Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 7 di 92
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Gli applausi che si sono sentiti quando è stato arrestato sono probabilmente significativi di una terra che ha voglia ancora di riscatto, della volontà di liberarsi dalla prepotenza mafiosa, della privazione di libertà in tutti i campi, gli stessi dove la mafia ogni giorno si infiltra diventando invisibile.
Dopo l’arresto di stamane del super-latitante Matteo Messina Denaro, viene da pensare che alla fine (meglio tardi che mai) la giustizia arriva, si palesa e dunque non esiste l’impunibilità e l’invincibilità della mafia.
Giovanni Falcone era solito dire: “la mafia è un fenomeno umano e come tale ha avuto in inizio e avrà anche una fine”.
La mafia ha però sempre giocato sul mito della invincibilità, ma oggi con questo arresto esemplare, questo mito non c’è più.
Ma ci sono voluti trent’anni prima che questo giorno arrivasse perché il mafioso gode dell’appoggio di tutto un ambiente che lo favorisce; Matteo Messina Denaro era considerato un “benefattore” nella sua zona di competenza, e quindi nessuno lo avrebbe mai tradito. Probabilmente il boss ha preferito non diventare il capo assoluto, non un “capo dei capi” (come fu Totò Riina) proprio per mantenersi nel suo territorio, con i suoi affari per poter garantirsi al massimo questa latitanza. C’è voluta una malattia grave per spingerlo verso Palermo, per curarsi in una delle migliori cliniche private palermitane, sotto falso nome (Andrea Bonafede), per poter avere dunque una falla, nella sua rete di protezione.
Ma chi l’ha curato, sapeva?
Le ipotesi – come ha detto Piero Grasso – sono due: o c’è un favoreggiatore che l’ha favorito per farlo curare, o c’è un traditore che lo ha tradito per farlo arrestare. Il favoreggiatore se c’è, prima o poi verrà scoperto, il traditore non lo scopriremo mai.
Arrestato quest’oggi mentre faceva colazione, durante una brillante operazione che non ha coinvolto nessuno all’interno dell’ospedale; i carabinieri in borghese – che in un primo momento hanno fatto fatica a riconoscerlo, che non erano sicurissimi che fosse lui – lo hanno preso a braccetto dicendogli “venga con noi, le dobbiamo parlare” e lui ha detto subito detto “sono Matteo Messina Denaro”. In ambito mafioso chi ti avvicina non puoi sapere subito se sono forze dell’ordine o avversari ed è per questo che ha subito detto il suo nome, e una volta capito che lo stavano arrestando non ha opposto resistenza.
Matteo Messina Denaro sa tante, tantissime cose del periodo stragista.
È stato lui uno dei componenti del commando che era stato mandato da Riina nel febbraio del ’92 a Roma per seguire, pedinare e uccidere Falcone con armi comuni mentre era al ristorante. Quell’attentato non andò a buon fine perché ci fu un errore di ristorante. Il commando andò al ristorante “La matriciana” al quartiere Prati, mentre Falcone andava spesso al ristorante “La carbonara” a Campo dei Fiori, dietro il ministero della giustizia. Spesso finendo tardi al ministero, liberava la scorta e faceva due passi a piedi. Giovanni Falcone a Roma si sentiva sicuro.
È stato il figlioccio di Riina, cresciuto sulle sue ginocchia, da lui ha imparato ad uccidere, ne  ha custodito e ne custodisce i segreti e le confidenze. Condannato per essere tra i mandanti degli attentati mafiosi avvenuti tra il 1992 2 il 1993. Quindi la strage di Capaci, di Via D’Amelio, gli eccidi di Roma, Firenze e Milano. Ha compiuto tredici omicidi tra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido nel 1996.
Messina Denaro era proprio il preferito di Riina, quando i corleonesi si presero Palermo.
La domanda che in molti si stanno ponendo in queste ore è se Messina Denaro parlerà. Chi conosce bene lui e l’ambiente mafioso (parliamo di magistrati) pur sperandolo, ritiene che non lo farà, considerato il fatto che i grandi capi di Cosa Nostra non hanno mai parlato. Provenzano e Riina si sono portati segreti nella tomba.
E chissà se avrà mai un rimorso di coscienza, per tutto quello che ha ideato e ha contribuito a provocare, mettendo da parte l’omertà mafiosa. Forse allora potrà raccontare tutti i dettagli delle stragi, tutti i contatti che ha avuto insieme a Bagarella per tutte le stragi commesse.
Si dice che lui sia stato quello più “acculturato” rispetto ai suoi pari grado; infatti era lui ad individuare i beni culturali ed artistici da colpire per incominciare ad avviare le trattative con lo Stato.
Se diventerà un collaboratore di giustizia, probabilmente avverrà perché ha un pentimento intimo, non per avere dei benefici.
Per Piero Grasso non è tipo da utilizzare la legge dei pentiti.
Ma la mafia non è finita con questo arresto, continua a tramare nell’invisibilità, tra traffici e profitti.

Il boss Matteo Messina Denaro, ex primula rossa è al momento presso la caserma dei carabinieri di San Lorenzo di Palermo. In seguito sarà trasferito presso una località segreta.
Arrestato durante un blitz questa mattina poco meno di un’ora fa, un blitz condotto da centinaia di carabinieri del Ros, del Gis e del comando territoriale della regione siciliana, coordinati dal procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia.
Al momento dell’arresto, il boss stava facendo colazione nel bar della struttura sanitaria dove si stava sottoponendo a delle terapie per curare il cancro che lo aveva colpito un po’ di tempo fa. All’uscita dalla struttura sanitaria del boss con le forze dell’ordine c’è stato un applauso dei palermitani che si trovavano all’esterno della clinica La Maddalena.Trent’anni di latitanza, durante i quali il boss ha avuto fidati luogotenenti di cosa nostra, la cerchia familiare che ha garantito questa lunga latitanza; un esercito che negli anni è stato decimato dai tanti blitz delle forze dell’ordine.

Figlio di un padre boss mafioso, amante del lusso, ha ordinato stragi, ha fatto profitti illeciti;

La notizia dell’arresto arriva a trent’anni dall’arresto del capo del capi, Totò Riina che avvenne il 15 gennaio del 1993.
Le ultime notizie arrivano dal generale di divisione Comandande dei Ros Pasquale Angelo Santo che ha condotto il blitz:

Un lavoro congiunto tra polizia di stato e carabinieri. La cattura di Matteo Messina Denaro ha una importanza storica. Era l’unico stragistra rimasto in libertà.

La notizia apre un anno bellissimo per la lotta alla mafia. I latitanti non sono dunque invincibili come si sentono.
Una grande botta alla mafia, anche se la mafia non finisce con questo arresto.
Arrestare Matteo Messina Denaro nel cuore del suo territorio è un segno importante.
La procura di Palermo in questi anni ha effettuato centinaia e centinaia di arresti, tra cui i fratelli e la sorella di Matteo Messina Denaro, sono in carcere, hanno sequestrato e confiscato beni, ma mai nessuno di loro lo ha tradito. Una rete di favoreggiatori che purtroppo “amava” questo uomo. Questo arresto, svelerà finalmente il volto di questo uomo, che ha traghettato la mafia stragista di Totò Riina in una mafia imprenditoriale ed invisibile che oggi inquina l’economia e la politica.

 

 

Mi sono presa un po’ di tempo per pensare e ripensare a questa vicenda.
Perché sono una giornalista che dovrebbe raccontare la cronaca ma anche una madre che fa i conti tutti i giorni con quel ruolo assai difficile e che ha come unico obiettivo, il bene dei propri figli.
Alla luce di questa mia ultima affermazione viene da domandarsi dove risieda il bene per i propri figli, quando si agisce come hanno agito quei genitori che a seguito del gesto gravissimo ed ignobile di quegli studenti che hanno “sparato” contro la prof di scienze, hanno fatto ricorso (vincendolo) per far annullare la sospensione (giusta) ai loro figli.
Ma facciamo un passo indietro.
È l’11 ottobre quando, dei ragazzi del primo anno (parliamo dunque di ragazzi di 14 anni) dell’Istituto Tecnico Viola-Marchesini di Rovigo (se fosse successo in Sicilia si sarebbe detto che quei ragazzi vivono in una terra di mafia, ed invece vivono e fanno i bulli al nord) creano un danno alla professoressa di scienze Maria Cristina Finatti (alla quale va tutta la mia solidarietà sempre) sparandole contro con una pistola ad aria compressa, ferendola alla testa. Tutto questo mentre un altro alunno filma la scena per poi postarla sui social (TikTok che è la negazione assoluta di ciò che può essere la cultura) allo scopo di fare visualizzazioni, followers e dunque avere una qualche notorietà.
Prima di addentrarci in tutte le conseguenze di questo gesto, proviamo ad analizzare tutte le cose sbagliate fino a questo momento.
Ragazzi 14enni entrano in classe con cellulari (che dovrebbero essere spenti e riposti appena entrati) e con una pistola ad aria compressa, con uno scopo ben preciso. Intanto dovremmo domandarci perché un 14enne possiede una pistola ad aria compressa, chi gliel’ha comprata e perché.

La prof denuncia tutti e 24 gli alunni, considerato che chi non prende le distanze da quella condotta, è complice.

Il 18 ottobre tra l’altro il consiglio di classe dispone la sospensione di 5 giorni  per lo studente che aveva sparato e altrettanti per quello che aveva ripreso la scena con il cellulare, due giorni invece per il proprietario della pistola e per l’alunno che l’aveva poi lanciata dalla finestra nel tentativo di sbarazzarsene. Punizioni decise ma mai attuate. Il motivo? La famiglia di uno dei giovani coinvolti ha presentato un ricorso interno alla scuola e il provvedimento è stato annullato: pare vi fosse un errore nella stesura del testo della sospensione.

L’attenzione però a mio avviso non è sull’annullamento del provvedimento (può accadere per innumerevoli motivi o vizi di forma), ma sulle motivazioni che spingono dei genitori a fare ricorso.
Altro che “vizio” c’è in questa condotta.
C’è una mancanza sostanziale nel ruolo di chi deve educare al rispetto, al rispetto delle regole e del ruolo di colui o colei preposto all’insegnamento e non solo. Perché il gesto sarebbe stato altrettanto grave se fosse stato commesso contro un altro compagno, un collaboratore scolastico, o un passante per strada.
C’è questo lassismo verso errori che hanno l’aggravante di essere premeditati, che sono incastonati in azioni che vengono studiate per altri scopi, che ledono non solo nel corpo ma anche la dignità altrui. L’educazione è un bene fondamentale per la crescita dei ragazzi e della società, e la mancata punizione, sostituita invece con quel ricorso, è la spia di un percorso formativo familiare che si è interrotto in maniera grave e forse irreparabile.
Dov’è finito il genitore che insegna il rispetto perché anch’egli rispetta il ruolo altrui?
Dov’è l’esame di coscienza da instillare nel giovane che in casi come questo non capirà mai di aver sbagliato?
Dov’è la punizione che serve a tenere alta l’attenzione su ciò che non si deve mai fare?
I giovani a cui si lascia fare qualunque cosa, se non messi davanti alle proprie responsabilità e alle conseguenze delle loro azioni, cresceranno con l’idea che possono fare tutto, tanto non esistono conseguenze.
Cosa c’era di sbagliato in quei 5 giorni di sospensione?
Erano giusti, quei giorni di sospensione. Soprattutto se in quei 5 giorni, i ragazzi fossero stati privati di quei mezzi che permettono loro di sentirsi potenti, importanti, “seguiti”. Sarebbero dovuti essere 5 giorni di studio, di riflessione, di faccende domestiche e di consapevolezza. Ma non può esserci consapevolezza a 14 anni se qualcuno preposto ad indicare la strada, ad insegnare cosa sia giusto e cosa no, non ne ha a sua volta. Perché dubito che quei genitori abbiano consapevolezza del danno che hanno procurato ai loro figli, vincendo quel ricorso.
Non si può rimettere a posto nulla, se non si applica la formula “chi rompe paga”, chi sbaglia, in qualche modo paga.
È fondamentale tenere in piedi quei sentimenti portanti, quei princìpi intellettuali e morali che mettono in correlazione i giovani con gli adulti, che sottolineano i ruoli, che creano empatia, che tengono in piedi le regole e il rispetto per esse.
Sarebbe interessante interrogare quei genitori e chiedere loro perché lo hanno fatto, perché hanno firmato quel ricorso, perché non hanno voluto quella sospensione; anche senza sospensione, anche se tutti faranno finta di niente, i figli restano dei maleducati, irrispettosi, bulletti irriverenti.
La “non sospensione” non lava via la colpa, anche a fronte delle mancate scuse all’insegnante.
Ma forse i genitori si sono sentiti – o forse dovrei dire si sentono – sotto esame, come se qualcuno avesse voluto “sospendere anche loro”, come se quella sospensione volesse giudicare la loro condotta.
Non era per loro, la sospensione, il giudizio; ma un esame di coscienza non farebbe loro male.
Io da madre, mi sarei sentita mortificata, delusa ed anche sconfitta.
Perché i comportamenti dei nostri figli sono un po’ la bussola, la cartina tornasole in quel mestiere così difficile che è quello di genitore. Non abbiamo libretti di istruzione, ma abbiamo una “sospensione” a dirci, forse, che qualcosa è da rifare.
Una bella lezione non guasterebbe.
Insegnare loro per esempio a gestire le emozioni, a fare qualcosa per gli altri, a vivere i propri anni senza la pretesa di possedere un potere che è solo figlio di ignoranza e di ignominia.

 

 

 

Ve lo ricordate il racconto di Michela e il suo papà (potete leggerlo qui) che abbiamo raccolto una settimana fa, che raccontava la malasanità all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, considerato da tutti un ospedale “virtuoso”?

In merito a quel racconto abbiamo ricevuto la testimonianza di una giovane che lavora come sanitario nella stessa struttura e che conosce bene quella realtà. È una vera denuncia di una realtà che a tratti fa orrore.

 

Purtroppo o per fortuna come sanitario riconosco la realtà nel racconto della signora Michela, lo riconosco ogni giorno da quando ho iniziato ad approcciarmi a questo mondo.
Viviamo in una sanità virtuosa che però subisce sempre più tagli, di ogni tipo, non ultima per colpa/grazie alla guerra ed all’aumento delle patologie virali poi le risorse sia materiali che farmaceutiche scarseggiano e non si riesce a far fronte alla richiesta. Siamo spesso costretti a modificare terapie antibiotiche poiché non si ha disponibilità (e non sempre è l’antibiotico ovviamente a cui il paziente risponde), siamo costretti a crearci il dosaggio magari che ci serve, siamo costretti a richiedere mille consulenze per valutare le nuove combinazioni di terapie e la loro possibilità di eventuali interazioni.
La scarsa qualità che si ha, sia di medici che di infermieri, è anche colpa dell’università, che permette a tutti di laurearsi nonostante magari non sia proprio corretto far proseguire alcune persone. Ho avuto compagni di corso, presso una Facoltà prestigiosa come quella di Bologna, che si sono laureati con me nonostante gli esiti negativi delle valutazioni in tirocinio, ma è solo la punta dell’iceberg dell’università.
Altra problematica è il sistema sia pubblico che privato, che permette a chiunque di lavorare anche se lo fa male e causa anche danno ai pazienti (se non la morte) grazie a mille sotterfugi, esempio lampante si ha in ambito chirurgico; se un paziente decede il trentunesimo giorno post intervento allora la morte non è riconducibile all’intervento. Sapete quanti pazienti vengono trascinati a quel fatidico giorno? Sapete purtroppo quanti parenti non sanno la realtà di cosa sia successo perché nei referti vengono omessi dettagli e si sentono dire “era un intervento chirurgico, poteva avere delle complicanze, com’è scritto nel consenso che è stato firmato?” E tu che ci lavori stai in silenzio, sperando che un giorno magari qualche parente capisca ed arrivino i NAS a far domande, perché sai che sono medici e strutture che alle spalle hanno il mondo e se fossi tu a denunciarli non resteresti mai anonima e non potresti più lavorare, ma comunque sia ti porti il peso di quei pazienti e di quei familiari addosso per tanto, perché ti senti complice anche tu di un “omicidio”.
Vi parla un coordinatore, una persona giovane che studia ogni giorno per migliorare e crescere e che comunque lotta quotidianamente con una direzione per avere/creare/migliorare, ma che puntualmente viene fermata per mancanza di risorse umane (infermieri e medici) o materiali, oltre che per la testardaggine delle persone “vecchie” che credono di saper fare il loro lavoro boicottando il cambiamento e l’innovazione perché “si è sempre fatto così”.
Questo purtroppo è solo lo specchio della sanità, oltre ai continui tagli, al continuo aumentare le responsabilità senza giusta tutela e giusto riconoscimento economico (motivo per cui la maggior parte scappa all’estero). Per non parlare del continuo carico di lavoro che viene aumentato per mancanze di risorse umane, doppi turni, riposi saltati ed abuso delle tanto discusse reperibilità: una persona che fa mattina ed ha un turno di reperibilità 20-7 per “urgenze ed emergenze” potrà esser chiamato alle ore 19 perché la sala operatoria sfora come orario e quindi l’elezione prosegue oltre l’orario previsto di fine semplicemente perché l’organizzazione delle sale operatorie viene pensata senza valutare la fattibilità di alcuni interventi da parte di alcuni chirurghi? Magari sono i reperibili che terminata alle 22 la chiusura dell’elezione, alle 2 di notte vengono richiamati per la reale urgenza e lavorano fino alle 7, aspettando il cambio e alle 13 devono ripresentarsi per coprire il turno del pomeriggio.
Noi giovani siamo davvero diversi nelle nostre generazioni, ma non siamo diversi dalle precedenti però, veniamo accusati di non aver voglia di lavorare e di pretendere solo, ma gli esempi che abbiamo quotidianamente…. ci hanno insegnato qualcosa di diverso o sono solo bravi a giudicare senza guardar il proprio orticello?

Si attendeva una ventata di aria nuova, di nuove forze che potessero dare nuovo slancio al territorio, che con competenza si interessassero dell’aspetto politico e culturale della cittadina di Montalto Uffugo

È proprio il direttivo, costituto da giovani professionisti a spiegare in una nota stampa, le motivazioni che hanno spinto il gruppo a costituire questa nuova realtà politico-culturale:

La consapevolezza di voler essere protagonisti e non spettatori delle scelte che riguarderanno il futuro dei cittadini ha spinto un gruppo di giovani di Montalto Uffugo a unirsi nell’associazione politico – culturale denominata “Innoviamo”.
Abbiamo raccolto l’invito che viene da più parti sia a livello nazionale e sia locale di impegnarsi in politica e per il territorio fornendo un punto di vista in più, unanime e innovatore, nel pensiero come nell’azione.
Da tempo condividiamo momenti di confronto sui temi esteri, nazionali, regionali e locali che hanno dato vita a una convinzione sempre più marcata della necessità di occuparci fattivamente di tutti quegli aspetti che influenzano nel bene e nel male la vita dei cittadini, il progresso della società, lo sviluppo di un territorio.
Noi di “Innoviamo” crediamo che le sorti di Montalto Uffugo siano in mano ai cittadini, pertanto, guardiamo con attenzione e interesse alle prossime amministrative per la creazione di una valida alternativa alimentata dal contributo e dall’impegno di coloro che desiderano realmente un cambiamento mediante una nuova visione di città.

L’associazione, che vede presidente Antonio Brogno, vicepresidente Maria Esposito, segretario Federica Giannuzzi nonché l’assemblea dei soci quale organo collegiale, conta già tantissime adesioni e sostenitori.

Così prosegue la nota:

Siamo fiduciosi di poter interloquire con tutti coloro che hanno a cuore la nostra comunità, attraverso argomentazioni programmatiche sui temi più sentiti e di maggiore interesse.

Nei prossimi giorni l’associazione si presenterà al territorio con un incontro pubblico.

“Innoviamo” sarà protagonista assoluta delle sorti della nostra città

– conclude la nota.

Quando sentiamo parlare di malasanità pensiamo sempre agli ospedali del Sud, Sicilia compresa.
Ed invece il racconto di vita vera di Michela e del suo papà, il racconto della disavventura patita all’ospedale Sant’Orsola di Bologna dal 19 dicembre scorso e che dura ancora oggi, è significativa di come manchino tante, troppe cose nella sanità da nord a sud, e in primis, manca l’empatia, la voglia di essere utile al prossimo, manca l’umanità, manca il senso del dovere che dovrebbe spingere a fare il lavoro del medico, dell’infermiere, dell’Oss, dell’inserviente.
Di seguito il racconto che ho raccolto, l’ennesima denuncia, perché è giusto che si sappia cosa accade negli ospedali, spesso osannati per buona sanità, ma che devi provare assolutamente a scansare se …
Come primo punto fondamentale, al di là del motivo e indipendentemente dalla gravità di ciò che ti ha portato in ospedale, la prima cosa che ti devi augurare è che sia un giorno feriale. Perché un paziente nei giorni di domenica e festivi, smette di essere paziente, oppure detto meglio, deve esserlo ma nel vero senso del termine e incrociare le dita sperando di poter arrivare presto e velocemente al primo giorno feriale successivo. Sembra paradossale, ma purtroppo è così. Se poi ti dovesse capitare, come nel caso di mio padre, di accedere pochi giorni prima di Natale … allora beh… la cosa si complica e di parecchio.
Non parliamo nemmeno dell’eventualità che tu sia un paziente “fragile”, del tipo che magari coltivi da anni alcune patologie, li il rischio di non cavarci la pelle diventa esponenziale.
Da qui la mia triste e surreale storia, o meglio, quella di mio padre da 20 giorni ricoverato in ospedale vittima inconsapevole di una malasanità imbarazzante.
Tutto ha inizio domenica 19 dicembre, quando nel prepararlo per la notte, scopro il pannolone completamente asciutto. Campanello d’allarme.
Voi mi direte: beh per così poco?
Dovete sapere che mio padre (83 anni) non è un paziente che potremmo definire “fragile”, ma fragile al cubo: affetto da una malattia degenerativa da oramai una decina d’anni (in tutto questo tempo non sono riusciti a fare una diagnosi precisa), allettato, incapace di intendere, di parlare e di muoversi, portatore di peg (alimentazione tramite sondino gastrico… “regalo” di un precedente ricovero…). Praticamente l’emblema della fragilità. A parte questo quadro clinico molto impegnativo, per tutto il resto gode di una ottima salute: esami sempre perfetti tanto che mia mamma (di un anno più giovane) è spesso risentita perché a un controllo incrociato, i suoi esami sono peggio.
Torniamo a noi.
Campanello d’allarme.
È domenica sera, quindi si chiama la guardia medica. La guardia medica, consiglia di andare subito al pronto soccorso. Eccallà la parola magica: pronto soccorso. Mi di rizzano tutti i peli solo al sentirla pronunciare: pronto soccorso. Purtroppo viste le precedenti esperienze cerco di capire se non c’è altra possibilità, magari che la guardia medica venga prima a visitarlo a casa magari anche a pagamento. No assolutamente no. La cortesia che ci muove è quella di chiamarci l’ambulanza. Grazie.
Dalle 21.30 che mettiamo giù il telefono, alle 01.00 siamo in pronto soccorso.
Mio padre entra direttamente con l’ambulanza e io entro in sala di aspetto.
Spero in cuor mio che gli abbiamo dato almeno un codice arancione che leggo sul monitor essercene solo 5 in attesa, perché di verdi ce ne sono ben 18… azzurri e bianchi non li considero nemmeno.
Dopo due ore mi convocano e il medico di turno mi spiega la gravità della situazione: setticemia.
Lo trovo in un gabbiotto, sulla barella con la maschera di ossigeno e una flebo attaccata. E così rimane per ben due giorni perché “ci dispiace ma non abbiamo posto per ricoverarlo”. Evito di descrivere la situazione di quei due giorni passati li.
E intanto io veglio e prego accanto a lui senza abbandonarlo un solo attimo.
Finalmente dopo due giorni ci trovano un posto: medicina interna.
Il primo “regalo” appena lo visitano in reparto è scoprire una piaga di 4o grado sul sacrale e una nella coscia destra: in confronto alla setticemia, le piaghe sono trascurabili…
E così passano i giorni, io e mia mamma e la badante a darci il cambio perché mio padre ha bisogno di una assistenza “h24” e non posso fare tutto da sola.
La terapia sembra funzionare, i valori dell’infezione migliorano costantemente, i polmoni sono a posto, i reni pure, il cuore è un portento anche se i medici dicono e ripetono che con pazienti così fragili non si può mai dire di essere fuori pericolo. E va bene, oramai è prassi che mi senta dire che mio padre è un paziente sul chivalà.
E poi il primo dell’anno arriva la bella notizia: finiscono la terapia antibiotica il 5 e il 6 gennaio lo dimettono. Deo Gratias.
Tutto sembra procedere per il meglio… quando in camera (in dieci giorni si erano avvicendati diversi degenti) vengono portate due pazienti entrambe affette da polmonite: mio padre paziente “fragile” nella stessa stanza con due affette da polmonite… da li la tragedia. Dopo pochi giorni (il 4 per l’esattezza) una delle due (quella che strangosciava interrottamente maledicendo il Signore per avergli inferto un simile supplizio, ovviamente tutto questo senza aver indossato per un solo minuto la mascherina) viene trovata positiva al covid.
Lei viene immediatamente spostata e agli altri viene fatto un tampone di controllo: tutti negativi. La camera diventa immediatamente area covid quindi per entrare bisogna bardarsi come palombari… e va bene
Quello che non va bene è che la sera stessa mio padre ha un picco di febbre fino a 39.4.
I medici evidentemente non pensano al covid ma a una nuova possibile infezione alle vie urinarie (vai a capire il perché…) e gli fanno sostituire il catetere prelevando nel mentre un campione biologico per fare nuovi accertamenti. In reparto però non hanno un catetere della sua misura e ne mettono uno più grande. Risultato? Una notte passata a fare lavaggi alla vescica con siringhe piene di sangue e coaguli. E il giorno dopo arriva l’altra batosta: tampone positivo.
E così a due giorni dalla dimissioni veniamo trasferiti al reparto covid con l’aggiunta dell’incognita sangue nelle urine.
Mia madre intanto a casa si fa un tampone di controllo e risulta positiva, la badante pure.
Lo faccio anche io: negativo. Fantastico
Sono una highlander ce la farò.
E così adesso sono qui seduta in una camera del reparto covid tutta bardata come una mummia: doppia mascherina, tutta anti traspirante, visiera e doppi guanti, sudata, senza poter bere, né mangiare, né fare pipì, dopo aver avuto l’ennesima discussione con il medico di turno (oggi è domenica… e il medico di reparto non c’è..) per rivendicare non chissà cosa solo il minimo di assistenza sindacale, circondata dalla supponenza e costretta a supervisionare il mio povero padre colpevole solo di aver avuto bisogno di ricevere delle cure. Tutto qui.
Non so quando usciremo, se usciremo e se sì in che condizioni usciremo, ma vi assicuro che quello che è capitato a mio padre purtroppo non è assolutamente un evento straordinario ma potrebbe capitare anche a vostro padre o madre o fratello o sorella o amico o amica, perché se come me che non fai parte del sistema e che stai in ospedale dalle 15/20 ore consecutive e non solo per quei 45 minuti giornalieri concessi a chi non ha parenti “fragili”, ti rendi conto purtroppo di tante cose dalle più piccole e banali alle più grandi.
Tipo?
Beh tipo che se hai bisogno e suoni il campanello, prima che qualcuno ti dia udienza possono trascorrere anche 10 minuti: in effetti se sei un paziente, qualcosa vorrà pur dire.
Tipo che devi imparare alla svelta a distinguere chi sono i medici, gli specializzandi, la caposala, gli infermieri, chi gli Oss, chi i semplici inservienti (ovviamente su tutti i turni) perché ognuno ha le sue competenze e guai a chiedere alla persona sbagliata.
Tipo appunto che se ti capita di chiedere a un infermiere se può posturare tuo padre, ti guarda offeso e va via a culo dritto sbuffando “ora passano i colleghi” e li ai 10 minuti se ne aggiungono altri 10 e più.
Tipo che mezz’ora prima e mezz’ora dopo il cambio turno (ce ne sono ben 4 nell’arco della giornata) puoi spingere il bottone, essere in agonia, metterti a urlare, ti devi mettere il cuore in pace perché tanto non arriverà nessuno.
Tipo che se tu hai i diverticoli (non parlo di mio padre eh, lui è quello sano come un pesce!) e il medico di fa una dieta a base di pasta al pomodoro e mela che lo sanno anche le galline che con i diverticoli è veleno e tu ti sfoghi con l’inserviente che ti ha portato il pasto e lui allarga le braccia “non posso farci nulla, l’hanno detto i medici” e così pure quella che avendo problemi di masticazione non c’è stato verso di farsi dare una minestrina in brodo (si proprio quella, la classica minestrina insapore e inodore neppure se ci aggiungi tre etti di grana grattugiato dentro): no pure a lei è toccata la pasta al pomodoro…
Tipo che se ti sporchi e il turno degli inservienti nella tua camera è già passato, aspetti il turno dopo…
Tipo che se ti tengono tuo padre due giorni con la flebo pensi che debba rimanere a digiuno e invece scopri che la sua nutrizione è stata ordinata ma non arriva e me lo tieni a flebo senza dirmi nulla, dai lo capisci anche tu che non stai lavorando bene. Lo chiedi e te la porto io da casa eh.
Tipo che ora mi viene in mente anche la mia surreale vicenda di 4 anni fa (chi mi conosce sa tutto) e tutto torna senza soluzione di continuità.
Tipo…
Tipo che la lista sarebbe ancora lunga ma sono talmente stanca e provata che la finisco qui.
E siamo in una città virtuosa di una regione virtuosa…
Statemi bene, mi raccomando.

Se n’è andato, è scivolato via da questa vita in un’altra dove speriamo non si provi più dolore.
È morto Gianluca Vialli,  a 58 anni, campione nel calcio e nella vita, dopo aver resistito con tutte le sue forze a quel “compagno indesiderato”.

Un campione che segnava gol eccezionali, un uomo eccezionale, che lascia questa vita dopo aver vissuto con dolcezza e spavalderia, amando e rispettando tutto e tutti, anche quel male che non gli ha lasciato lo spazio giusto per dribblare e vincere.

Ha combattuto con tutte le sue forze, è stato simbolo di vita e gioia di vivere. Riservato, innamorato della sua famiglia, viveva ormai a Londra dove negli ultimi giorni era ricoverato per l’aggravarsi della sua malattia, di quel maledetto tumore al pancreas diagnosticato nel 2017.

È la sua famiglia a dare notizia della sua dipartita:

Con incommensurabile tristezza annunciamo la scomparsa di Gianluca Vialli circondato dalla sua famiglia è spirato la notte scorsa dopo cinque anni di malattia affrontata con coraggio e dignità. Ringraziamo i tanti che l’hanno sostenuto negli anni con il loro affetto. Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori.

Che vita la sua!

A 16 anni lascia la scuola e incomincia a dedicarsi solo al calcio. Il diploma lo prenderà quando sarà già famoso, quando per tutti sarà un campione. Poi il professionismo, il suo modo di calciare, fresco, efficace, agile, tanto da consacrarlo tra i migliori al mondo. Tra i migliori attaccanti tra gli anni 80 e 90, ha realizzato 300 goal in partite ufficiali.

Sarà nella vita un grande amico, che sa  cogliere occasioni ma sempre con sensibilità.

Ai ricercatori che si occupano di tumore disse:

Forza e coraggio ragazzi, abbiamo bisogno di voi. Buon lavoro

Il 14 dicembre scorso l’ex attaccante della Nazionale aveva lasciato il ruolo di capo delegazione degli azzurri con un messaggio:

Al termine di una lunga e difficoltosa ‘trattativa’ con il mio meraviglioso team di oncologi ho deciso di sospendere, spero in modo temporaneo, i miei impegni professionali presenti e futuri. L’obiettivo è quello di utilizzare tutte le energie psico-fisiche per aiutare il mio corpo a superare questa fase della malattia, in modo da essere in grado al più presto di affrontare nuove avventure e condividerle con tutti voi. Un abbraccio.

Adesso in paradiso c’è la più grande squadra di calcio dell’universo.

 

C’è qualcosa che va molto oltre la fede, oltre quel sentimento indefinibile, potente e prepotente che prova chi “si fida” di qualcosa che non può vedere né verificare con i mezzi concessi all’essere umano.

C’è qualcosa di molto meno pregevole della fede, nella macchina organizzativa e in tutto quello che ruota intorno alla morte di Papa Ratzinger venuto a mancare l’ultimo dell’anno, e che ancora “non trova pace”.

Allora sarebbe interessante soffermarsi e analizzare questo “qualcosa” che mette in piedi un impegno e un incredibile dispendio di energie e mezzi per giorni e giorni, per celebrare le spoglie umane e mortali di un Papa Emerito che – come tutti i papi – deve essere conservato, preparato, mostrato, adorato, per l’appunto celebrato e poi, dopo giorni, tumulato lì dove lui stesso ha deciso di essere sepolto.

È a mio avviso interessante interrogarsi sul perché ad un uomo (benché Papa), non un santo, venga riservata tanta attenzione. Per giorni e giorni, i giornali gli hanno dedicato pagine e pagine per raccontarlo in tutte le maniere, così come hanno fatto i Tg che da 4 giorni hanno abbandonato tutto il resto, per raccontare quel che è accaduto nell’attesa del funerale che verrà trasmesso a reti unificate, solo domani a 5 giorni dalla sua dipartita.

Le risposte dei “fedeli” alla domanda sul perché siano giunti a Roma per dare un ultimo saluto al Papa, sono state delle più diverse. Da chi lo ha fatto perché amava quel Papa, a chi lo ha fatto con tutti i Papi che hanno attraversato la loro vita.

Eppure c’è qualcosa che un po’ angoscia in questa spettacolarizzazione della morte, seppur papale. Vedere lavorare operai per giorni, dediti a montare palchi, luci, transenne, come si fa per i concerti delle rock star; e sapere che “si può accedere anche senza invito fino ad esaurimento posti”, fa un certo effetto, se prendiamo un po’ le distanze dal ruolo che un papa ha – o forse dovrei dire – dovrebbe avere.

E per “durare così tanto” le spoglie umane di Papa Benedetto XVI sono state sottoposte alla tanotoprassi, una sorta di imbalsamazione temporanea, che permette al corpo di non decomporsi, nella fase post mortem. Pensate all’equipe che si occupa dell’aspetto estetico (proprio così è una pratica estetica)  che ha provveduto a iniettare nel sistema arterioso un fluido conservante, una particolare tipo di formaldeide. E poi trucco, parrucco, vestizione.

Pronto ad essere “mostrato”, sotto gli occhi di curiosi, oltre che di fedeli.
Perché il voyeurismo è insito nell’uomo, è il segno di una curiosità un po’ perversa, quel guardare dal buco della serratura tutto ciò che è lontano dal proprio vivere, ed anche la morte di un Papa che non era più “il papa” ma “un papa”, intriga.
Una sorta di distrazione di massa, autorizzata però.
Ed intorno un discreto business. E non ditemi che non c’avete pensato.
Una città, la città eterna che pullula di turisti fuori stagione, che arrivano ma nessuno li aveva considerati, che prendono posto in alberghi, ristoranti e che “già che ci sono” fanno un giro in un museo, in un locale, in un negozio di griffe.
Uno spettacolo, in piena regola, un po’ religioso un po’ no.
Un evento, raro (come si dice: succede una volta ogni morte di papa), ma pur sempre un evento e come tale viene trattato.
La fila per vederlo (con in mano coca e panino), per pregare (forse), per adorarlo (come se fosse un santo).
Ah già … vogliono proporlo alla santificazione.
Sarebbe da capire bene per quali motivi, e non vorremmo certo che si finisca per non negare a nessuno una santificazione come se fosse un semplice altro titolo di quelli che si usano ormai anche come intercalare.

Insomma oltre a cardinali e vescovi, domani ai funerali di Papa Ratzinger ci saranno 3.700 preti.
Tutto il mondo avrà rappresentati istituzionali. Arrivano anche i Re e le Regine.
Tutto in pompa magna, dove per magno, si intende potere, e sinceramente non esiste nessuno più potente di un Papa anche se emerito e adesso defunto.

La fede, lo studio, la conoscenza porta ognuno a vivere a proprio modo questo evento.
Ognuno ha per se un giudizio, perché se Dio non giudica, l’uomo sì ed è forse la cosa che gli riesce meglio.
Ed anche Ratzinger è stato un uomo (di Dio) che ha operato delle scelte, che ha avuto una opinione, che ha studiato e ha dato la sua versione su molte cose che uniscono (o contrappongono) da sempre il sacro e il profano, la scienza e la fede, il laico e il religioso.
Non si vuole pertanto giudicare la sua figura, ma tutto ciò che è ben lontano dalla semplicità e l’umiltà che la chiesa impone ma dalla quale prende le distanze quando deve esporre la potenza indiscussa del Vaticano e del capo della chiesa, colui che discende da Pietro.

Alla fine è la prima volta che muore un Papa Emerito, e forse la curiosità è tutta lì.
Personalmente se proprio dovessi esprimere una curiosità in merito, mi piacerebbe leggere il rogito, quel testo scritto che descrive il suo pontificato, che è posto in un cilindro di metallo, all’interno del feretro. Sì perché insieme a quelle cose così terrene ed effimere come monete d’oro e medaglie coniate durante il suo pontificato e ai paramenti liturgici indossati, c’è anche qualcosa di meno materiale e più spirituale.
Perché alla fine, è lo spirito che si “festeggia” durante un funerale, sempre che qualcuno se ne ricordi oltre la coltre di quello spettacolo che va in scena domani alle 9.30. E mi raccomando … puntuali.

 

 

 

 

 

… A te e famiglia.

Molti passeranno il tempo delle festività a rispondere a messaggi ciclostile, mandati a tutti, come se un messaggio uguale per tutti possa mettere tutto a posto, mettere in pace le coscienze, o dare il senso a questa festività.

Peccato che non basti, che non sia mai bastato tutto questo, compresi i regali dell’ultimo momento, simbolo di festività dedite solo ad un consumismo compulsivo che accomuna sotto il segno dell’apparire e quasi mai dell’essere.

Davanti al mio dissenso circa questo Natale, davanti alla mia voglia di restare in silenzio, di non rispondere agli auguri e di non consegnarne, davanti alla mia inquietudine, tristezza, malinconia circa quello che sta avvenendo nel mondo (mai troppo distanti da noi) mi sono sentita rispondere “ma mica possiamo piangerci tutti i guai del mondo“.

Ed è qui che queste persone si sbagliano: non solo possiamo, ma dobbiamo.
Dobbiamo assolutamente mettere da parte egoismo, indifferenza, senso di superiorità, menefreghismo e riscoprire le uniche due cose che andrebbero impacchettate e consegnate al destinatario più prossimo: speranza ed empatia.

Non possiamo girarci dall’altra parte e non si può più dire: “ma io cosa posso fare?
Perché si può fare  … e molto.
Si può prendere parte ad un progetto di solidarietà, si può prendere una posizione, si può dire la propria, si può rinunciare a qualcosa, ad un Natale come tutti gli altri, anche solo per rispetto a tutto quello che sta accadendo. E se proprio per davvero, si vogliono “piangere tutti i guai del mondo” basta un gesto, semplice, silenzioso, accorato e pieno di amore, dello stesso Amore che nasce la notte di Natale e che non ha nulla a che fare con “ricchi premi e cotillion”.

Perché dietro ad alberi superaddobbati e a chi ostenta a “chi ce l’ha più grande e più bello”, dietro i numeri del consumismo, delle milioni di persone in vacanza come sempre (che alla fine non rinunciano a nulla e se ne fregano di ciò che di terribile sta accadendo nel mondo) c’è una realtà che è non solo immensamente triste, ma tremendamente ingiusta.

Ditemi come si fa a non pensare ai bambini sotto le bombe e al freddo, a chi resiste ma non ce la fa più, che non ha più nulla, neanche un futuro da sperare.
I nuovi poveri, coloro che un tempo avevano di che mangiare e oggi sono in fila per un pasto caldo, che oggi, come ieri e pure come domani, non hanno nulla, neanche la speranza di un giorno normale.
Gli anziani soli e spesso abbandonati, che non “riconoscono” più la vita, perché la sopravvivenza è fredda, sterile e fa male, molto male.
I bambini piccoli che muoiono nelle acque del mediterraneo, che non sanno cosa sia il Natale e che non sapranno mai, che sentono il sonno dell’assideramento rapirli e portarli via, mentre la speranza annega insieme a loro.
Le vittime di un regime che vieta alle donne di studiare, di investire in un futuro e che piangono quella speranza che si fa sempre più piccola ma che provano a lottare; e se non dovessero lottare da sole, sarebbero più forti e più tenaci.
I condannati a morte in pubblica piazza per crimini che non esistono, perché semplicemente hanno “respirato la vita”, senza velo in testa, ribellandosi a quella morsa che rende la vita buia, perché senza libertà non esiste la luce del domani.

È un Natale dunque, senza il “camino del mondo”, senza libertà, senza cibo, senza crescita, senza vicinanza, senza solidarietà.
E la solidarietà non è soltanto un aiuto ma un investimento affinché gli altri possano non sentirsi soli.
La carità non è solo un modo per lavarsi la coscienza, ma anche per colmare il vuoto che abita il cuore di chi non ha nulla da mangiare, ma neanche la speranza. Ed è per questo che un dono a chi ha non ha nulla, insieme ad una chiacchierata può essere un regalo meraviglioso. Un pacchetto rosso con dentro la speranza.

Il mondo è distratto, l’occidente è distratto, è con lo sguardo alle proprie misere cose, mentre l’altra faccia del mondo è sotterrata dalle macerie del vivere, di un vivere spaventoso, che fa orrore, che chiede a tutti di schierarsi, di non “lasciare che sia”, di piangere sì le sorti di chi non ha abbastanza voce.

Direte: “Simona ma cosa possiamo fare, concretamente?”

Posso solo dirvi quello che farò io, anzi ciò che non farò.
Non ostenterò nulla, non mi tufferò nel consumismo a tutti i costi, non ricorrerò ad inutili sovrapprezzati regali dell’ultimo momento, non invierò auguri a nessuno.
Proverò a tendere la mano, a dividere quel che ho con chi non ha nulla, proverò ad “esserci” lì dove c’è il buio, la paura di non farcela, dove c’è la solitudine e la fame.
Urlerò il mio dissenso sempre verso ciò che è censura, violenza, privazione di ogni qualsivoglia libertà.
Userò il mio ruolo per tenere alta l’attenzione sui soprusi e i drammi che sono proprio lì, fuori dalla porta delle nostre case, perché nulla è così lontano, se sappiamo guardare senza lasciarci distrarre da tutto ciò che è effimero e destinato a spegnersi allo scadere di una collaudata mezzanotte.

Il mio augurio ve lo lascio qui, cari lettori:

Che sappiate ancora stupirvi davanti alle scelte del vostro cuore, che sappiate commuovervi e soffrire davanti al dolore di chi nulla chiede se non che ci si metta al loro fianco anche se geograficamente lontani; vi auguro di abbuffarvi di solidarietà anziché di torroni e che sappiate esprimere sempre un desiderio che possa coniugarsi con la parola “speranza” che è l’unica luce che non deve spegnersi mai.

 

BUONE FESTE DA ME, DAL DIRETTORE CASTALDO E DA TUTTA LA REDAZIONE DI SICILIA24H.IT