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Le date, le ricorrenze, quel potere forte che hanno le date di nascita, ma anche di morte, quando si ricordano uomini che sono vissuti come eroi ma senza saperlo, eroi come uomini tra gli uomini, come piccole macchine da guerra alimentate a dignità, verità, rispetto della giustizia, e coraggio.
Peppino Impastato vive nelle scelte di chi – così come fece lui – prende le distanze dal mondo mafioso, promuove attività culturali e musicali, in chi crede nel valore dell’informazione fatta senza omertà, senza servilismi, sfidando i poteri forti della mafia.
Peppino Impastato vive negli uomini e nelle donne che ancora sanno stupirsi, che non si arrendono all’abitudine e che non si rassegnano, perché rassegnarsi è come morire lentamente di stenti emotivi, mentre si ingurgitano bocconi amari di realtà irrancidita e andata a male, fatta di speculazione e di orrore.
Sembra facile raccontare Peppino Impastato, ma non lo è. Si può facilmente raccontare la sua vita, ma ci vuole forza e coraggio per raccontare come ha vissuto, cosa gli si muoveva dentro in quelli che furono anni particolari e crudi.
Gli toccò morire nello stesso giorno in cui fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro, e il suo assassinio fu praticamente oscurato da quell’accadimento.
Un giornalista, siciliano, ucciso nella notte tra l’8 e il 9 di maggio del 1978 Il suo cadavere venne fatto poi saltare sui binari della tratta Palermo-Trapani.
I depistaggi sulla sua morte fecero scandalo, ma solo molto tempo dopo. Fu la mamma di Peppino, che fece emergere la matrice mafiosa circa la morte di colui che fu un uomo che combatté la mafia perché la conosceva da vicino, proveniva da una famiglia mafiosa.
Nella vita lo “salvò” – sembra quasi un eufemismo dirlo – la curiosità, la scoperta della dimensione dell’impegno politico, le battaglie di carattere sociale intraprese, e poi ancora l’esperienza derivante dalla cultura e dalla musica, il sostegno alla libertà delle donne, tutti valori ed esperienze che anche oggi, potrebbero “salvare” le nuove generazioni, tirandole fuori dall’imbruttimento di chi non si meraviglia più di nulla, di chi cerca scorciatoie, di chi resta a guardare.
Un destino segnato, il suo. Il destino di chi per la prima volta fa nomi e cognomi, senza reticenze, rompendo il tabù dell’intoccabilità dei mafiosi in un paese dove la gente si inchinava ancora al passaggio dei boss e che sapeva che non era prudente, pronunciare determinati nomi.
Il cinema, la musica si sono ispirati alla vita di quel piccolo grande uomo, simbolo di chi ha ideali e per quelli lotta.
Non nasce un Peppino Impastato proprio tutti i giorni, e di questi tempi  ce ne sarebbe davvero bisogno di persone che abbiano il coraggio e la voglia di resistere, di lottare e di gridare che la mafia “é una montagna di merda”.
Il 5 gennaio è un giorno sacro, nel quale ricordare colui che vivendo ci insegnò che “nessuno ci vendicherà, perché la nostra pena non ha testimoni“.
Simona Stammelluti

Photo Stefania De Cindio

Azzardare un paragone con cantautori come Fossati, De Andrè, De Gregori, Conte, Lauzi, sarebbe probabilmente fuori luogo, ma a mio avviso Niccolò Fabi rappresenta la “nuova-buona” generazione cantautorale che insieme a Gazzè, Silvestri, Bersani, consegna testi degni di nota e sonorità che vengono fuori dal loro essere musicisti (e a volte anche polistrumentisti) prima ancora che cantanti. Perché diciamolo, perdoniamo loro anche qualche imperfezione nell’intonazione vocale, se il prodotto finito è un pezzo per esempio come “Evaporare” tratto da “Novo Mesto” quello che è – a mio avviso – il miglior album del cantautore romano, che sull’equilibrio tra parole e musica, ha fondato la sua carriera, curando i testi quasi in maniera maniacale, dotato com’è di quella capacità di maneggiare le parole con esperienza e confidenza.

Lui, Fabi, con il quale qualche anno fa, ebbi il piacere di chiacchierare un po’ sulla semplicità delle cose che la vita ci offre ogni giorno, malgrado le “molestie del destino”. E così anche una semplice passeggiata con il proprio cane, diventa per lui, una buona opportunità per essere felici.

Sono passati tre anni, da quel concerto visto all’Auditorium della Conciliazione a Roma e riascoltarlo ieri sera, al Teatro Rendano di Cosenza, in occasione di uno dei tanti concerti di beneficenza organizzato in onore di Lilli dalla fondazione “Lilli Funaro”,  è stato senza dubbio una rinnovata emozione, che mi lega al cantautore e che mi pone nella condizione scomoda, anche, di raccontare tanto le cose che mi sono piaciute, quanto quelle che non sono state proprio come io le aspettassi.

Photo Stefania De Cindio

Ha ragione Niccolò Fabi quando sostiene – così come ha fatto ieri sera – che il suonare in un teatro unito al buon intento di un’iniziativa, divengono caratteristiche capaci di fare la differenza. Perché senza dubbio è un susseguirsi di volontà proprie e non manageriali quelle che spingono un grande artista ad accettare di suonare per un evento benefico, come la raccolta fondi che la Fondazione Funaro realizza da ormai 12 anni, e con le cui somme premia i nuovi ricercatori nel campo oncologico, tutto in onore di Lilli, prematuramente scomparsa.

La prima cosa che salta subito alla mia attenzione, è che il teatro non è certo pieno di soli fans come accade spesso nelle date del fortunato Tour del cantautore, ma la solidarietà vince, e questo è un dettaglio non trascurabile per la città di Cosenza, nella quale non sempre si è invitati ad eventi di spessore. Eppure il pubblico canta e risponde con entusiasmo quando viene travolto dai pezzi famosi di Fabi, che hanno la caratteristica singolare di essere orecchiabili, senza essere mai banali. E allora a vincere è la musica, è la forza che la musica racchiude in se, ed è il condividere un momento di solidarietà, che rende magica una delle ultime sere dell’anno.

Lui, Niccolò Fabi, 48 anni, 20 anni di carriera, tanti album al suo attivo, tante collaborazioni fortunate, Targa Tenco portata a casa in questo 2016 nella sezione album dell’anno, con il suo ultimo lavoro discografico “Una somma di piccole cose“. Ed è proprio con il pezzo che dà il titolo all’album che inizia il suo concerto, insieme ai suoi musicisti (polistumentisti)  Damir Nefat, Filippo Cornaglia e Matteo Giai e ad Alberto Bianco, cautautore, al quale Fabi cede il palco sul finale, per permettergli di far ascoltare uno dei suoi pezzi.

Polistrumentisti, i suoi compagni di viaggio, capaci di essere bassisti e poi pianisti, chitarristi e poi percussionisti, ed ancora impeccabili nei cori che sostengono molti dei successi del cantautore. E’un artista che non si risparmia, Niccolò Fabi e suona e canta per oltre due ore, va avanti come un treno, regalando i pezzi del suo nuovo album proprio in apertura di concerto e così dopo “Una somma di piccole cose“, regala “Ha perso la città“, una sorta di fotografia dei giorni nostri, di ciò che è accaduto alle nostre città nella quali le costruzioni selvagge hanno tolto anche la possibilità di sentirsi tutti dalla stessa parte. E poi ancora “Facciamo finta” che emoziona per come racconta di un finto gioco nel quale le cose che fanno male, assumono un aspetto più clemente. “Facciamo finta che io mi addormento, e quando mi sveglio è tutto passato“.
Le sonorità di questo pezzo sono molto sofisticate, la batteria è in controtempo e le tre chitarre sono un tappeto perfetto.

Ho ascoltato ieri sera per la prima volta i pezzi tratti dal suo nuovo lavoro. Mi ero fermata all’album “Ecco“, del 2012, – vincitore anche questo del Premio Tenco del 2013 – che avevo molto apprezzato per quel senso di “umano” racchiuso nei testi, quel voler indagare nell’egoismo che appartiene un po’ a tutti, ma che tutti facciamo finta di non conoscere. E poi ancora come se fosse una sorta di urgenza, che finisce con un “Ecco, questo è quello che avevo da dire“. Anche le sonorità di quel lavoro discografico sono state particolari, considerato per esempio, l’utilizzo degli archi. Da questo album, sono venuti fuori durante il concerto, pezzi come “Elementare“, “Io“, in quella classica ed azzecata versione reggae e “Lontano da me“, che regala in chiusura di serata.

Colpisce come tranne in un caso, nel quale viene lasciato spazio ad un assolo di chitarra, ogni strumento durante il concerto ha il suo preciso spazio, molto omogeneo con il tessuto armonico. Dialoga con il pubblico di Cosenza, Fabi, racconta la gioia di essere in un teatro in cui non era mai stato, e poi ancora della volontà dei musicisti come lui, di suonare “sempre ed ovunque” ma anche dei meccanismi che dipendono invece, da coloro che decidono il “dove ed il quando”. Riconosco la scenografia e i bei giochi di luci, durante la serata, oltre all’ottimo audio che se da una parte è indispensabile per poter godere a pieno dell’ascolto, diviene una cassa di risonanza anche di eventuali imperfezioni canore, che un orecchio attento non fa fatica ad individuare.

Sembra esserci un vero spacco emozionale nel pubblico, quando Niccolò Fabi intona i suoi grandi successi. Da “E’ non è“, a “Vento d’estate” (scritta da Max Gazzè e Riccardo Sinigallia nel lontanto 1998), sulla quale il cantautore vocalizza con il pubblico, raccontando come il coro in una parte d’Italia è “mi sono perso“, nell’altra metà è “forse mi perdo“; lui ride, ed il suo pubblico con lui.  Ma è emozione anche durante “Oriente” e “Lasciarsi un giorno a Roma“, che regala al pubblico che la reclama, e poi la riceve in dono. Bello quello che lui stesso chiama il suo momento “Sentimental Mood“, seduto ad un piano elettrico. Prima di cantare parla dell’aspetto sentimentale delle sue canzoni, quello che parla sì di sentimenti, ma raramente delle dinamiche che si consumano tra due persone e questo – dice – “perché per le nuove generazioni temono il confronto con i grandi classici, che è sempre in agguato“. “Mimosa” spicca tra le altre, con quel testo così convinto, mentre la musica scorre fino a farti dimenticare di essere in mezzo a persone di cui disconosci il nome. Ho apprezzato molto anche “Le chiavi di casa“, tratto dall’ultima sua fatica discografica. Ho apprezzato l’arrangiamento che vede le chitarre in netto crescendo, che si sovrappongono tenendo ognuna il proprio tempo, e che si fermano di botto sul finale, senza sbavature.

Forse l’album “Novo Mesto” non è solo il mio preferito, ma anche degli appassionati presenti in teatro ieri sera, che in maniera molto suggestiva e suadente, hanno cantato “Costruire” insieme al loro idolo mentre quel “Cadrà la neve” finale, ha fatto risuonare brividi, provenienti da chissà quale passate emozioni.

Che aggiungere … se l’intento di Niccolò Fabi  – che si è esibito malgrado fosse vittima di un’influenza e al quale perdoniamo qualche imperfezione di poco conto – era quella di “ricordare, celebrare, suonare, costruire“, direi che si è “celebrato e ricordato” nella maniera migliore possibile, ieri sera al teatro Rendano durante il concerto per Lilli. Quanto al “costruire“, lo ringraziamo per averci insegnato che si può rinunciare alla perfezione, regalando al mondo, un pezzo di se.

Simona Stammelluti

Si ringrazia Stefania De Cindio per aver concesso le foto dell’evento al Sicilia24h

Non ho visto il film “Dobbiamo Parlare” di Sergio Rubini, che ha poi ispirato la realizzazione del suo spettacolo teatrale in scena al Teatro Ambra Jovinelli di Roma sino a Domenica 11 dicembre, ma mentre assistevo alla prima di ieri, mi è venuto subito in mente il film “Carnage” di Roman Polanski del 2011, basato a sua volta sull’opera teatrale “Il Dio del massacro“, della scrittrice francese Yasmina Resa.

Mi sarebbe piaciuto a sipario chiuso, chiacchierare con Rubini per capire semmai ci fosse stata una qualche ispirazione che l’avesse condotto alla realizzazione del suo, di film, poi divenuto uno spettacolo teatrale che davanti al nome porta “Provando…Dobbiamo Parlare” e che – come lo stesso regista spiega in inizio di serata – altro non è che la “messa in scena” di ciò che era precedentemente accaduto durante la realizzazione del film, con tanto di interruzioni, proprio come accade sui set cinematografici.

Uno spettacolo teatrale dunque, scritto da Sergio Rubini (insieme a Carla Cavalluzzi e Diego De Silva) che ne cura anche la regia e che non rinuncia a tenere per se la parte del padrone di casa, che tira un po’ le fila di una storia non facile da gestire in un unico ambiente, quello di un appartamento in un attico che mostra qualche pecca di troppo, che deve accogliere le storie, le insofferenze, le fobie e le frustrazioni di due coppie, apparentemente diverse, con vizi e virtù sempre “sul filo del rasoio”, ma che messe alle strette da quella condizione che costringe i 4 protagonisti a condividere una serata che avrebbe dovuto avere altri connotati, non mancano di vomitare ogni malcontento ben celato negli anni, sino a giungere ad un vero punto di rottura, che sul finale dello spettacolo porta ad una sorta di capovolgimento della situazione iniziale.

Protagonisti della vicenda una coppia di medici in crisi, che chiedono accoglienza a casa dei loro due più cari amici, uno scrittore e la sua ghost writer, anche compagna di vita, uniti da un rapporto che sembra inossidabile, ma che rivela fragilità profonde, ben nascoste da un quotidiano che li vede uniti anche sul lavoro, seppur non totalmente capaci di guardare lo stesso orizzonte.

Bugie, mezze verità, incomprensioni a basso costo, consapevolezze che arrivano al momento opportuno – almeno per Costanza e Alfredo – sono il tessuto principale sul quale poggia la commedia teatrale, che vede un bravissimo Fabrizio Bentivoglio proprio nei panni del famoso cardiochirurgo, che si concede una scappatella, che nello spettacolo viene sottolineata da un carnet di parolacce che però dette al momento opportuno, scatenano nel pubblico ilarità ed applausi.

Le vite dei quattro protagonisti, sviscerate in una nottata che quasi stenta a passare, prendono i connotati di vizi borghesi, ostentazione di ricchezze, rivendicazioni di diritti, matrimoni precedenti che si materializzano come fantasmi maldestramente evocati, tradimenti non solo fisici ma anche di intenti, mentre si va verso un finale che contempla ciò che si è avuto, rispetto a quello che si sarebbe meritato, mettendo fin troppo sullo sfondo la consapevolezza di essersi un giorno amati.

Per la coppia di medici, quella notte che li costringe a star svegli contrariamente alle proprie abitudini, consegnerà loro la volontà di ripartire esattamente da dove il loro rapporto si era inceppato, perché incapaci entrambi di rinunciare ad interessi comuni, intesi proprio come materiali. Non toccherà la stessa sorte alla coppia dei padroni di casa, che apparentemente affiatati, finiscono per scoprire di avere desideri nascosti, tenuti in sordina fin troppo a lungo.

E così lo scrittore di best seller, (Sergio Rubini) che condivide la vita con la sua giovane compagna che gli copre i giorni con idee, storie e parole sempre calde, finisce per fare i conti con il desiderio incalzante di lei di voler scrivere un libro tutto suo, che cerca un riscatto nascondendosi come una ladra nella casa della sua amica medico, pur di trovare uno spazio ed un tempo per realizzare il suo sogno.

Un Sergio Rubini che veste dunque i panni del mediatore, di quello che vuole risolvere tutto per il meglio, ma che paga lo scotto di non essere capace di accettare delle condizioni derivanti dai diversi punti di vista, aggrovigliati maldestramente sul fondo di una coscienza impolverata.

Le prime luci dell’alba colgono così radicalmente divisa proprio la coppia che sembrava più affiatata, con la giovane ghost writer che va via, cercando il suo meritato spazio nel mondo, mentre il famoso scrittore ritrova in quella frattura, una rinnovata ispirazione. Una scena, quella, che sottolinea come talvolta l’amore che tutto può, non sa bastare.

Si apprezza la capacità di Rubini di sottolineare la drammaticità di alcuni rapporti nell’epoca dell’apparenza a tutti i costi, degli interessi e della prevaricazione, attraverso un dialogo serrato e verosimile, a tratti esilarante, che mette a nudo la battaglia quotidiana tra differenze e volontà, tra necessità e finte virtù.

Un atto unico di due ore senza interruzione, nel quale è possibile ammirare la bravura dei quattro attori, Fabrizio Bentivoglio,  Sergio Rubini e le due carismatiche Isabella Ragonese e Michela Cescon, che vestono perfettamente i panni di donne apparentemente molto diverse, ma nella sostanza disposte a difendere le proprie volontà, che diventano per una “l’andare” e per l’altra “il restare”.

Fabrizio Bentivoglio, adornato da una capigliatura ormai completamente bianca e da una leggera pancetta che gli dona tutto il fascino del ruolo di professionista consumato, mostra il talento di sempre, mettendo la sua esperienza a disposizione di una commedia teatrale che funziona, anche nell’esperimento – non facile – dell’ambiente unico, che porta lo spettatore a non distrarsi dai dialoghi, che diventano un vero alternarsi di tentativi di mediazione e sdrammatizzazione.

Un palco poco arredato ma molto conciso, quello del teatro Ambra Jovinelli, dove tutto sembra funzionare bene, con una macchina organizzativa ben collaudata.

Originale il “pesce parlante”, voce fuori campo che prende respiro dalla vita di un pesce rosso che dalla boccia nella quale vive, si interroga anch’egli sulle possibilità di contrastare un destino che un giorno, inaspettatamente,  gli regala una piacevole sorpresa.

Provando…Dobbiamo parlare di Sergio Rubini, così come Carnage di Polanski, non fa sconti sulle differenze e sulla natura umana, che si ribella se tenuta troppo sotto le ceneri del non detto.

Simona Stammelluti

Fabio Cinque, chitarrista, contrabbassista e cantautore, ritorna in Tour in Sicilia, dopo tre anni di assenza, per presentare il suo nuovo disco #ComeSeNonCiFosseUnDomani, uscito a Giugno 2016 per l’etichetta RengheRecords e distribuito da Believe Ltd e Zimbalam.

Un anno davvero propizio per il cantautore siciliano che, dopo la spinta propulsiva del suo fortunato singolo “Ricadi“uscito nel novembre dello scorso anno, ha messo a punto un album realizzato con tanti bravissimi musicisti, tra i quali si annovera anche Ricky Portera, e ha percorso la strada che lo conduce, oggi, davanti al suo pubblico, attraverso un concerto in cui il Rock, da sempre suo marchio di fabbrica, si sposa con le ricche e colorate sonorità mediterranee.

Insieme al poliedrico FabiilZalles danno vita ad uno spettacolo in duo in cui trovano spazio, oltre alla musica, momenti di divertente interazione con il pubblico.

Il Tour che parte il 7 Dicembre da Torregrotta (ME) proseguirà l’8 dicembre a Siracusa, il 9 ad Enna, il 10 a Catania e  si concluderà l’11 Dicembre a Licata (AG) la città natale di Rosa Balistreri, una delle cantautrici di riferimento di Fabio Cinque che ha voluto omaggiarla inserendo nel suo disco “Cu ti lu dissi”, unica cover dell’album #ComeSeNonCiFosseUnDomani”.

Di certo uno spettacolo unico e da non perdere, ma anche una opportunità per abbracciare il figlio della Sicilia che parte, che gira il mondo, che si lascia ispirare, che crea e poi torna, per godere del profumo di un applauso e del calore di casa.

Simona Stammelluti

L’Unità Urologica Mobile ha fatto tappa a Cosenza dove, nella sola mattinata di sabato 26 novembre, ha eseguito circa 42 visite

Cosenza – L’iniziativa rientra nel programma di sensibilizzazione del pubblico maschile sulla prevenzione del tumore alla prostata realizzato dalla Fondazione PRO – Prevenzione e ricerca in oncologia, presieduta dal suo fondatore prof. Vincenzo Mirone, ordinario di urologia presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli.

Successivamente l’Unità mobile sarà presente a Bari, Salerno, Avellino e Reggio Calabria.

L’iniziativa è stata presentata nel corso di un incontro con la stampa e le autorità locali al quale hanno preso parte il prefetto di Cosenza Gianfranco Tomao, il direttore del carcere Filiberto Benevento, il dottor Francesco Ventura Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Urologia dell’Ospedale dell’Annunziata, Massimo Bozzo delegato alla sanità di Palazzo dei Bruzi, Gianantonio Tomaselli della Omega Pharma, azienda farmaceutica che collabora all’iniziativa, l’on. Salvatore Magarò.

La prima tappa in Calabria dell’Unità Urologica mobile ha destato molta curiosità tra i cittadini di Cosenza che, oltre ad essersi sottoposti ad un primo screening hanno anche ricevuto materiale informativo sul cancro alla prostata, uno dei principali tumori che colpisce la popolazione maschile. Allarmanti i dati resi noti dal prof . Mirone durante la conferenza stampa: tra la popolazione maschile che ha superato i cinquant’anni, una persona su sette in Italia si ammala di cancro della prostata che causa 11.000 decessi l’anno. La prevenzione è pertanto un’arma efficace poiché sono stati raggiunti risultati eccellenti sia nella cura che negli interventi stessi oggi affrontati con molti meno rischi anche per l’utilizzo della robotica in ambito chirurgico.

L’incontro con le autorità locali ha dato ulteriori spunti di riflessione sull’argomento ed ha aperto una discussione sulla possibilità di pensare, in una prospettiva futura, ad un accordo di programma tra la Fondazione Pro e l’amministrazione penitenziaria di Cosenza per dare la possibilità ai detenuti di sottoporsi a visite periodiche gratuite e ad una intesa con l’arcidiocesi di Cosenza-Bisignano per consentire anche alle persone meno abbienti di effettuare gli esami di prevenzione del cancro alla prostata, così come già attivato nella città di Napoli. In tal senso un dialogo è già avviato con il direttore del carcere di Cosenza e con monsignor Francesco Nolé.

L’unità urologica mobile, messa a disposizione della Fondazione Pro, nel giro di due anni, ha compiuto oltre 2 mila visite gratuite in tutta Italia, consentendo anche di individuare tumori allo stadio iniziale, poi perfettamente guariti.

Mi viene subito in mente una delle sue celebri frasi, adesso che Fidel non c’è più: “Il peggiore dei sacrilegi è il ristagno del pensiero”. Sembra una sorta di pensiero profetico, considerato questo momento storico nel quale c’è un significativo ristagno del pensiero, mentre il mondo cambia e sembra allontanarsi sempre più da ideali possibili.

I social network lo avevano spesso dato per morto, forse anche a causa delle sue lunghissime assenze dalla scena pubblica. Questa volta però la notizia è vera. Fidel Castro è morto. Aveva 90 anni e nelle prossime ore il suo corpo sarà cremato. A dare la notizia della sua morte con un intervento in Tv, suo fratello Raul, attuale Presidente di Cuba.

Simbolo per la sinistra, protagonista della scena politica di Cuba e non solo, fu colui che diede battaglia alla più grande potenza del mondo. Fu rivoluzionario, ma anche dittatore sanguinario per i nemici.

Figlio di un proprietario terriero spagnolo e di una cubana, la sua fu una vita vissuta tutta d’un fiato, sin da quell’istruzione nei collegi e nelle scuole gesuite, che incisero fortemente sulla sua formazione culturale. Fu un giovane con le idee chiare, tanto che subito dopo la laurea in giurisprudenza, si presentò alle presidenziali. Ma quello era il tempo del golpe, al quale lui rispose con l’assalto alla caserma della Moncada. Era il 26 luglio del 1953. Fu un disastro per Fidel. Molti suoi uomini vennero catturati, altri uccisi. Lui, finì in prigione condannato a 15 anni, ne scontò poco più di uno. Ma il suo progetto rivoluzionario era già ben delineato tanto che durante la sua arringa di difesa pronunciò quella sua celebre frase “condannatemi, non importa, la storia mi assolverà“.

Dopo il carcere andò in esilio, prima in America, poi in Messico dove conobbe Ernesto Guevara. Di lui Fidel disse: “Ricordo sempre il Che come una delle persone più straordinarie, uno degli uomini più nobili e disinteressati che io abbia mai conosciuto”.

Fu proprio insieme al “Che” a suo fratello Raul e altre 79 uomini che Fidel sbarcò nell’isola a bordo di un piccolo yacht, il Gramna. Era il 1956. Ma il suo gruppo fu sterminato e solo in 21 riuscirono a rifugiarsi nella Sierra Maestra. Ne susseguirono 2 anni di guerriglie, mettendo alle corde il dittatore Fulgencio Batista, che era legato alla mafia italo-americana.

Era il 1 gennaio del 1959 quando entrarono all’Avana. Quel giorno Castro era già il capo indiscusso di una rivoluzione che nessuno, all’epoca, sapeva dove avrebbe condotto il mondo, ma la cosa certa era che Cuba era stata liberata. L’impatto mondiale di quell’evento fu immenso, e rappresentò uno squarcio proprio in quella che era all’epoca la guerra fredda.

Incominciarono così i viaggi di Castro nel resto del mondo. La prima tappa fu proprio negli Stati Uniti nell’aprile del 1959, invitato da una società di editori di giornali. Poi fu invitato da Nixon, che di lui dirà: “è un tipo naif, ma non necessariamente un comunista“. Eppure i rapporti tra i due stati divisi soltanto da pochi chilometri di mare, peggiorarono in fretta.

Furono periodi molto caotici, quelli che seguirono e per tutto il 1959 all’interno del gruppo dirigente, si sviluppò un duro scontro sul futuro della rivoluzione. Guevara e il fratello di Castro, Raul, premevano per la via socialista. Camilo Cienfuegos, Sori Marin e Huber Matos per il ritorno alla Costituzione del 1940, libere elezioni e democrazia. Nel 1961 un piccolo esercito addestrato e finanziato dalla Cia proverà a sbarcare sull’isola, intenzionati a rovesciare i “barbudos” di Castro.  Seguì la crisi dei missili del 1962 che rischiò di trascinare il mondo in una guerra nucleare mondiale.

Fidel Castro è stato per decenni il nemico numero uno degli Stati Uniti, con il risultato che mentre accresceva la sua dipendenza dall’Urss, appoggiava le guerriglie nell’America Latina, diventanto il leader dei paesi non allineati.

Castro ebbe 3 figli, uno dal suo matrimonio, gli altri da relazioni extraconiugali. Ha resistito a 10 presidenti degli Stati Uniti e a diversi attentati. Il “Comandante” come lo chiamavano i cubani, ha retto anche gli urti derivanti dalla disintegrazione socialista e dal crollo dell’Urss.

Era un cubano al quale non piaceva il ballo (cosa assai strana), ma era dotato di grande arte oratoria. Era capace di parlare per ore davanti alla tv di stato. La sua salute era stata sempre di ferro, fin quando non lo colse una emorragia intestinale, all’età di 80 anni, durante un viaggio in Argentina. Fu allora che delegò il potere nelle mani di suo fratello Raul, che da allora ha dettato il ritmo dei cambiamenti.

Dell’era Castro – intesa come sino alla sua morte – va sicuramente ricordata la data del 17 dicembre del 2014 quando a sorpresa, e grazie alla mediazione di Papa Bergoglio, L’Avana e Washington hanno annunciato il “disgelo bilaterale”.

  • “nessun rivoluzionario muore inano” – Fidel Castro.

Simona Stammelluti

Su un personaggio così si potrebbe tranquillamente “romanzare”, ed invece la vita di Chet Baker e le sue vicissitudini sono il frutto di un modo di vivere unico e “fuori portata”, proprio come il suo modo di fare musica.

Se lo dovessi definire con poche parole lo definirei come l’unico trombettista il cui fraseggio spietatamente logico e sincopato, sapeva essere allo stesso tempo profondamente “sentimentale”.

Uno tra i maggiori trombettisti jazz del secolo scorso, in Italia è stato di casa, e in quel lembo di terra tra la Versilia e la Lucchesia, ha vissuto avventure e “disavventure”.

Difficile sapere tutto (o quasi) su Chet se non si è dei veri appassionati, oppure se come me, si é figli di un jazzista, si è cresciuti ascoltando la musica e la storia del jazz, al posto delle favole, prima di andare a dormire.

Era il 1960, ed in Versilia, si consumò il dramma di uno dei più strepitosi trombettisti, che scontò 16 mesi di carcere.  Potremmo dire ai giorni d’oggi che 16 mesi sono poco o nulla, per chi ha guai con la giustizia. Per lui, invece rappresentarono un vero e proprio inferno.

L’immagine di Chet seduto sul davanzale della sua camera d’albergo poco prima di essere arrestato, è nota a tutti, in tutto il mondo.

Quell’anno, era il 1960, Baker era in fuga dagli Usa perché aveva già da tempo problemi con la droga. Il 22 agosto, sulla provinciale che da Lucca porta a Viareggio, diretto alla Bussola, dove suonava per il periodo estivo – insieme alla Roman New Orleans Jazz Band – si ferma ad un distributore, chiede di poter usare il bagno, e lì dentro ci resta per più di un ora. Il benzinaio insospettito, chiamò la polizia che butta giù la porta.La scena alla quale i poliziotti assistettero fu quella di un uomo – che diceva di essere Chet Baker – a terra, con una siringa ancora nel braccio e del sangue tutto intorno.

In realtà quello che Chet si era iniettato, altro non era che un potente antidolorifico, che però in Italia all’epoca era illegale e così per lui non ci furono che le sbarre del carcere.
Ci furono indagini, poi il processo e la condanna. Ci fu anche un appello…ma lui aveva già scontato i suoi 16 mesi. Mesi di disperazione, di depressione, di sconforto per Chet al quale solo nell’ultimo periodo fu concesso di suonare la tromba, ma non più di 10 minuti al giorno.  Lui, che con la tromba ci dormiva, che l’abbracciava e “l’imbracciava”come se da essa potesse derivargli sempre l’entusiasmo di vivere.

La detenzioni costrinse Chet ad una difficile ma inevitabile disintossicazione, ma dopo quella disperata e triste esperienza non torno più come prima, e non suonò più come prima.
Come non ricordare, durante quella sua prigionia, quel piccolo concerto che, per Natale, Henghel Gualdi e i suoi, fecero sotto la finestra della cella di Chet, per Chet, per non farlo sentire solo ed abbandonato, prima di essere barbaramente cacciati dalle guardie. O quelle piccole folli di gente che amavano sentirlo suonare, che sostavano puntualmente sotto quella finestra a scacchi negli orari divenuti consueti, nei quali Chet suonava, seduto sul davanzale, dando fiato alla sua tromba, dalla quale usciva un suono languido, struggente, malinconico, commovente e a tratti fortemente disperato, seppur sempre meraviglioso.

Furono quei 16 mesi in carcere che Chet scrisse stupende canzoni che entrarono poi nella leggenda. In molti sostennero che Chet si suicidò, e che non cadde per caso da quella finestra dell’albergo di Amsterdam in quel 13 maggio del 1988.

Chi lo conobbe bene però, continua ancora oggi a sostenere che non ne avrebbe avuto mai il coraggio…almeno non di separarsi da quella tromba che lo rese dannato e maledettamente “cool”.

Lui, che odiava gli spartiti, ma amava i davanzali, fu vittima di una fatalità.  Ma non morì per chi come me ancora oggi, ascolta e – così come lui desiderava – prova a comprendere a pieno, quella sua musica, che non fu mai “totalmente” improvvisata, come invece la sua vita, fu.

Simona Stammelluti

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In uno scenario del lavoro sempre più fermo in Calabria, l’unica opportunità per molti giovani diventa l’auto-imprenditorialità. Molto spesso la maggioranza dei progetti restano nel mondo delle idee perché chi ha un buon progetto non ha poi le conoscenze o le competenze necessarie a reperire finanziamenti e fondi, soprattutto quelli messi a disposizione dall’Unione Europea.

E’ proprio per sopperire a questo deficit che i giovani del Movimento Cristiano Lavoratori di Cosenza, raccogliendo la sfida, hanno lanciato il WorkshopNuove Strategie per lo Sviluppo dei Territori. Nuove Imprese, start-up innovative cooperative” che si terrà giorno 18 e 19 novembre alla Sala Conferenza della Camera di Commercio di Cosenza.

Il programma prevede l’avvio dei lavori alle ore 9.30 del giorno 18, una sospensione alle 13.30 e la ripresa nel pomeriggio dalle 15.00 alle 18.00. La seconda sessione apre invece alle ore 9.30 giorno 19 e termina nella stessa mattinata, alle 13.30.

Per entrambi i giorni le attività saranno curate dalla formatrice Claudia Lanteri, Direttrice coop. soc. C.S.I. TRE, Responsabile Fondi Europei Fondazione Paolo di Tarso, Presidente Slow Tourism Alto Adige, Presidente Ass. Europea Dieta Mediterranea, Responsabile progetti formativi FSE Alto Adige.

Inoltre interverranno diversi ospiti: M. Nicolai, Direttore ARCEA (Agenzia Regione Calabria per le Erogazioni in Agricoltura); P. Molinaro, Presidente Coldiretti Calabria; M. D’Acri, Consigliere Regione Calabria; G. Passarino, professore straordinario di Genetica e vicedirettore Dipartimento di Biologia, Ecologia e Scienze della Terra; K. Algieri, Presidente della Camera di Commercio.

Il Workshop è gratuito e aperto a tutti, previa compilazione di un modulo di iscrizione, proprio per dare modo a chiunque sia interessato di capire quali sono le possibilità che offre il territorio per la realizzazione di un progetto individuale o di gruppo e di conoscere in maniera non superficiale il contesto socio economico nel quale si vuole operare.

Un workshop, dunque, che parta dal diritto al lavoro e che semplifichi l’attività di chi vuole avviare una nuova impresa, una start-up o una cooperativa.

La SCHEDA DI ADESIONE è scaricabile al link http://www.mclgiovanicosenza.it/images/scheda-adesione.pdf e deve essere inviata a mcl.giovanicosenza@gmail.com

Cosenza – I Carabinieri della Compagnia di Cosenza assieme ai militari del NAS stanno procedendo – su ordine della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza – al sequestro preventivo, con facoltà d’uso condizionata, di sette sale operatorie dell’Ospedale Civile dell’Annunziata e precisamente quelle dei di  Reparti di Chirurgia Generale e di Ortopedia, ove è presente anche una sala di day surgery per oculistica.

Il provvedimento, disposto dal Sostituto Procuratore Donatella Donato, sotto la supervisione del Procuratore Capo Mario Spagnuolo e del Procuratore Aggiunto Marisa Manzini, scaturisce dagli accertamenti svolti dai militari dell’Arma che hanno eseguito approfondite ispezioni anche con l’ausilio del personale del Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza Ambienti di Lavoro (SPISAL) di Catanzaro.

I controlli messi a punto hanno evidenziato una serie di carenze sotto il profilo igienico-sanitario con particolare riferimento a rischi di contaminazione derivanti dalla promiscuità nel ciclo sporco-pulito, dalla presenza di locali adibiti a stoccaggio di rifiuti speciali in aree non previste, nonché dal mancato rispetto dei parametri microclimatici e microbiologici previsti con la pressurizzazione delle sale operatorie.

Sono state altresì contestate violazioni in tema di sicurezza dell’ambiente di lavoro. Nel provvedimento di sequestro sono state indicate una serie di prescrizioni a cui è subordinata la facoltà d’uso, pertanto in caso contrario, l’utilizzo delle sale operatorie è da ritenersi interdetto.

Simona Stammelluti

Un film senza fronzoli, senza troppe pretese, senza effetti speciali, senza colonne sonore da ricordare. Un film dai colori smorzati e dalle inquadrature spesso molto vicine, affinché si possa toccare e percepire vite che pulsano e le loro disperazioni


Michele Placido, che firma la regia di questo film “7 minuti“, ispirato ad una storia vera accaduta in Francia, scommette tutto sulle donne, sul loro mondo, sul loro problema con il lavoro, sul loro coraggio, sulle loro scelte spesso più coraggiose di quanto loro stesse possano credere possibile.

11 donne, operaie di una fabbrica tessile di provincia che sta per passare in mano ad una multinazionale, che sono costrette a fari i conti con le proprie personali disperazioni, con la “precarietà” che è prima di tutto emotiva.

Un film che gira intorno ad una scelta, ad un “sì” o ad un “no” e alle conseguenze di quella scelta. Una decisione che possa essere scevra da compromessi, oltre che capace di zittire l’urlo invalidante della paura; una scelta che possa fare la differenza, per divenire un esempio.

Operaie, ma anche madri, figlie, giovani alla ricerca di un posto nel mondo, non solo lavorativo, extracomunitarie che si sentono finalmente vive perché hanno un lavoro. Donne che siedono intorno ad un tavolo e che, seppur apparentemente tutte amiche ed affiatate, sono pronte a sbranarsi con parole e azioni, pur di difendere un bisogno, più che un diritto.

Sono le donne alle quali viene chiesto di prendere una decisione anche per  gli altri 300 lavoratori che attendono di sapere quale sorte toccherà loro. Donne che si trovano a fare una scelta quasi scontata, considerato che, terrorizzate dalla paura di essere licenziate e di dover dunque rinunciare a ciò che dà loro da vivere, si trovano nella condizione di dover decidere se accettare o meno di rinunciare a 7 minuti di pausa.  Una finta opportunità dunque, ben nascosta dietro un’apparente rinuncia.

Un film che può sembrare statico perché svolto in un’unica location ma che è estremamente dinamico e pulsante, mentre prova – riuscendoci – a sviscerare il dramma del mondo lavorativo femminile, in uno spaccato molto credibile di una società multiraziale, nella quale cambiano colori e lingue, lasciando immutate necessità e comuni disperazioni.

E’ un film ostinato ma non didascalico, che induce a riflettere e che tira fuori una morale.

Hanno tutte bisogno di lavorare, le donne della fabbrica, hanno tutte bisogno di quel lavoro e tutte in prima battuta decidono di accettare quella proposta, ossia di rinunciare a 7 miseri minuti. Ma quando Bianca, il loro portavoce e la più anziana tra loro, cerca di spiegare il perché del suo rifiuto nei confronti di quella proposta, le dinamiche di quella decisione da prendere, incominciano a cambiare connotati. 7 miseri minuti che però sono il segno del potere che toglie poco a poco, senza grossi dolori, per vedere a cosa si è disposti a rinunciare pur di conservare un lavoro. Il potere di chi comanda, che si contrappone al potere di chi lavora, di chi mette a disposizione della collettività ciò che sa fare.

Un potere che però trema, davanti ad un tempo che scorre, che racconta di come quella scelta che loro, dal posto di comando davano per scontata, tarda ad arrivare.

E così da una scelta, possono scaturire reazioni a catena.
Essere a favore o contro, distinguere ciò che è giusto da ciò che è logico. Tutto mentre diversità e personalità, si contendono una ragione che però deve mirare a difendere una dignità, che vale molto più di 7 minuti di pausa a cui rinunciare.

Coraggio, liti, malanimo, divisioni e spaccature, in quella piccola società operaia fatta di donne che appaiono tutte diverse, forti ed incrollabili ognuno a modo proprio, ma che hanno invece tante e tali fragilità e debolezze emotive, che stanno tutte dalla stessa parte, ossia di quella dei deboli che vengono sfruttati e che tacciono perché “non hanno scelta”.

Ma la scelta, è ancora possibile.

11 donne con 11 storie diverse, ma che confluiscono nella medesima voragine della paura di perdere.

Spicca tra le attrici protagoniste Ottavia Piccolo, che nel film interpreta Bianca, la veterana, colei che ha fatto da “mamma” alle più giovani, la più lucida ma anche la più cruda. A lei vengono “volutamente” affidate meno battute, proprio perché capace di straordinaria presenza scenica, dotata di una capacità espressiva degna di nota, costruita in anni ed anni di teatro. Avvantaggiata – come lei stesso spiega in una intervista – dal fatto di aver portato in scena in oltre 200 repliche, lo spettacolo teatrale scritto da Stefano Massini che ha firmato a 4 mani con Michele Placido la sceneggiatura di “7 minuti”.

Credibile Fiorella Mannoia nel suo esordio come attrice, Ornella nel film, che fa la parte della mamma di Viola, Cristiana Capotondi, giovane ed incinta, che si batte per la sua scelta, prima di dare alla luce suo figlio.

Intensa e pulsante l’interpretazione di Ambra Angiolini che ha fatto passi da gigante negli ultimi anni, dimostrando un talento che ormai parla per lei.
E sulla sedia a rotelle, non urla il suo cognome Violante Placido, alla quale viene affidato il ruolo di colei che “sembra” stare meglio delle altre, ma è proprio l’emblema della rinuncia alla dignità, ed il racconto che fa alle sue compagne circa la verità sull’incidente in fabbrica e quel che ha dovuto subire, è uno dei momenti salienti della pellicola.

Tiene per se la parte del proprietario della fabbrica, Michele Placido, in un piccolo cameo, come se volesse dirigere “da dentro”, questo suo film, che non ha certo un finale scontato, che è stato dotato di un’ottima dote di suspense, che tiene l’attenzione dello spettatore sempre alta e che permette di scommettere su un finale per nulla prevedibile.

Cosa decidono alla fine le 11 donne, circa quei 7 minuti ai quali devono rinunciare?
Andate al cinema, guardate il film e lo scoprirete.

Simona Stammelluti