Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 76 di 94
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Stefano Costantini, caporedattore della Cronaca di Repubblica Roma, è senza dubbio la persona giusta alla quale porre qualche domanda a caldo, a seguito della sentenza di condanna con l’aggravante del metodo mafioso, per gli imputati nel processo di primo grado, circa l’illecita gestione degli appalti pubblici e delle concessione degli stabilimenti balneari del litorale di Ostia.
D: Dott. Costantini qual è stato il primo pensiero che le è venuto a far visita appena ha appreso della sentenza?
R: Sono stato doppiamente contento, sia come cittadino che come giornalista. E’stata una sentenza importante, che ha ad oggi un peso ancor più significativo considerato che per la prima volta viene riconosciuta l’aggravante del metodo mafioso ad Ostia, e che dunque è una conferma che ad Ostia c’è la mafia. Tra l’altro il comune di Ostia è commissariato e pertanto questa sentenza è molto, molto significativa.
D: Lei guida la redazione della cronaca di Roma e lavora ogni giorno fianco a fianco con Federica Angeli, la giornalista la cui inchiesta è stato il vero punto di partenza che poi ha condotto alla sentenza di poche ore fa. Com’è stata la prima conversazione tra di voi, subito dopo la sentenza?
R: C’era grande tensione, ma l’ho sentita molto soddisfatta, come era giusto che fosse. Il suo lavoro fatto con competenza e coraggio ha portato a questo risultato e la sua soddisfazione è stata anche la mia, che guido la redazione, e di tutto il giornale.
D: Dott. Costantini com’è lavorare con una professionista che ad oggi ha un grande seguito sui social, ha una grande notorietà, ha ricevuto innumerevoli riconoscimenti per il lavoro svolto e per il coraggio che la contraddistingue?
R: Federica Angeli ha un carattere forte, è una persona solare, malgrado la situazione difficile che la riguarda. Non dimentichiamo che vive sotto scorta, che non è solo una giornalista di Repubblica, ma è anche una madre, pertanto la situazione è doppiamente difficile. Si lavora insieme con sinergia e con una perfetta gestione dei ruoli.


D: Mi viene da chiederle quanto importanti siano secondo lei, le inchieste come quella condotta dalla Angeli su Ostia, quanto importante siano sia per un giornale come Repubblica, che per il lettore.
R: Bella, domanda. Rispondo dicendole che non è solo importante; è corroborante, è un vero e proprio “carburante” per il lavoro che facciamo dedito alla notizia, alla verità e alla capacità che questi risultati hanno, di cambiare le cose. Inchieste svolte così come ha fatto Federica Angeli, danno proprio la misura dell’importanza del giornale, in un momento come questo, nel quale si legge meno, ma l’informazione è sempre più importante. Questi risultati, queste sentenze, servono a togliere ogni dubbio sull’importanza di fare bene questo lavoro, semmai qualche collega abbia ancora qualche dubbio. E poi non ci dimentichiamo che questi risultati possono davvero fare la differenza. Sono fondamentali per il cittadino, che può sentirsi incoraggiato a collaborare per la giustizia, comprendendo l’importanza della denuncia.
D: Dott. Costantini, lo sguardo sui fatti di Ostia dunque, è sempre stato molto alto, vero?
R: Verissimo. Come giornale siamo stati sempre sulla notizia, come nel caso della marcia contro la proroga del commissariamento del X Municipio, marcia nella quale hanno sfilato contemporaneamente i militanti di destra e di sinistra. E abbiamo preso una posizione forte, sulla vicenda, così come si evince dalla cronaca che abbiamo raccontato.
Ho ringraziato il Dott. Stefano Costantini per aver risposto alle mie domande per il Sicilia24h.it e dopo avergli augurato buon lavoro, ho realizzato quanto sia importante che alla guida di una redazione ci sia la persona giusta, che con competenza e lucidità mediatica gestisca giornalisti che, come Federica Angeli, ogni giorno danno l’esempio di come si possano “cambiare le cose”, così come il Dott. Costantini ci ha raccontato.
Simona Stammelluti

Ha vinto la verità, ha vinto la giustizia, ha vinto Federica Angeli e la sua tenacia.
Sono stati tutti condannati con l’aggravante dell’articolo 7 del “metodo mafioso” gli imputati nel processo di primo grado, circa l’illecita gestione degli appalti pubblici e della concessione degli stabilimenti balneari del litorale di Ostia

Sono passati più di tre anni da quando nella primavera del 2013, la giornalista di Repubblica, Federica Angeli – nota alle cronache per essere una testimone scomoda per la mafia e che a tutt’oggi vive sotto scorta – denunciava attraverso la sua inchiesta, coloro che oggi sono stati condannati con l’aggravante del metodo mafioso.
Condannato a 5 anni ed 8 mesi, Armando Spada, esponente dell’omonimo clan.
La pena maggiore, 8 anni e 6 mesi di reclusione, i giudici l’hanno inflitta ad Aldo Papalini,  ex direttore dell’ufficio tecnico del XIII Municipio, ritenuto il personaggio chiave dell’affidamento degli appalti pubblici a ditte compiacenti, per il quale i magistrati dell’accusa avevano chiesto una condanna a 17 anni e 6 mesi di reclusione.

Condannati anche Cosimo Appeso, luogotenente della Marina Militare a 5 anni e 5 mesi, sua moglie Matilde Magni e Damiano Facioni amministratore della società Bludream, entrambi condannati a 4 anni e 4 mesi. E poi ancora  8 mesi con pena sospesa, all’Imprenditore Angelo Salzano.

Gli imputati erano stati rinviati a giudizio per reati che andavano dall’abuso d’ufficio alla turbativa d’asta, dal falso ideologico e concussione, alla corruzione, in diversi casi con l’aggravante del metodo mafioso.

Questi nomi in questi anni, sono stati fatti “forti e chiari” da Federica Angeli, che non ha avuto mai paura di andare fino in fondo, scavando in quello che poi si è rivelata essere una storia di malaffare, gestita all’ombra della criminalità organizzata, una storia fatta di illeciti sia nella gestione degli appalti, che nelle concessioni balneari. Lei, la Angeli che senza paura denunciava come il litorale di Ostia, fosse in mano alle cosche. E quelle parole che rimbombano da oggi nelle nostre orecchie e ci raccontano la verità e che sono “metodo mafioso”, non l’hanno mai spaventata, o meglio, l’hanno incoraggiata ancor più a dire, “io non mollo, io vado fino in fondo”, anche quando le fu detto “io ti sparo in testa”.

In questi anni, l’inchiesta svolta dalla coraggiosa giornalista di Repubblica è stata un vero e proprio punto fermo, che nessuno ha saputo e potuto mettere a tacere, neanche le minacce a lei stessa rivolte o forse dovremmo dire, “da lei subite”.

Federica Angeli era partita da una intercettazione avvenuta nel municipio di Ostia, dalla quale si evinceva che Armando Spada chiedeva apertamente al direttore dell’ufficio tecnico, di consegnargli un chiosco. Gli venne invece concesso uno stabilimento balneare e per lei questa era la prova di quanto si fossero spinti “oltre”. Gli Spada avevano già tante panetterie, tante sale scommesse che gestivano, gli autolavaggi, ma quell’affaccio sul mare fu per lei la prova che tutto quello che possedevano lo avevano ottenuto con il placet della politica e dell’amministrazione e pertanto, bisognava assolutamente andare avanti.

Si è andati avanti, prima con la coraggiosa denuncia, con gli avvisi di garanzia notificati nel dicembre dello stesso 2013, e con la condanna di oggi, che inchioda i colpevoli alle loro responsabilità.

“Metodo mafioso” … aveva ragione Federica Angeli, aveva in mano la verità e non l’ha barattata con la vita. Perché si può anche avere paura, ma la forza che ed il coraggio che lei ha alimentato costantemente in questi anni, le ha consegnato a piene mani questa sentenza.

Simona Stammelluti


Ha vinto la verità, ha vinto la giustizia, ha vinto Federica Angeli e la sua tenacia.
Sono stati tutti condannati con l’aggravante dell’articolo 7 del “metodo mafioso” gli imputati nel processo di primo grado, circa l’illecita gestione degli appalti pubblici e della concessione degli stabilimenti balneari del litorale di Ostia
Sono passati più di tre anni da quando nella primavera del 2013, la giornalista di Repubblica, Federica Angeli – nota alle cronache per essere una testimone scomoda per la mafia e che a tutt’oggi vive sotto scorta – denunciava attraverso la sua inchiesta, coloro che oggi sono stati condannati con l’aggravante del metodo mafioso.
Condannato a 5 anni ed 8 mesi, Armando Spada, esponente dell’omonimo clan.
La pena maggiore, 8 anni e 6 mesi di reclusione, i giudici l’hanno inflitta ad Aldo Papalini,  ex direttore dell’ufficio tecnico del XIII Municipio, ritenuto il personaggio chiave dell’affidamento degli appalti pubblici a ditte compiacenti, per il quale i magistrati dell’accusa avevano chiesto una condanna a 17 anni e 6 mesi di reclusione.
Condannati anche Cosimo Appeso, luogotenente della Marina Militare a 5 anni e 5 mesi, sua moglie Matilde Magni e Damiano Facioni amministratore della società Bludream, entrambi condannati a 4 anni e 4 mesi. E poi ancora  8 mesi con pena sospesa, all’Imprenditore Angelo Salzano.
Gli imputati erano stati rinviati a giudizio per reati che andavano dall’abuso d’ufficio alla turbativa d’asta, dal falso ideologico e concussione, alla corruzione, in diversi casi con l’aggravante del metodo mafioso.
Questi nomi in questi anni, sono stati fatti “forti e chiari” da Federica Angeli, che non ha avuto mai paura di andare fino in fondo, scavando in quello che poi si è rivelata essere una storia di malaffare, gestita all’ombra della criminalità organizzata, una storia fatta di illeciti sia nella gestione degli appalti, che nelle concessioni balneari. Lei, la Angeli che senza paura denunciava come il litorale di Ostia, fosse in mano alle cosche. E quelle parole che rimbombano da oggi nelle nostre orecchie e ci raccontano la verità e che sono “metodo mafioso”, non l’hanno mai spaventata, o meglio, l’hanno incoraggiata ancor più a dire, “io non mollo, io vado fino in fondo”, anche quando le fu detto “io ti sparo in testa”.
In questi anni, l’inchiesta svolta dalla coraggiosa giornalista di Repubblica è stata un vero e proprio punto fermo, che nessuno ha saputo e potuto mettere a tacere, neanche le minacce a lei stessa rivolte o forse dovremmo dire, “da lei subite”.
Federica Angeli era partita da una intercettazione avvenuta nel municipio di Ostia, dalla quale si evinceva che Armando Spada chiedeva apertamente al direttore dell’ufficio tecnico, di consegnargli un chiosco. Gli venne invece concesso uno stabilimento balneare e per lei questa era la prova di quanto si fossero spinti “oltre”. Gli Spada avevano già tante panetterie, tante sale scommesse che gestivano, gli autolavaggi, ma quell’affaccio sul mare fu per lei la prova che tutto quello che possedevano lo avevano ottenuto con il placet della politica e dell’amministrazione e pertanto, bisognava assolutamente andare avanti.
Si è andati avanti, prima con la coraggiosa denuncia, con gli avvisi di garanzia notificati nel dicembre dello stesso 2013, e con la condanna di oggi, che inchioda i colpevoli alle loro responsabilità.
“Metodo mafioso” … aveva ragione Federica Angeli, aveva in mano la verità e non l’ha barattata con la vita. Perché si può anche avere paura, ma la forza che ed il coraggio che lei ha alimentato costantemente in questi anni, le ha consegnato a piene mani questa sentenza.
Simona Stammelluti


In nottata, il personale del Nucleo Investigativo Carabinieri di Cosenza, guidati dal Capitano Giuseppe Sacco, hanno tratto in arresto MARSICO Walter Gianluca, classe 1967, irreperibile dallo scorso 20 aprile 2016, poiché sottrattosi alla sentenza a 30 anni di carcere emessa dalla Cassazione per l’omicidio di Vittorio Marchio avvenuto nel 1999.
Marsico, già ritenuto dagli inquirenti elemento di spicco della cosca di ‘ndrangheta “Lanzino” di Cosenza, è stato sorpreso all’interno di un residence di Rende, in provincia di Cosenza.
Fermato dagli inquirenti anche un uomo, ritenuto presunto “vivandiere” del ricercato.
Le indagini, che sono state coordinate dalla DDA di Catanzaro – Dr. Falvo – hanno così permesso di infliggere un ulteriore duro colpo, alla criminalità organizzata del capoluogo bruzio.
Simona Stammelluti

Si è tenuta stamani presso il Tribunale di Castrovillari (Cs) davanti al Gip Letizia Benigno, l’udienza di opposizione all’archiviazione chiesta per i tre carabinieri indagati per l’omicidio colposo per la morte del  29enne Vincenzo Sapia, avvenuta il 24 maggio del 2014 a Mirto Crosia, un piccolo paese del litorale ionico cosentino.

In aula la famiglia Sapia al completo, i genitori di Vincenzo, le sue sorelle ed il fratello, perché questo è senza dubbio un momento importante e delicato della vicenda che ha visto il loro caro morire in circostanza ancora non del tutto chiare.

In aula l’avvocato Fabio Anselmo ed insieme a lui l’avvocato Alessandra Pisa, che durante l’udienza hanno esposto in maniera esaustiva e con incisività le motivazione dell’opposizione all’archiviazione e della necessità di andare invece in sede dibattimentale.

Diversi i passaggi salienti dell’avvocato Fabio Anselmo mirati a far luce sui temi medico-legale, sull’uguaglianza di tutti davanti alla legge penale, sui diritti dell’uomo, sull’importanza della prova oltre ogni ragionevole dubbio, sulle contraddizioni del medico legale, sul fatto che Vincenzo Sapia non avesse commesso nessun reato che richiedesse il fermo o l’arresto, sul fatto che contro il giovane era stata usata una forma di violenza.

La vittima era conosciuta come un ragazzo pacifico, con nessun precedente né atto di violenza pregressa. Aveva solo un problema psichico Vincenzo, ma – come ha detto l’avvocato Anselmo, durante l’udienza –  “pazzo e diverso, non deve significare pericoloso“.

I consulenti medico-legali hanno espresso opinioni contrastanti circa la morte di Vincenzo Sapia. Non sarebbe avvenuta per motivi cardiaci, ma per motivi di ipossia, ossia di mancanza di ossigeno.

Il cuore di Vincenzo si è fermato ma non per infarto, poiché non vi erano segni o lesioni di quella causa, sul suo cuore.
Sarebbe dunque da capire se i comportamenti dei tre militari possano essere anche “concausalmente correlati alla morte del Sapia“.

Non si può basarsi solo su quanto dicono i testimoni, non si può chiedere a loro come è morto Vincenzo Sapia” – dice l’avvocato Anselmo.

Vincenzo non era drogato, non era ubriaco, non aveva nessuna responsabilità circa il suo comportamento del momento, non aveva commesso nessun crimine, aveva solo forzato un portoncino di un condominio in cerca del suo cagnolino.

Secondo l’avvocato Anselmo dunque, anche solo le relazioni di servizio dei Carabinieri con i fatti in esse raccontati, sarebbero sufficienti a radicare un processo.

E’stata l’avvocato Alessandra Pisa a sottolineare come il Sapia sarebbe stato afferrato per il collo, trattenuto per i capelli, gli sarebbe stato appoggiato un piede sulla schiena, e dunque ci sarebbe stata una violazione della regola di condotta da parte dei militari.

Sarebbe importante, secondo l’avvocato Pisa, anche l’acquisizione e l’ascolto delle registrazioni delle telefonate fatte al 112 e al 118, per sentire tutto quello che accadeva intorno al Sapia, in quei minuti che hanno poi portato alla sua morte.

La controparte, in udienza ha invece sostenuto che la causa della morte della vittima è di natura cardiaca, così come si evincerebbe da alcune delle perizie effettuate e che il comportamento dei militari intervenuti quel 24 maggio sarebbero stati consoni rispetto ad “un’azione inconsulta del Sapia“.

Il giudice Benigno si è riservato di decidere in merito alla richiesta di opposizione all’archiviazione, e pertanto ad oggi non resta che attendere la decisione del Gip. Attenderanno la decisione con la dignità e la compostezza che li contraddistingue, i familiari di Vincenzo Sapia, che possono vantare un avvocato che al primo posto mette il diritto dell’essere umano, di essere difeso da coloro che forse, non hanno saputo farlo.

Perché come Fabio Anselmo ha detto con enfasi e fermezza “se i carabinieri non fossero intervenuti, se si fosse approcciato al ragazzo che tutti conoscevano come sempre si era fatto, forse lui sarebbe ancora vivo, e noi non saremmo qui”.

Simona Stammelluti


Si è tenuta stamani presso il Tribunale di Castrovillari (Cs) davanti al Gip Letizia Benigno, l’udienza di opposizione all’archiviazione chiesta per i tre carabinieri indagati per l’omicidio colposo per la morte del  29enne Vincenzo Sapia, avvenuta il 24 maggio del 2014 a Mirto Crosia, un piccolo paese del litorale ionico cosentino.
In aula la famiglia Sapia al completo, i genitori di Vincenzo, le sue sorelle ed il fratello, perché questo è senza dubbio un momento importante e delicato della vicenda che ha visto il loro caro morire in circostanza ancora non del tutto chiare.

In aula l’avvocato Fabio Anselmo ed insieme a lui l’avvocato Alessandra Pisa, che durante l’udienza hanno esposto in maniera esaustiva e con incisività le motivazione dell’opposizione all’archiviazione e della necessità di andare invece in sede dibattimentale.
Diversi i passaggi salienti dell’avvocato Fabio Anselmo mirati a far luce sui temi medico-legale, sull’uguaglianza di tutti davanti alla legge penale, sui diritti dell’uomo, sull’importanza della prova oltre ogni ragionevole dubbio, sulle contraddizioni del medico legale, sul fatto che Vincenzo Sapia non avesse commesso nessun reato che richiedesse il fermo o l’arresto, sul fatto che contro il giovane era stata usata una forma di violenza.
La vittima era conosciuta come un ragazzo pacifico, con nessun precedente né atto di violenza pregressa. Aveva solo un problema psichico Vincenzo, ma – come ha detto l’avvocato Anselmo, durante l’udienza –  “pazzo e diverso, non deve significare pericoloso“.
I consulenti medico-legali hanno espresso opinioni contrastanti circa la morte di Vincenzo Sapia. Non sarebbe avvenuta per motivi cardiaci, ma per motivi di ipossia, ossia di mancanza di ossigeno.

Il cuore di Vincenzo si è fermato ma non per infarto, poiché non vi erano segni o lesioni di quella causa, sul suo cuore.
Sarebbe dunque da capire se i comportamenti dei tre militari possano essere anche “concausalmente correlati alla morte del Sapia“.
Non si può basarsi solo su quanto dicono i testimoni, non si può chiedere a loro come è morto Vincenzo Sapia” – dice l’avvocato Anselmo.
Vincenzo non era drogato, non era ubriaco, non aveva nessuna responsabilità circa il suo comportamento del momento, non aveva commesso nessun crimine, aveva solo forzato un portoncino di un condominio in cerca del suo cagnolino.
Secondo l’avvocato Anselmo dunque, anche solo le relazioni di servizio dei Carabinieri con i fatti in esse raccontati, sarebbero sufficienti a radicare un processo.
E’stata l’avvocato Alessandra Pisa a sottolineare come il Sapia sarebbe stato afferrato per il collo, trattenuto per i capelli, gli sarebbe stato appoggiato un piede sulla schiena, e dunque ci sarebbe stata una violazione della regola di condotta da parte dei militari.
Sarebbe importante, secondo l’avvocato Pisa, anche l’acquisizione e l’ascolto delle registrazioni delle telefonate fatte al 112 e al 118, per sentire tutto quello che accadeva intorno al Sapia, in quei minuti che hanno poi portato alla sua morte.
La controparte, in udienza ha invece sostenuto che la causa della morte della vittima è di natura cardiaca, così come si evincerebbe da alcune delle perizie effettuate e che il comportamento dei militari intervenuti quel 24 maggio sarebbero stati consoni rispetto ad “un’azione inconsulta del Sapia“.
Il giudice Benigno si è riservato di decidere in merito alla richiesta di opposizione all’archiviazione, e pertanto ad oggi non resta che attendere la decisione del Gip. Attenderanno la decisione con la dignità e la compostezza che li contraddistingue, i familiari di Vincenzo Sapia, che possono vantare un avvocato che al primo posto mette il diritto dell’essere umano, di essere difeso da coloro che forse, non hanno saputo farlo.
Perché come Fabio Anselmo ha detto con enfasi e fermezza “se i carabinieri non fossero intervenuti, se si fosse approcciato al ragazzo che tutti conoscevano come sempre si era fatto, forse lui sarebbe ancora vivo, e noi non saremmo qui”.
Simona Stammelluti

Il teatro è un mondo meraviglioso capace di divenire magico se solo lo si guarda con gli occhi dei bambini, anche se si è adulti. E incuriosire ed appassionare i più giovani è una delle sfide più significative per chi di teatro vive, per chi lo ama e lo sostiene malgrado i periodi difficili per il settore.

Eppure la compagnia del Teatro dell’Acquario di Cosenza guidata da Antonello Antonante e da Dora Ricca, è sempre pronta a nuove sfide, che mettono al centro proprio i giovani e le famiglie, ospiti d’onore di iniziative e spettacoli teatrali come quello in scena in questi giorni al Teatro Morelli di Cosenza dal titolo “Odissea“, liberamente ispirato all’omonima opera omerica, e riadattata proprio per un pubblico giovane, che ha delle precise necessità quando approccia alle opere teatrali, che dunque devono avere non solo un linguaggio comprensibile, ma anche efficace ed accattivante.
In scena due attori giovani e talentuosi, Noemi Caruso (che ha curato anche le coreografie) e Francesco Pupa, entrambi dotati di ottima presenza scenica, di una dizione impeccabile e di versatilità espressiva, che da soli sul palco riescono a raccontare il poema nei suoi tratti più essenziali, con una grande energia e con la giusta intenzione.

La storia di chi vaga, dopo una guerra per far ritorno a casa è molto più attuale di quanto si possa immaginare; tanti moderni Ulisse tutti i giorni provano a raggiungere luoghi, solcando mari, alla ricerca di qualcosa più che con l’intento di tornare a casa. E chi non ha mai usato l’espressione: “è stato proprio un’odissea!”
Eppure la storia – così come viene raccontata nello spettacolo in scena la Teatro Morelli per i ragazzi della scuola primaria e secondaria di I grado – è coinvolgente, perché punta l’attenzione sulle avventure di Ulisse, sulle sfide che deve affrontare, sull’aspetto eroico dello stesso ma smorzando molto i toni epici, ed è proprio questo modo di raccontare la storia di Odisseo che i due attori catalizzano l’attenzione dei giovani presenti in platea.
L’efficacia dello spettacolo a mio avviso sta nella capacità di realizzare un’opera teatrale significativa con pochi mezzi, che però riescono a regalare al pubblico degli effetti “speciali” originali e a tratti sorprendenti.  Un telone sullo sfondo, che è allo stesso tempo vela di nave e porta magica che separa il protagonista e il suo equipaggio dalla narrazione, che mette in contatto Ulisse con le sue sfide estreme ed avvincenti. E così nulla di supertecnologico è messo a disposizione dei ragazzi, ma la tecnica delle ombre, dei giochi di luce e di effetti sonori che coinvolgono e trascinano lo spettatore lì, accanto al protagonista e al suo compagno di viaggio che è quasi un alter ego capace di divenire compagno di avventura e poi ancora colei che attende, che non si lascia sciupare dal tempo e dalla nostalgia.

La struttura narrativa ovviamente è stata ridotta e riadattata ma in maniera esemplare, consentendo sia a chi conosce già l’opera che a chi approccia ad essa per la prima volta di comprenderne i dettagli, di riconoscerne eventualmente i temi trattati e di coglierne soprattutto quei particolari che rendono la storia una opportunità di riflessione ed è proprio in questo che vince, chi l’ha pensata per i ragazzi. Il tema del viaggio, della curiosità che spinge a conoscere il mondo, l’accoglienza verso lo straniero ma soprattutto la tenacia del sopravvivere e il desiderio di far ritorno a casa.
Nessun videogioco potrebbe dare ai giovani le stesse emozioni provate in teatro nel vedere un affascinante Ulisse alle prese con Poseidone, Polifemo, Eolo, la Maga Circe, le sirene, Scilla e Cariddi, e poi ancora trasformato in mendicante dalla dea Atena. Un intreccio della storia che appare fluida ed appagante.

Un’ora di spettacolo, un ottimo esempio di come si possa fare il teatro con professionalità e competenza e se questo esperimento – perché il teatro è anche questo – è servito a mettere in circolo nuove passioni e voglia di tornare, allora a vincere è l’arte, la cultura, la voglia di non lasciarsi travolgere dallo sterile scorrere del tempo che prova a cancellare il talento. Si potrebbe fare molto, sostenendo iniziative come queste, ma fin quando ci saranno da una parte chi fa e propone, e dall’altro chi accoglie, allora l’arte del teatro sarà salva.
Mi aggrappai ad un pezzo di legno, come alla vita” – Ulisse

Simona Stammelluti

Il teatro è un mondo meraviglioso capace di divenire magico se solo lo si guarda con gli occhi dei bambini, anche se si è adulti. E incuriosire ed appassionare i più giovani è una delle sfide più significative per chi di teatro vive, per chi lo ama e lo sostiene malgrado i periodi difficili per il settore.

Eppure la compagnia del Teatro dell’Acquario di Cosenza guidata da Antonello Antonante e da Dora Ricca, è sempre pronta a nuove sfide, che mettono al centro proprio i giovani e le famiglie, ospiti d’onore di iniziative e spettacoli teatrali come quello in scena in questi giorni al Teatro Morelli di Cosenza dal titolo “Odissea“, liberamente ispirato all’omonima opera omerica, e riadattata proprio per un pubblico giovane, che ha delle precise necessità quando approccia alle opere teatrali, che dunque devono avere non solo un linguaggio comprensibile, ma anche efficace ed accattivante.

In scena due attori giovani e talentuosi, Noemi Caruso (che ha curato anche le coreografie) e Francesco Pupa, entrambi dotati di ottima presenza scenica, di una dizione impeccabile e di versatilità espressiva, che da soli sul palco riescono a raccontare il poema nei suoi tratti più essenziali, con una grande energia e con la giusta intenzione.

La storia di chi vaga, dopo una guerra per far ritorno a casa è molto più attuale di quanto si possa immaginare; tanti moderni Ulisse tutti i giorni provano a raggiungere luoghi, solcando mari, alla ricerca di qualcosa più che con l’intento di tornare a casa. E chi non ha mai usato l’espressione: “è stato proprio un’odissea!”

Eppure la storia – così come viene raccontata nello spettacolo in scena la Teatro Morelli per i ragazzi della scuola primaria e secondaria di I grado – è coinvolgente, perché punta l’attenzione sulle avventure di Ulisse, sulle sfide che deve affrontare, sull’aspetto eroico dello stesso ma smorzando molto i toni epici, ed è proprio questo modo di raccontare la storia di Odisseo che i due attori catalizzano l’attenzione dei giovani presenti in platea.

L’efficacia dello spettacolo a mio avviso sta nella capacità di realizzare un’opera teatrale significativa con pochi mezzi, che però riescono a regalare al pubblico degli effetti “speciali” originali e a tratti sorprendenti.  Un telone sullo sfondo, che è allo stesso tempo vela di nave e porta magica che separa il protagonista e il suo equipaggio dalla narrazione, che mette in contatto Ulisse con le sue sfide estreme ed avvincenti. E così nulla di supertecnologico è messo a disposizione dei ragazzi, ma la tecnica delle ombre, dei giochi di luce e di effetti sonori che coinvolgono e trascinano lo spettatore lì, accanto al protagonista e al suo compagno di viaggio che è quasi un alter ego capace di divenire compagno di avventura e poi ancora colei che attende, che non si lascia sciupare dal tempo e dalla nostalgia.

La struttura narrativa ovviamente è stata ridotta e riadattata ma in maniera esemplare, consentendo sia a chi conosce già l’opera che a chi approccia ad essa per la prima volta di comprenderne i dettagli, di riconoscerne eventualmente i temi trattati e di coglierne soprattutto quei particolari che rendono la storia una opportunità di riflessione ed è proprio in questo che vince, chi l’ha pensata per i ragazzi. Il tema del viaggio, della curiosità che spinge a conoscere il mondo, l’accoglienza verso lo straniero ma soprattutto la tenacia del sopravvivere e il desiderio di far ritorno a casa.

Nessun videogioco potrebbe dare ai giovani le stesse emozioni provate in teatro nel vedere un affascinante Ulisse alle prese con Poseidone, Polifemo, Eolo, la Maga Circe, le sirene, Scilla e Cariddi, e poi ancora trasformato in mendicante dalla dea Atena. Un intreccio della storia che appare fluida ed appagante.

Un’ora di spettacolo, un ottimo esempio di come si possa fare il teatro con professionalità e competenza e se questo esperimento – perché il teatro è anche questo – è servito a mettere in circolo nuove passioni e voglia di tornare, allora a vincere è l’arte, la cultura, la voglia di non lasciarsi travolgere dallo sterile scorrere del tempo che prova a cancellare il talento. Si potrebbe fare molto, sostenendo iniziative come queste, ma fin quando ci saranno da una parte chi fa e propone, e dall’altro chi accoglie, allora l’arte del teatro sarà salva.

Mi aggrappai ad un pezzo di legno, come alla vita” – Ulisse

Simona Stammelluti


Le date, le ricorrenze, quel potere forte che hanno le date di nascita, ma anche di morte, quando si ricordano uomini che sono vissuti come eroi ma senza saperlo, eroi come uomini tra gli uomini, come piccole macchine da guerra alimentate a dignità, verità, rispetto della giustizia, e coraggio.
Peppino Impastato vive nelle scelte di chi – così come fece lui – prende le distanze dal mondo mafioso, promuove attività culturali e musicali, in chi crede nel valore dell’informazione fatta senza omertà, senza servilismi, sfidando i poteri forti della mafia.
Peppino Impastato vive negli uomini e nelle donne che ancora sanno stupirsi, che non si arrendono all’abitudine e che non si rassegnano, perché rassegnarsi è come morire lentamente di stenti emotivi, mentre si ingurgitano bocconi amari di realtà irrancidita e andata a male, fatta di speculazione e di orrore.
Sembra facile raccontare Peppino Impastato, ma non lo è. Si può facilmente raccontare la sua vita, ma ci vuole forza e coraggio per raccontare come ha vissuto, cosa gli si muoveva dentro in quelli che furono anni particolari e crudi.
Gli toccò morire nello stesso giorno in cui fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro, e il suo assassinio fu praticamente oscurato da quell’accadimento.
Un giornalista, siciliano, ucciso nella notte tra l’8 e il 9 di maggio del 1978 Il suo cadavere venne fatto poi saltare sui binari della tratta Palermo-Trapani.
I depistaggi sulla sua morte fecero scandalo, ma solo molto tempo dopo. Fu la mamma di Peppino, che fece emergere la matrice mafiosa circa la morte di colui che fu un uomo che combatté la mafia perché la conosceva da vicino, proveniva da una famiglia mafiosa.
Nella vita lo “salvò” – sembra quasi un eufemismo dirlo – la curiosità, la scoperta della dimensione dell’impegno politico, le battaglie di carattere sociale intraprese, e poi ancora l’esperienza derivante dalla cultura e dalla musica, il sostegno alla libertà delle donne, tutti valori ed esperienze che anche oggi, potrebbero “salvare” le nuove generazioni, tirandole fuori dall’imbruttimento di chi non si meraviglia più di nulla, di chi cerca scorciatoie, di chi resta a guardare.
Un destino segnato, il suo. Il destino di chi per la prima volta fa nomi e cognomi, senza reticenze, rompendo il tabù dell’intoccabilità dei mafiosi in un paese dove la gente si inchinava ancora al passaggio dei boss e che sapeva che non era prudente, pronunciare determinati nomi.
Il cinema, la musica si sono ispirati alla vita di quel piccolo grande uomo, simbolo di chi ha ideali e per quelli lotta.
Non nasce un Peppino Impastato proprio tutti i giorni, e di questi tempi  ce ne sarebbe davvero bisogno di persone che abbiano il coraggio e la voglia di resistere, di lottare e di gridare che la mafia “é una montagna di merda”.
Il 5 gennaio è un giorno sacro, nel quale ricordare colui che vivendo ci insegnò che “nessuno ci vendicherà, perché la nostra pena non ha testimoni“.
Simona Stammelluti

Photo Stefania De Cindio

Azzardare un paragone con cantautori come Fossati, De Andrè, De Gregori, Conte, Lauzi, sarebbe probabilmente fuori luogo, ma a mio avviso Niccolò Fabi rappresenta la “nuova-buona” generazione cantautorale che insieme a Gazzè, Silvestri, Bersani, consegna testi degni di nota e sonorità che vengono fuori dal loro essere musicisti (e a volte anche polistrumentisti) prima ancora che cantanti. Perché diciamolo, perdoniamo loro anche qualche imperfezione nell’intonazione vocale, se il prodotto finito è un pezzo per esempio come “Evaporare” tratto da “Novo Mesto” quello che è – a mio avviso – il miglior album del cantautore romano, che sull’equilibrio tra parole e musica, ha fondato la sua carriera, curando i testi quasi in maniera maniacale, dotato com’è di quella capacità di maneggiare le parole con esperienza e confidenza.

Lui, Fabi, con il quale qualche anno fa, ebbi il piacere di chiacchierare un po’ sulla semplicità delle cose che la vita ci offre ogni giorno, malgrado le “molestie del destino”. E così anche una semplice passeggiata con il proprio cane, diventa per lui, una buona opportunità per essere felici.

Sono passati tre anni, da quel concerto visto all’Auditorium della Conciliazione a Roma e riascoltarlo ieri sera, al Teatro Rendano di Cosenza, in occasione di uno dei tanti concerti di beneficenza organizzato in onore di Lilli dalla fondazione “Lilli Funaro”,  è stato senza dubbio una rinnovata emozione, che mi lega al cantautore e che mi pone nella condizione scomoda, anche, di raccontare tanto le cose che mi sono piaciute, quanto quelle che non sono state proprio come io le aspettassi.

Photo Stefania De Cindio

Ha ragione Niccolò Fabi quando sostiene – così come ha fatto ieri sera – che il suonare in un teatro unito al buon intento di un’iniziativa, divengono caratteristiche capaci di fare la differenza. Perché senza dubbio è un susseguirsi di volontà proprie e non manageriali quelle che spingono un grande artista ad accettare di suonare per un evento benefico, come la raccolta fondi che la Fondazione Funaro realizza da ormai 12 anni, e con le cui somme premia i nuovi ricercatori nel campo oncologico, tutto in onore di Lilli, prematuramente scomparsa.

La prima cosa che salta subito alla mia attenzione, è che il teatro non è certo pieno di soli fans come accade spesso nelle date del fortunato Tour del cantautore, ma la solidarietà vince, e questo è un dettaglio non trascurabile per la città di Cosenza, nella quale non sempre si è invitati ad eventi di spessore. Eppure il pubblico canta e risponde con entusiasmo quando viene travolto dai pezzi famosi di Fabi, che hanno la caratteristica singolare di essere orecchiabili, senza essere mai banali. E allora a vincere è la musica, è la forza che la musica racchiude in se, ed è il condividere un momento di solidarietà, che rende magica una delle ultime sere dell’anno.

Lui, Niccolò Fabi, 48 anni, 20 anni di carriera, tanti album al suo attivo, tante collaborazioni fortunate, Targa Tenco portata a casa in questo 2016 nella sezione album dell’anno, con il suo ultimo lavoro discografico “Una somma di piccole cose“. Ed è proprio con il pezzo che dà il titolo all’album che inizia il suo concerto, insieme ai suoi musicisti (polistumentisti)  Damir Nefat, Filippo Cornaglia e Matteo Giai e ad Alberto Bianco, cautautore, al quale Fabi cede il palco sul finale, per permettergli di far ascoltare uno dei suoi pezzi.

Polistrumentisti, i suoi compagni di viaggio, capaci di essere bassisti e poi pianisti, chitarristi e poi percussionisti, ed ancora impeccabili nei cori che sostengono molti dei successi del cantautore. E’un artista che non si risparmia, Niccolò Fabi e suona e canta per oltre due ore, va avanti come un treno, regalando i pezzi del suo nuovo album proprio in apertura di concerto e così dopo “Una somma di piccole cose“, regala “Ha perso la città“, una sorta di fotografia dei giorni nostri, di ciò che è accaduto alle nostre città nella quali le costruzioni selvagge hanno tolto anche la possibilità di sentirsi tutti dalla stessa parte. E poi ancora “Facciamo finta” che emoziona per come racconta di un finto gioco nel quale le cose che fanno male, assumono un aspetto più clemente. “Facciamo finta che io mi addormento, e quando mi sveglio è tutto passato“.
Le sonorità di questo pezzo sono molto sofisticate, la batteria è in controtempo e le tre chitarre sono un tappeto perfetto.

Ho ascoltato ieri sera per la prima volta i pezzi tratti dal suo nuovo lavoro. Mi ero fermata all’album “Ecco“, del 2012, – vincitore anche questo del Premio Tenco del 2013 – che avevo molto apprezzato per quel senso di “umano” racchiuso nei testi, quel voler indagare nell’egoismo che appartiene un po’ a tutti, ma che tutti facciamo finta di non conoscere. E poi ancora come se fosse una sorta di urgenza, che finisce con un “Ecco, questo è quello che avevo da dire“. Anche le sonorità di quel lavoro discografico sono state particolari, considerato per esempio, l’utilizzo degli archi. Da questo album, sono venuti fuori durante il concerto, pezzi come “Elementare“, “Io“, in quella classica ed azzecata versione reggae e “Lontano da me“, che regala in chiusura di serata.

Colpisce come tranne in un caso, nel quale viene lasciato spazio ad un assolo di chitarra, ogni strumento durante il concerto ha il suo preciso spazio, molto omogeneo con il tessuto armonico. Dialoga con il pubblico di Cosenza, Fabi, racconta la gioia di essere in un teatro in cui non era mai stato, e poi ancora della volontà dei musicisti come lui, di suonare “sempre ed ovunque” ma anche dei meccanismi che dipendono invece, da coloro che decidono il “dove ed il quando”. Riconosco la scenografia e i bei giochi di luci, durante la serata, oltre all’ottimo audio che se da una parte è indispensabile per poter godere a pieno dell’ascolto, diviene una cassa di risonanza anche di eventuali imperfezioni canore, che un orecchio attento non fa fatica ad individuare.

Sembra esserci un vero spacco emozionale nel pubblico, quando Niccolò Fabi intona i suoi grandi successi. Da “E’ non è“, a “Vento d’estate” (scritta da Max Gazzè e Riccardo Sinigallia nel lontanto 1998), sulla quale il cantautore vocalizza con il pubblico, raccontando come il coro in una parte d’Italia è “mi sono perso“, nell’altra metà è “forse mi perdo“; lui ride, ed il suo pubblico con lui.  Ma è emozione anche durante “Oriente” e “Lasciarsi un giorno a Roma“, che regala al pubblico che la reclama, e poi la riceve in dono. Bello quello che lui stesso chiama il suo momento “Sentimental Mood“, seduto ad un piano elettrico. Prima di cantare parla dell’aspetto sentimentale delle sue canzoni, quello che parla sì di sentimenti, ma raramente delle dinamiche che si consumano tra due persone e questo – dice – “perché per le nuove generazioni temono il confronto con i grandi classici, che è sempre in agguato“. “Mimosa” spicca tra le altre, con quel testo così convinto, mentre la musica scorre fino a farti dimenticare di essere in mezzo a persone di cui disconosci il nome. Ho apprezzato molto anche “Le chiavi di casa“, tratto dall’ultima sua fatica discografica. Ho apprezzato l’arrangiamento che vede le chitarre in netto crescendo, che si sovrappongono tenendo ognuna il proprio tempo, e che si fermano di botto sul finale, senza sbavature.

Forse l’album “Novo Mesto” non è solo il mio preferito, ma anche degli appassionati presenti in teatro ieri sera, che in maniera molto suggestiva e suadente, hanno cantato “Costruire” insieme al loro idolo mentre quel “Cadrà la neve” finale, ha fatto risuonare brividi, provenienti da chissà quale passate emozioni.

Che aggiungere … se l’intento di Niccolò Fabi  – che si è esibito malgrado fosse vittima di un’influenza e al quale perdoniamo qualche imperfezione di poco conto – era quella di “ricordare, celebrare, suonare, costruire“, direi che si è “celebrato e ricordato” nella maniera migliore possibile, ieri sera al teatro Rendano durante il concerto per Lilli. Quanto al “costruire“, lo ringraziamo per averci insegnato che si può rinunciare alla perfezione, regalando al mondo, un pezzo di se.

Simona Stammelluti

Si ringrazia Stefania De Cindio per aver concesso le foto dell’evento al Sicilia24h