on Wire – alla quale lo scorso agosto Leonard dovette dire addio con queste parole: “ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza, altro non devo dirti perché tu lo sai già. Adesso voglio solo augurarti buon viaggio. Addio mia vecchia amica, amore infinito. Ci vediamo lungo la strada”.
Ma ci fu anche un’altra donna che segnò la sua vita e la sua carriera, la sua manager che fu la causa della sua uscita dalle scene, avvenuta proprio quando scoprì che la stessa l’aveva imbrogliato portandogli via enormi somme di denaro.
Disperazione, speranze, gioie e dolori dunque, nella vita quanto nella carriera di Leonard Cohen, incastonate in una voce calda, suadente, con caratteristiche difficili da dimenticare quando da imitare.
Osservava il mondo e ne raccontava i dolori, sempre in bilico tra saggezza ed ironia. Erano così i suoi testi, come passo lenti e pesanti che lasciano solchi nei quali adagiarsi.
La sua sensibilità letteraria non gli ha mai consegnato un Nobel, ma se e vero che si resta immortali proprio in quello che si è stato, allora Cohen è e resterà “Songs from a room” del 1969, “Songs of Love and hate” del 1971, come anche il suo cambio di rotta, verso il jazz e la musica mediterranea avvento nel 1977.
Resterà la sua “Hallelujah” e quelle sue parole dette solo pochi giorni fa: “signore sono pronto”.
E così sia.
Simona Stammelluti

Hanno perso tutti, non solo Hillary Clinton.

Hanno perso i sondaggisti, la stampa americana che si era schierata compatta con colei che avrebbe potuto essere la prima donna alla Casa Bianca, che avrebbe potuto cambiare la storia degli Stati Uniti, e del mondo. Ha perso chi sperava in un coerente “dopo Obama”.Ha perso una parte di America.

Hillary Clinton paga qualche scotto di troppo. E non si parla solo di scandali derivanti dal passato, ma a lei in quanto donna, nulla le è stato risparmiato, neanche l’essere stata forse, troppo “attempata”. Certo è che il Partito Democratico americano non ha tirato su nessun giovane, nessun probabile candidato, negli otto anni di Obama, che potesse essere al posto di Hillary contro il colosso monetario Trump.

Conta i voti Hilary, poi accetta la sconfitta, che è netta, mentre vede sfumare per sempre il sogno di una vita intera o forse mentre si scrolla di dosso la responsabilità primaria di dimostrare quanto valesse. Forse scorreva di tutto davanti ai suoi occhi in quei momenti della verità. Dal lontano 1970 quando capì che la sua vita politica sarebbe stata nel partito democratico,  l’essere stata First Lady, i tradimenti del marito, la “rinascita” della sua popolarità politica nel 2008, quando perse le primarie contro Obama.

Hillary paga anche lo scotto di quelle ferite di larghe fasce di popolazione, dell’insoddisfazione di coloro che sono stati vittime di divario sociale troppo accentuato. Diviso in due, l’elettorato americano. Sembra infatti che l’americano colto, quello benestante, agiato, attivo e soddisfatto si sia schierato con la Clinton mentre il popolo “sottotraccia” abbia cercato in Trump una sorta di riscatto. Un po’ come se fosse stato il voto dell’insoddisfazione che non si sa che fine farà, ma l’importante è che ci sia.

“I dimenticati del paese, da oggi non lo saranno più” – dice Trump nel suo discorso. Difficile crederlo pensando a ciò che Trump è, e non a ciò che da oggi rappresenta.

Il “mostro” Trump che di se ha sempre detto di essere “un uomo pieno di fascino perché pieno di soldi”, ha parlato stamani alla folla in un discorso in cui ha sottolineato di voler essere il presidente di tutti, ed intanto i mercati sono giù.

Gli americani hanno parlato, ed hanno eletto il nuovo Presidente. Sarebbe interessante domandare ad ognuno di loro il perché di questo voto che ha sovvertito ogni pronostico.

Ma ad oggi, prima di pensare a ciò che sarà, va considerato cosa è ad oggi, Donald Trump. 70 anni col cemento nel Dna, uno che ha sempre amato farsi chiamare Taycoon, ma non si è fatto proprio da solo. Si lancia in progetti edilizi e punta all’ombelico del mondo, Manhattan. Latin lover, produttore televisivo, 5 figli da tre mogli diverse. Trova il suo spazio ideale nel momento storico in cui la politica non è certo rassicurazione, e sa bene come influenzare le persone, soprattutto cavalcando una insoddisfazione a tratti silente e pertanto promettendo “meglio degli altri” e non “di più”, degli altri.  Il suo discorso politico non a caso, durante la campagna elettorale ha spesso “toccato il fondo”; mirava – come è facile capire – a rastrellare quanto più consenso possibile e su questo è riuscito in pieno, c’è da dargliene atto.

Un centinaio di migliaio di voti di differenza. Agli americani è piaciuto il “bad boy” che smaschera l’ipocrisia della società e che dice: “il problema degli Stati Uniti è voler essere politicamente corretto”.
Ma Trump rappresenta ad oggi davvero gli Stati Uniti d’America? No. Rappresenta sfaccettature di un sistema che esiste in diverse parti del mondo. Rappresenta una visione del futuro surreale, che però ha trasformato il veleno di molti in un balsamo che anestetizza.

Filo-razzista, filo-xenofobo, convinto nel voler tenere fuori i musulmani dagli Stati Uniti – musulmani che da sempre fanno parte del tessuto sociale americano – tiene sul comodino un libro di Hitler e su twitter cita con nonchalance Mussolini. Però lui si mostra come colui che la gente la vuole conoscere, che vuole bene e tutti, ma ad oggi tocca immaginarlo alla guida degli Stati Uniti d’America, mentre si relaziona con il resto del mondo. Tutti attenti adesso ai suoi rapporti con la Russia e con Putin che dichiara: “finalmente i rapporti russo-americani possono uscire dalla crisi”.

A me in queste ore la mente corre a quel che vuole fare:  alzare un muro tra Messico e Usa, ripristinare la pena di morte e applicarla con durezza, concedere il diritto ad ogni americano di possedere liberamente un’arma, rinegoziare il Nafta ( Trattato di libero scambio Nordamericano), rilanciare il progetto dell’oleodotto sul quale Obama aveva messo il veto.

Rendiamo l’America di nuovo grande” – Urla Trump.
Chissà perché, però ancora in tanti, tantissimi si pongono la stessa domanda:  “Che America sarà?”
Speriamo di poterlo raccontare.

Simona Stammelluti

Sembrava aver bevuto l’elisir dell’eterna giovinezza, forse perché ragionava meglio di un qualunque giovane ricercatore. Muore all’età di 91 anni uno dei più famosi oncologi italiani che tanto si è battuto per l’eutanasia e che ha invitato tutti a stare lontani dalla carne perché cancerogena

E’ morto nella sua casa di Milano, circondato dai suoi affetti, Umberto Veronesi, il medico che ha dato negli anni la speranza di una vita a moltissimi malati di cancro.

Si è sempre pensato ad Umberto Veronesi come a colui che fece la guerra a quel grande male, che ha fatto per tanto tempo paura e al cui nome, “cancro” ci ha fatti abituare proprio lui, come se conoscerlo più da vicino, fosse un primo passo per sconfiggerlo.

Era un chirurgo, abituato a “guardare da vicino” ciò che nuoce all’essere umano e ad “estirpare”. Insieme a lui l’ospedale di Milano diventa un vero e proprio tempio, che ha visto un lungo peregrinare durato decenni da parte di chi attendeva di sapere che male avesse e soprattutto come e se poter guarire.

La ricerca è stato il fulcro della sua vita.  I farmaci dopo l’intervento alle donne operate al seno, sono stati uno dei suoi successi. E  poi ancora la chirurgia conservativa, che ha consentito a tutte le donne sottoposte a mastectomia totale di poter conservare la propria femminilità  e proprio lui, Veronesi, in merito diceva: “Amo troppo le donne per vedere i loro seni straziati dall’amputazione”. A lui si deve anche la tecnica di asportazione del linfonodo sentinella, intuizione che nessuno prima di lui aveva avuto.

Si è battuto affinché nascessero Istituti di Ricerca, perché diceva che “dove si fa ricerca, si può curare meglio”. Con lui è nata l’Airc – Associazione Italiana Ricerca sul Cancro. Ma la politica aveva strumentalizzato questo incoraggiamento, e aveva fatto nascere e poi sovvenzionato tanti istituti senza verificare per davvero che in quei luoghi si facesse “seriamente” la ricerca.

Era laico e lucido, guardando in faccia ogni santo giorno quei due lottatori chiamati vita e morte. Schieratosi con la vita, ha sempre consigliato un’alimentazione equilibrata, con poche proteine animali perché anche loro responsabili di alcune patologie tumorali e ha incoraggiato la dieta vegetariana.

Il suo insegnamento sopravvivrà a lui e forse fa bene ricordarlo: “La medicina è uno strumento di progresso e di crescita collettiva. E’ il terreno sul quale la scienza migliore si coniuga con il più nobile degli obiettivi”.

La vita fa il suo corso e lui muore a 91 anni, nel letto di casa sua circondato dai suoi affetti. In tanti nel corso di decenni hanno chiesto al suo centro tumori di Milano un consulto, una speranza. A tutti lui ha risposto, a più di qualcuno ha consegnato una speranza con annesso un futuro, sempre accompagnato da un sorriso rinfrancante.

Simona Stammelluti

Professor Marco Mazzeo - Photo Sicilia24h -

Docente di filosofia del linguaggio talentuoso e motivato, dotato di una sorprendente carica comunicativa, simpatico – ma non troppo – Marco Mazzeo, romano, classe 1973, rappresenta una delle eccellenze nell’Ateneo di Arcavacata di Rende. L’Unical (Università della Calabria) ha bisogno di insegnanti come lui, mossi non solo da una capacità oggettiva, ma anche da una spiccata dedizione che in tanti chiamano “missione”.

Ho avuto il piacere di intervistarlo nel suo ufficio al settimo piano (raggiunto rigorosamente a piedi) in un’ora apparentemente tranquilla per entrambi. Mentre gli parlo non mi sfugge un particolare: sulla parete alle sue spalle svetta una foto, che non è una foto di famiglia, ma di un filosofo austriaco di cui non svelo il nome, perché il Professor Mazzeo ha piacere di parlare di lui, proprio durante l’intervista.

D: Professor Mazzeo, lei è un giovane docente universitario, tra l’altro pendolare, che ha fatto questa scelta mettendo sul piatto della bilancia le rinunce che evidentemente si attuano quando si lavora fuori dalla propria regione, con quello che è il peso dell’insegnamento e del proprio ruolo all’interno di un ateneo. Mi racconta quando ha deciso di fare l’insegnante e quanto le è pesato dover rinunciare ad alcune cose per assolvere a questo compito.

R: Ho deciso di studiare filosofia del linguaggio il primo giorno che sono entrato all’università di Roma. Era un giorno di novembre del 1991, entrai in una classe nella quale si parlava di linguaggio, cosa che mi aveva sempre interessato perché già da adolescente era quello il mio punto forte, ed incontrai un professore molto bravo che si chiama Massimo Prampolini – che poi sarebbe diventato il mio professore di tesi – e che incominciò a parlare di un filosofo che si chiamava Wittengstein e mentre parlava disse questa frase: “le scimmie non zappano perché non parlano”. Questa frase mi rimase in testa tutto il giorno e ritornai a casa convinto di dover studiare quell’ autore. Da quel punto in poi la filosofia del linguaggio non mi ha più abbandonato. Poi dopo la laurea ho incominciato a cercare una borsa di dottorato, intraprendendo un vero e proprio viaggio tra le università sparse per l’Italia, e per tre anni ho girato tutti gli atenei. Quello più a sud è stato Palermo, quello più a nord Vercelli. Poi sono approdato all’università della Calabria, e ho incominciato a scoprire un mondo fatto di persone che io avevo già conosciuto in altri luoghi, come Daniele Gambarara, conosciuto all’Università di Roma, Paolo Virno,  Felice Cimatti, di cui ero stato allievo.  Erano tutti qui, senza che io lo sapessi. Quando feci la prova scritta pensai che sarebbe stato bello restare all’Unical. Questo perché qui in realtà c’è un gruppo con il quale si lavora. Non è dunque solo insegnamento, ma anche ricerca d’insieme. Ho vinto quel dottorato ed ho così cominciato questo percorso. E’ stata la Calabria a scegliermi, ed è stato giusto così, malgrado le problematiche oggettive di chi come me viaggia. La mia vita va un po’ a fasi; C’è una fase nella quale non esco di casa e studio, e poi quella nella quale riporto a persone, in questo caso i miei studenti, tutto quello a cui ho lavora nell’altra parte della mia stagione.  Questa cosa è molto bella e ancora oggi in qualche modo funziona.

D: Poco fa ha raccontato di aver seguito una lezione, di essersi appassionato a quella materia e di non essersi più separato da essa. Oggi i suoi studenti, che sono sicuramente diversi da quello che siamo stati noi un ventennio fa, conservano secondo lei del talento e delle passioni, sanno dove andare, o sono un po’ “parcheggiati” senza sapere davvero che orizzonte guardare?

R: Bella domanda. La situazione è diversa non tanto in termini di passione, quanto per alcuni aspetti di fondo. La prima cosa sostanziale è capire da dove questi ragazzi vengano. Vengono da una scuola che è stata profondamente danneggiata in questi vent’anni e questo è particolarmente evidente. Io ogni anno, in inizio di corso, faccio ai miei studenti un test chiedendo loro il significato della parola “scorribanda”, che non è certo una parola particolarmente aulica, e quest’anno su 100 persone, una sola ha alzato la mano e mi ha dato la risposta giusta. Questo significa che in 5 anni, 500 persone non hanno saputo rispondere a questa domanda, il che significa che la loro dimestichezza con l’italiano si è sensibilmente ridotta, rispetto a quella che potevamo avere noi vent’anni fa. Questo è un vero problema perché dimostra come aver tolto risorse alla scuola pubblica, sta dando degli effetti, che però non possono certo essere definiti positivi. La cosa interessante è che l’Università della Calabria è ancora oggi una vera università di frontiera, ed il fatto che presso la nostra università vengano le persone più diverse, magari meno portate per lo studio teorico per quello che riguarda le proprie esperienze e gli studi passati, la considero una grande sfida, un grande segno di vitalità. Questo significa che in Calabria l’università resta un significativo punto di riferimento, e se chi è disorientato viene qui in cerca di risposte, beh, questo rappresenta un aspetto positivo. Certo…il disorientamento dei ragazzi oggi è evidente ma non solo in riferimento agli studi universitari ma anche al loro futuro, al tipo di lavoro che dovranno fare. La trasformazione del mondo del lavoro in questi ultimi vent’anni pesa sulle loro spalle in termini di incertezza e di confusione. Noi insegniamo scienze della comunicazione che nel bene o nel male, sono un punto di convergenza delle aspirazioni, ma anche dei timori della società dello spettacolo che purtroppo viviamo.

D: Paolo Gallo, responsabile delle risorse umane del Word Economic Forum ha dichiarato in una intervista che per riuscire nel lavoro, bisognerebbe seguire più il proprio talento che le passioni, perché a suo dire, le passioni sono soggettive, il talento, invece, un fattore assolutamente oggettivo. Professore come si fa secondo lei a capire se qualcuno possiede un talento? Dei suoi 150 alunni di quest’anno, quanti riusciranno a capire se sono mossi da un talento e stanno andando per la strada giusta?

Io sinceramente non credo a questa distinzione, in nessuna delle sue articolazioni. Dire che il talento sia oggettivo, mi sembra un modo carino per dire “vieni da noi e sapremo come utilizzarti”, che suona un po’ come “vieni da noi che sapremo come sfruttarti”. Mi sembra un’affermazione di parte, che non è certo la nostra. Spesso talento e passioni si incastrano tra di loro. A volte invece, si può fare qualcosa nella vita per la quale si è portati, ma che può non creare una passione e dunque si è costretti a vivere una vita florida ma infernale, sotto alcuni aspetti. Il problema a mio avviso è proprio l’orientamento. Ci troviamo in un momento delicato, per cui ai bambini piccoli, tra 0 e 10 anni, chiediamo di essere velocemente degli adulti, e di  avere il talento di fare tanti sport, andare a scuola, fare i compiti, pensare alla vita sociale, avere un carnet degli appuntamenti. Nello stesso tempo chiediamo agli adulti di essere ancora come dei bambini, e quindi avere una vita indeterminata, che non deve avere mai un obiettivo troppo preciso perché tanto ci sarà chi stabilirà per cosa hai talento, come per esempio un responsabile delle risorse umane. Questo strano processo, diventa un problema per chi dovrebbe poter trovare la sua passione, individuare il suo talento, vivere in un modo significativo. Bisogna scardinare l’idea che da soli si possa capire quale sia la propria passione, o che qualcuno possa dirci “questo è il tuo talento”, perché nessuno dei due è un modo sincero per trovare la propria strada.


D: Professor Mazzeo, penso di poter affermare che lei sia una persona estremamente colta, a prescindere dalle sue competenze e dalla sua spiccata capacità di espletare il ruolo di insegnante. A mio avviso la cultura non è solo un insieme di nozioni ma anche la consapevolezza di quello che si può fare con quelle nozioni, il peso che la cultura può avere in quello che siamo e in quello che possiamo realizzare. Si è mai soffermato su questo aspetto?

R: La ringrazio per la stima che è sempre preziosa. Guardi, vengo da un quartiere di Roma che quasi nessuno conosce, che non è un quartiere stereotipato e si chiama Monte Spaccato e che rappresenta una delle periferie urbane peggiori che esistano. Ho pertanto questa estrazione, però la cosa positiva è che ho ben presente i conflitti del mondo reale perché li ho vissuti sulla mia pelle e so perfettamente quello che lei diceva poc’anzi, e cioè che conoscere delle cose non significa avere delle nozioni. Quello che cerco di fare in questa università va proprio in questa direzione, anche se per come è organizzato il mondo universitario non siamo aiutati in questo compito, non siamo agevolati nell’aiutare gli studenti a sviluppare le proprie capacità. Impartiamo delle nozioni o diamo loro delle tecniche affinché trovino un eventuale lavoro, ma in realtà dovremmo trasformarli in professionisti, anche se non si sa precisamente di cosa e quindi ci troviamo chiusi in questi tipo di contraddizione. Sviluppare il pensiero critico dovrebbe essere a mio avviso la prima mossa in un processo pedagogico in genere, perché è un modo per mettere in discussione se stessi, quello che si ha intorno, ed è quindi un requisito per costruire la propria strada, qualunque essa sia.

D: Quindi l’università può essere considerata una porta stretta dalla quale far passare la cultura, affinché poi diventi frutto sociale?

R: La porta ancora più stretta per far passare la cultura è proprio il pensiero critico, ossia la capacità di mettere in discussione alcune realtà, quello che si ha intorno, i luoghi comuni, anche alcuni propri pensieri, i propri stereotipi; ed ognuno di noi ne ha a sufficienza.  Mettere in discussione non significa lamentarsi, ma portare argomenti, analizzare, discutere, scrivere, leggere, ragionare insieme, dibattere in modo fruttuoso.  Questa cosa è particolarmente difficile, perché se ad oggi uno studente medio conosce poco la propria lingua madre, sarà un problema sviluppare una sensibilità verso le parole. E poi c’è questa forte tendenza a pensare che noi si debba essere dei formatori capaci di indirizzare gli studenti e prepararli al mondo del lavoro, che a volte significa formare le persone per essere sfruttate il prima possibile.

D: Leggo testualmente un passaggio preso da uno dei suoi libri, “Il bambino e l’operaio”, che mi ha particolarmente colpito: “In alcune circostanze mi è stato concesso il lusso di dimostrarmi caparbio, in altre, ho goduto del piacere di poter cambiare idea repentinamente, senza l’ostacolo di sguardi giudicanti”. Sono sorte in me due riflessioni e quindi due domande che vorrei porle. Quando secondo lei non si può assolutamente cambiare idea, quando bisogna difenderla una determinata idea fino alla fine? Questa pratica attuale di andare dove vanno tutti, di non prendere mai una posizione netta, decisa, questa nuova logica di non essere mai la voce fuori dal coro, è secondo lei condizionata dalla possibilità di essere sottoposti poi a sguardo giudicante?

R: Penso che un essere umano non debba  mai scendere dalle proprie posizioni davanti ad una ingiustizia. Bisogna lottare e chiedere sempre che giustizia venga fatta. La citazione che lei fa –  e che mi fa piacere venga citata –  nasce da una esperienza a cui tengo molto, fatta fuori dallo schema universitario ma dentro l’università; Un seminario lungo, durato diverse settimane, molto impegnativo. Eravamo io ed il Professor Paolo Virno, preparavamo delle lezioni e poi spiegavamo agli studenti alcuni argomenti. Tutto questo mentre Paolo Virno mi poneva delle domande critiche. Io prendevo appunti prima della lezione, poi prendevo appunti delle domande che mi poneva, e poi prendevo ancora appunti delle mie stesse risposte. Così è nato questo libro. Risposte mie, ma anche risposte della situazione, risposte di me che dialogavo con Paolo Virno e con gli studenti. La mia unica abilità è stata quella di capire che dovevo prendere nota di quello che stava succedendo, considerato che sentivo la fatica per quello che stavamo realizzando, come ricercatori. Abbiamo dimostrato anche come potrebbe essere l’università del futuro. Ci sono gli studenti, più persone, si lavora seriamente, si producono delle nuove idee e in questa dimensione pubblica e collettiva, si supera questo problema della frammentazione.

D: Professore se le dessero un’ora in più oltre alle 63 già a sua disposizione, cosa insegnerebbe ai suoi alunni oltre alla filosofia del linguaggio?

R: Mi piacerebbe insegnare loro l’arrampicata sportiva. Mi piacerebbe portarli su delle pareti d’arrampicata e fare con loro un lavoro così come si faceva nel ginnasio nell’antica Grecia quando si univa al lavoro filosofico quello pratico-ginnico. Mi piacerebbe pertanto sfidare insieme ai miei studenti, la forza di gravità. Questa sarebbe una cosa bella, perché si lavorerebbe sulla sfida contro ciò che ci circonda.

D: Il 2 novembre del 1975 moriva Pier Paolo Pasolini. Mi regala una riflessione su quello che poi è stato definito l’ultimo intellettuale del ventesimo secolo?

R: Ho un ricordo di come reagirono i miei genitori alla morte di Pasolini. Ricordo questa foto ritagliata da un giornale, appesa con dello scotch ad una mattonella della cucina e mi ricordo il dolore dei miei genitori, come se avessero perso un loro amico, come se in casa mia fosse scomparso un interlocutore con il quale non sempre si può essere d’accordo, ma la cui scomparsa segnò molto … come se fosse andata via una persona di casa. Per me è una figura strana, ma che però  ha sempre fatto parte del mio alveo familiare e quindi ogni volta che ci penso, recupero il ricordo come di una persona che aveva in qualche modo frequentato casa mia.

D: Professor Mazzeo, lei è un docente particolarmente motivato nel suo ruolo di insegnante. Ma se qualcuno un giorno le dicesse “può cambiare mestiere, chieda e sarà accontentato”, lei cosa risponderebbe?

R: Farei sempre quello che faccio, magari facendo qualche chilometro in meno. Mi piacerebbe continuare a fare bene ciò che già faccio. Sono motivato perché credo di avere una percentuale di incidenza e perché in questa università incontro tantissime persone, alcune molto strane, ma l’aggettivo strano che ha connotazione di generico, lo suo perché ci sono persone che mi mettono realmente in difficoltà. Ogni anno comincio a fare lezione però non so cosa mi accadrà,  con chi dovrò scontrarmi e questa sfida mi motiva molto. E’ una sfida didattica che consiste nel portare dei contenuti filosofici il meno possibile semplificati, a persone che oggettivamente pur  avendo corpi da ventenni, hanno conoscenze linguistiche o di nozioni, pari sostanzialmente alla terza media. Questa è una sfida pazzesca, e proprio perché sembra una sfida impossibile, che io l’affronto ogni giorno.

D: Professore, questa intervista la leggeranno in tanti. Se lei volesse invitare qualcuno ad informarsi su chi sia Wittengstein? Solo lei può riuscirci.

R: Beh, inviterei a vedere l’unico film su Wittgenstein, di Derek Jarman, che è un film realizzato da un regista che non è certo un filosofo ma che mostra una grande sensibilità teorica e che è stato capace di raccontare tantissime cose penetranti su quel filosofo. E’ un film molto interessato al personaggio, che ha fatto molto più di quanto abbiano fatto tanti scrittori accademici su questo pensatore, che magari hanno scritto di lui, ma non sono interessati a quello che lui dice. Jarman invece era interessato, e vedere il film è sicuramente meno impegnativo che leggere gli scritti di Wittengstein, ma dà un buon quadro della filosofia e dei limiti di questo pensatore.

D: Si dice che lei bocci uno studente su due. E’ vero? I suoi studenti devono quindi votarsi a Wittengstein per superare l’esame?

R: Sorride. Sì, sono tremendo, ma fa parte del gioco e per questo mi piace stare al primo anno, perché posso così creare dei presupposti chiari, circa quello che si chiede al lavoro che facciamo con gli studenti in classe, senza sconti nell’esame. Se sono chiamato a organizzare questa prova di realtà, cerco di fare un po’ di attrito.

D: Professore, lei ha un figlio di sei anni. Che consiglio gli darà quando raggiungerà la stessa età che hanno oggi i suoi alunni?

R: Gli dirò di fare una scelta di studio, se vorrà studiare, lavorativa, se vorrà lavorare, artistica, se vorrà fare l’artista, ma tendenzialmente di fare una scelta che lo indirizzi verso una via che in quel preciso momento gli sembri significativa, al di là delle speranze professionali o del futuro lavorativo che in quel preciso momento sembrerà dischiudersi. Non quindi la scelta più facile o la più remunerativa, ma solo la scelta per la quale lui si senta realizzato anche solo per il fatto che quella cosa la possa fare di lì a poco. Questa mi sembra – per quella che è la mia esperienza – una giusta garanzia. Se uno fa un’attività per la quale vede un significato a prescindere, quella è una sorta di cassaforte che nessuno potrà mai scassinare.

Simona Stammelluti