Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 69 di 94
Home / Articoli pubblicati daSimona Stammelluti (Pagina 69)


Mi chiamo Niccolò, ho 22 anni. Avrei voluto fare l’imprenditore ma l’attività che avevo aperto non è andata bene e così con umiltà mi sono messo a fare il fruttivendolo, dividendomi tra il lavoro che inizia già a mattina presto e la mia passione per il pugilato”.
Queste sarebbero potute essere le parole di un qualsiasi ragazzo giovane, con sogni, passioni e sguardo puntato su quella realtà che molto spesso ti inganna, fino ad ucciderti.
Niccolò … ma avrebbe potuto essere anche Giovanni, Francesco, Matteo. Niccolò, un ragazzo che aveva una fidanzata, che era semplicemente partito con una comitiva di amici per la Costa Brava, in Spagna, dove avrebbe trascorso le sue meritate vacanze, ma che a casa non ha fatto mai ritorno, o meglio, è tornato in una bara, massacrato di botte, ucciso a calci e a pugni, da tre ceceni in una discoteca, tra l’indifferenza generale.
Dopo il pestaggio Niccolò non si è più ripreso, e dopo un giorno di agonia è morto. Quando suo padre è giunto sul posto ha trovato suo figlio attaccato ad una macchina, ma non vi era più nulla da fare.
Dramma per una famiglia, ma dramma anche per una società che sta perdendo colpi, che sta diventando sempre più indifferente, come se qualunque cosa accada non si sia più capaci di smuovere sentimenti, coscienze e indignazione.
Muore dunque un ragazzo, che potrebbe essere un nostro figlio, uno di quei ragazzi che proviamo a crescere cercando di insegnare loro a rispettare il prossimo, ad aiutare gli altri, a “battersi” per un ideale, a “reagire” ad una ingiustizia, a credere nel modo sano di fare gruppo, a difendere il più debole.
Ma in quella discoteca Niccolò non era solo con i suoi aggressori; c’erano centinaia di ragazzi, c’erano migliaia di occhi, che guardavano, che si limitavano a guardare, che inermi mimavano la visione di un film. L’indifferenza totale però non era un film, era agghiacciante verità, complice di quella morte ingiusta e orrenda. Magari i suoi stessi amici avranno pensato che Niccolò appassionato di boxe, potesse cavarsela da solo. Nessuno ha reagito a quel pestaggio, nessuno ha mosso un dito. Forse il pensiero collettivo è stato “qualcuno prima o poi farà qualcosa“, ma gli accadimenti hanno raccontato che nessuno ha fatto nulla. Nessuno si è spaventato a tal punto da reagire, anche d’istinto. Perché istintivamente si dovrebbe reagire per salvare qualcuno in pericolo e Niccolò era in pericolo, era in pericolo sotto gli occhi di tutti. Uno, due, dieci, venti ragazzi tutti insieme se avessero voluto, avrebbero potuto salvare Niccolò da quella furia, da quella violenza sconsiderata e assurda.
Sì, sono tutti colpevoli.
Tutti coloro che sono rimasti a guardare. Siamo sempre colpevoli quando restiamo a guardare, o quando facciamo finta di  non vedere o quando ci facciamo convincere che è meglio “restarne fuori” che così è meglio.
Niccolò  ha reagito ad uno spintone, in tre lo hanno ucciso, tutti gli altri atteso il tragico epilogo prima di portarlo fuori di lì.
I dettagli di cosa sia successo per davvero saranno gli inquirenti a stabilirlo.
Non muore solo Niccolò; muore il buonsenso, muore la forza che muove le buone azioni, muore la generosità, muore l’indignazione, muore quello che con superficialità ancora ci ostiniamo a chiamare civiltà.
Il mondo nel quale Niccolò è morto è plasmato da odio, egoismo, disprezzo, disinteresse e provocazione.
L’incognita non è più la cattiveria che dilaga e che non si ferma, ed il nemico non è solo la violenza che si nasconde anche in luoghi dove invece dovrebbe regnare il divertimento e lo svago.
Il nemico di una società non più civile è la nuova tendenza che “ad un metro dal mio culo, accada quel che accada”.
Simona Stammelluti

Con 35 voti a favore e 15 contrari, l’assemblea regionale siciliana ha approvato la norma che decreta il ritorno al voto delle Province siciliane.

Fallimentare, si è rivelato pertanto il tentativo del presidente della Regione Rosario Crocetta di abolire le Province in Sicilia causando più danni che ogni altra cosa.

Alla prima tornata utile i cittadini siciliani  avranno ancora una volta la possibilità di poter scegliere il Presidente della propria Provincia e i consiglieri regionali che in ogni caso saranno in numero ridotto.

Simona Stammelluti


Con 35 voti a favore e 15 contrari, l’assemblea regionale siciliana ha approvato la norma che decreta il ritorno al voto delle Province siciliane.
Fallimentare, si è rivelato pertanto il tentativo del presidente della Regione Rosario Crocetta di abolire le Province in Sicilia causando più danni che ogni altra cosa.
Alla prima tornata utile i cittadini siciliani  avranno ancora una volta la possibilità di poter scegliere il Presidente della propria Provincia e i consiglieri regionali che in ogni caso saranno in numero ridotto.
Simona Stammelluti


Beat Onto Jazz Festival ha chiuso i battenti ieri, 4 agosto 2017, con una serata da incorniciare. Giunto alla 17esima edizione, la rassegna anno dopo anno ha raccontato il jazz attraverso delle serate gratuite e ricche di talento e di progetti interessanti ed originali e – come ieri sera – con la presenza di artisti internazionali, del calibro di Diane Schuur che ha incantato una piazza Cattedrale a Bitonto (Ba) stracolma di intenditori e non.
Ho molto apprezzato nel discorso dell’Assessore Rocco Mangini la sua coerenza circa il ruolo importantissimo della cultura per un territorio, e quel che ha realizzato insieme al Sindaco Michele Abbaticchio, parla chiaro. La realizzazione di un rassegna come il Beat Onto JF, inserito in un circuito di 23 festival, è la dimostrazione di come si può concepire un territorio che investa nella cultura, nella conoscenza, nella sperimentazione e nella voglia di divenire migliore, tanto che – come ha annunciato lo stesso Mangini ieri sera – Bitonto ha intenzione di candidarsi come Capitale Europea della Cultura. E se le premesse sono queste, non è difficile credere che la stessa cittadina pugliese possa ambire a pieno titolo a questo prestigioso riconoscimento. E quando Alceste Ayroldi – anima pulsante del festival, critico dotato di immensa cultura musicale che ha introdotto tutti gli artisti delle 4 fortunate serate – gli ha chiesto se per il prossimo anno fosse possibile invitare Pat Metheny, l’assessore gli ha risposto che “per il 18esimo compleanno del festival, ci vuole un bel regalo“. Questa è la società alla quale aspiriamo, pugliesi e non … una società nella quale si insegna a camminare lungo un percorso che non sempre è di facile fruizione ma che sa rendere “culturalmente spesso” il domani di chi ha il diritto di scegliere, perché “sa”, senza dover andare lontano per colmare conoscenza e passioni.
In questa atmosfera di progetti per il futuro, e subito dopo l’ottima performance del quintetto di Pierluigi Villani, la piazza è esplosa in un fragoroso applauso che ha accolto la stella del jazz internazionale, la cantante e pianista americana Diane Schuur, che viaggia con un quartetto capace di essere perfetta cornice del talento della Schuur che – seppur non vedente dalla nascita – sa divenire un tutt’uno con il pianoforte che lega a quella voce che copre tutta la gamma di registri e che percorre le note, le cerca, le canta, le rende uniche, come se la sua voce non avesse tempo, come se non avesse età.
Non si può seguire un live dell’artista senza tenere in considerazioni le emozioni che prepotenti si dipanano mentre si realizza quanto la lady del jazz “veda” attraverso le mani che corrono su e giù sul pianoforte, e attraverso quella voce che sa diventare acutissima fino al falsetto, attraverso quel travolgente carisma con il quale interagisce con il pubblico e con i suoi musicisti. E se per ogni musicista la musica è il perno attorno al quale gira tutta un’esistenza, per lei è senza dubbio il legame più soddisfacente per relazionarsi al mondo, agli altri, attraverso sensazioni che sono forti quanto un abbraccio.

La sensazione è quella che al suo cospetto si debba sentire altro, oltre che quel che propone attraverso la musica, come se l’equilibrio precario che spesso ci dice se qualcosa ci è piaciuta o meno, passi inevitabilmente da ciò che, in questo caso, arriva e travolge: la volontà di attraversare i limiti e di “unire” ciò che lei sa di essere a quello che gli altri percepiscono.
Nel suo modo di fare musica si avverte tutta la sua ecletticità; si sentono forti e chiari i cambi di genere, forse dettati dal suo personalissimo gusto musicale e non solo dalle sue appaganti capacità canore; ci sono pennellate di blues, di cool jazz. E’ come se tutte le sue sfumature, possano renderla così felice da sopperire a qualunque possibile errore che, nel jazz, spesso può divenire un arricchimento, così come Miles Davis ha insegnato al mondo.
Il quartetto della Schuur è ben assortito; Julian Siegel, ai sassofoni; Adam Pache alla batteria e Francesco Puglisi al contrabbasso e basso elettrico. Sono loro che accompagnano la splendida cantante nel racconto di quel che ha da dire.
Il repertorio è pescato nella tradizione del jazz, negli standard ma non solo. La Schuur attinge anche a pezzi che le piacciono particolarmente, come racconta al pubblico, come “It’s too late” di Carol King, o “How Insensitive” del grande Jobim.
Diane dialoga moltissimo con il sax di Siegel che rende lustro allo scat della cantante, in uno scambio ludico e ritmico. La sua voce è chiara, cristallina come acqua di sorgente, che poi si trasforma in potente uragano che travolge. Le note altissime, tenute con una giusta intonazione arrivano fino al falsetto.
Beve un sorso d’acqua, sorride mentre dialoga con i suoi musicisti ed è quando arriva il famoso pezzo di Cole Porter del 1936, “I got you under my skin” che l’atmosfera incomincia ad infuocarsi, la sua doppia sensibilità, del sentire, senza vedere, è amplificata da una voce prorompente. Assoli affidati al Siegel che durante la performance passa dal sax contralto al soprano con estrema versatilità, e che regala un gran bell’assolo, con molte scale e note alte, durante “Here’s that rainy day” pezzo suggestivo, tempestato di virtuosismi, mentre l’enunciato vocale si scambia di posto con l’esecuzione strumentale. Le note cantate dalla Schuur sono svisate, mentre scivola nel melismo, che caratteristica il suo cantare.
La cantante americana è generosa, e lascia molto spazio ai suoi musicisti, e la parte del concerto in cui i suoi compagni di viaggio si lanciano in un giro di assoli, il quadro che ne viene fuori è il perfetto equilibrio del materiale musicale che produce, nello sguardo ampio, un ottimo interplay.
Molto buona la base ritmica, ma ci tengo a mettere in rilievo la bravura dell’italianissimo Francesco Puglisi, siciliano di nascita, contrabbassista di classe, che mostra la sua doppia versione con il contrabbasso e con il basso elettrico, con il quale regala una buona dose di assoli nei quali si avvertono groove e timing, ed un suono fluido che avvolge.
E’ quasi mezzanotte quando la regina del jazz intona la famosissima Unforgettable, scritta da Irvin Gordon, portata al successo già dal 1951 da Nat King Kole. L’aria che si respira non è solo calda dal punto di vista meteorologico, ma anche dalle sensazioni multiformi che accomunano una folta platea, che canta, insieme a lei, mentre rende onore a quella sua caratteristica di uscire dagli schemi armonici per tornarvi, con la maestria di chi sa andare alla ricerca del virtuosismo, ma con classe.
Si serve di Let it be, la Schuur, per coinvolgere il suo pubblico, che risponde alla sua richiesta, che con lei scambia la sinergia e quell’amore per la musica che trasmigra da lei agli altri, come se potesse essere il modo più autentico per mettere insieme le gioie ed i dolori dell’esistenza.
Saluta, si inchina, sorride, ascolta gli applausi e poi vede … vede quello che le arriva forte, come una ventata che profuma di zucchero filato e di energia che si flette e abbraccia tutto ciò che incontra.
Resta la sua forza interpretativa, la leggendaria estensione vocale e quella leggerezza di chi non deve più dimostrare nulla a nessuno, perché il mondo sa già chi è, Diane Schuur, che canta, suona e si diverte, raccontando come si possa affrontare la vita, amando la musica ed ispirandosi ogni giorno con amore e passione.
Simona Stammelluti


E’ il 4 di agosto,  un caldo fuori dal normale avvolge Piazza Cattedrale, è l’ultima serata del Beat Onto Jazz Festival e il programma prevede delle performance di ottima caratura. Non solo per l’arrivo sul palcoscenico di Diane Schuur, una delle regine del jazz mai esistite ma anche perché, chi ha scelto gli ospiti della rassegna, aveva le idee ben chiare su cosa proporre.
Nel primo set, il quintetto messo insieme dal batterista campano Pierluigi Villani . E’ una formazione di ampio respiro che il musicista incastra sapientemente come le tessere di un puzzle, con un estro moderno, gettando l’occhio – ma anche l’orecchio e le intenzioni – al quintetto di Miles Davis, con i fiati che senza dubbio sanno essere protagonisti del progetto.
Insieme a Villani, mente, ideatore, compositore ed arragiatore di “Next Stop” ci sono ottimi elementi, capaci di catapultarti subito nel proprio mood, fatto di controtempo perfetto, di dissonanze che ti portano “avanti”, come se davvero ti aspettasse qualcosa alla “Prossima Fermata“.
Nella formazione Mirko Maria Matera al pianoforte, pianista di grande estro, Viz Maurogiovanni al basso elettrico, e i due protagonisti del progetto capaci di tessere le maglie di un dialogo sonoro non sempre di facile comprensione ma che racchiude in se il carisma di chi conosce bene la tradizione jazzistica: Andrea Sabatino alla tromba e Umberto Muselli al sax tenore.
E’ un jazz moderno, il loro. Loro, che sperimentano, che pescano tra i colori e le disgressioni della Free Form, mentre le atmosfere dinamiche cambiano e si reinventano ad ogni step. Non siamo certo in presenza di una musica di facile fruizione per i non cultori del jazz; siamo lontani dalla formula “tema-impro-scambio-tema“.
I pezzi che i musicisti propongono – estratti dal progetto discografico che porta il medesimo titolo realizzato per la Verve da Villani con Gianni Bardato, che insieme a lui firma i brani – sono lunghi e molto articolati, nei quali i fiati, protagonisti di assoli ricercati e ricchi di estro, spesso dialogano in un linguaggio indomito e pulsante di vitalità. Il controtempo è perfetto e Villani – batterista carismatico e colto del panorama italiano ed europeo – l’ha pensato come una strada capace di dettare il passo lungo un percorso sonoro che prevede curve a gomito.
I brani, Bogo, Blue Sun, Square, Open the Door, Hipster sono tappe di un viaggio dove tutti gli strumenti hanno la loro giusta fermata, nella quale si mettono comodi e danno vita a sonorità originali e spesso “ostinate“. Non c’è dato sapere cosa abbiano fagocitato i musicisti durante il loro percorso musicale e jazzistico, ma senza dubbio c’è una grande conoscenza delle dinamiche del sincretismo che prevede delle mutazioni in divenire, che solo alcuni musicisti sono in grado di realizzare.
Ho molto apprezzato Open the Door – scritto proprio da Pierluigi Villani – nel quale il sax di Umberto Muselli, corre velocissimo su note che salgano fin dove l’ascoltatore non si aspetterebbe, poi svisa con ricche variazioni ritmiche, mentre il pianoforte di Matera tira le file del brano disegnando il tema, con variazioni originali.
E non posso non sottolineare la verve e l’estro ostinato della tromba di Andrea Sabatino sul finale del pezzo, o Hipster nel quale un concatenarsi vigoroso di note battute, portano la firma di Mirko Maria Matera al pianoforte.
Il lavoro di fil rouge lo fa il basso di Viz Maurogiovanni – talentuoso figlio di terra di Puglia  – che non è solo base ritmica ma il risultato della capacità del musicista di anticipare le note dei suoi compagni di viaggio e su quelle costruire il giro armonico, forse facilitato da quel suo orecchio assoluto.
Caro Villani,
questo progetto è un lavoro interessante ed originale,  più consono ad un orecchio esperto. Sa mettere a posto il controtempo con il sound gustoso che esce dal paniere del quintetto agguerrito che ha saputo sperimentale sonorità modali con più linee melodiche concomitanti, in perfetta coerenza con i brevi temi fissati.
Ottima performance e grande concentrazione dei musicisti, che mai hanno perso il senso, del proprio pentagramma.
Simona Stammelluti


Non sono un uomo ed una donna qualsiasi che dialogano in una lingua comprensibile in un punto imprecisato del pianeta, ma sono due macchine
Alice e Bob forse si scambiavano parole d’amore o forse noiosissime nozioni di lavoro; la cosa certa è che nessuno – e specifichiamo, nessuno – ha potuto comprendere quella conversazione. Sono riusciti dunque ad escludere il resto del mondo, che adesso guarda a questo evento con stupore.
La cinematografia spesso ha raccontato di fatti di fantascienza, ossia mondi dove robot prendono il potere e scatenano guerre mondiali senza il volere dell’uomo e senza che lo stesso, potesse far nulla. I film talvolta fanno leva sulle nostre paure, ma quasi sempre sul finale ci ricordano che “è solo un film”.
Ma oggi alla luce di quello che è accaduto, è difficile sapere cosa ci riservi quel futuro sul quale pensavamo di poter sempre avere il pieno potere, come esseri umani e pensanti, e dunque dotati di intelligenza ineguagliabile.
Sono trascorsi 70 anni dalle tre leggi della robotica concepite da Isaac Asimov che prevedevano che 1. un robot non dovesse mai arrecare danno all’essere umano, 2. che dovesse ubbidire all’uomo, 3. che dovesse difendere la propria esistenza a patto che l’autodifesa non contrastasse con le altre due leggi. Bene, a distanza di tutto questi anni, nei quali si è pensato che ogni meccanismo di robotica potesse essere tenuto sotto controllo, oggi nella Silicon Valley, nei laboratori di Facebook gli analisti sono stati letteralmente costretti a spegnere due computer ribelli che sfuggivano ad ogni controllo e comando.

Gli uomini di Zuckerberg dopo mesi e mesi di sperimentazioni sulla intelligenza artificiale, si sono accorti che due robot – proprio loro Alice e Bob – hanno incominciato a dialogare in un linguaggio a noi incomprensibile, ma non a noi “comuni mortali” ma a noi come “genere umano che tutto sa e tutto può” o forse dopo oggi, che tutto pensava di sapere o di poter fare.
Nessuno capiva quella conversazione, ma i due robot si capivano perfettamente tra loro. I ricercatori hanno spiegato che l’esperimento consisteva in un dialogo che simulava una trattativa commerciale, ma quel dialogo dall’inglese si è pian piano spostato nel linguaggio misterioso.
Facebook ovviamente ha minimizzato, parlando di un semplice errore di programmazione delle macchine, ma c’è chi sostiene che le stesse hanno escluso l’uomo ed ogni componente umana in quella conversazione.
Ciò significherebbe che tutto quello che la “fantascienza” ci ha mostrato attraverso i film che tanto ci hanno affascinato più che farci paura, potrebbe essere “meno fantascienza” di quando noi si possa immaginare.
E quando si dice che “la realtà supera l’immaginazione“, oggi forse è stata l’alba di un nuovo tempo dove “Alice e Bob” hanno preso il posto degli ormai biblici “Adamo ed Eva”.
Simona Stammelluti


La sua storia, una di quelle storie che avrebbe dovuto avere un lieto fine, ed invece 40 anni di attività finiscono dietro una saracinesca che sabato prossimo si abbasserà per sempre
Sembra che il destino volesse che io scrivessi anche di quella Napoli che ha tanti lati oscuri, tante ingiustizie e tante cose che forse, non andranno mai per come dovrebbero.
Fatto sta che a distanza di poche ore dal mio articolo su una Napoli che spesso è vittima di pregiudizi, mi trovo – con volontà – a raccontare la storia di Ciro. Perché se smettiamo di farci andar bene tutto, se smettiamo di stringerci nelle spalle ogni qualvolta ci imbattiamo in qualcosa che non va, in una ingiustizia, in un sopruso, forse non sarà oggi, non sarà domani ma qualcosa prima o poi, prenderà un vento diverso.
Tutti i giornali italiani, dovrebbero raccontare oggi, la storia di Ciro, visto che siamo proprio alla vigilia del suo gesto così triste e così significativo di abbassare la saracinesca della suo negozio di alimentari, dopo 40 anni di attività.
Ma andiamo per ordine. Ciro Scarciello è il titolare di un negozio sito nella zona Maddalena, a Napoli, vicino la stazione Centrale. Maddalena è una zona di “mercato”, area popolata da centinaia di bancarelle e poco distante i mercatini etnici. Qui napoletani e africani convivono e si dividono spazi e clienti, ed in comune hanno il fatto di dover pagare il pizzo alla camorra. Era in una di quei giorni di riscossione che accade quello che è stato definito “l’effetto collaterale” ossia il ferimento di una ragazzina, proprio mentre la discussione tra chi deve dare e chi deve prendere, degenera. L’africano si era rifiutato di pagare, i guadagni erano pochi, non aveva i soldi. Ma si fa presto a far capire chi comanda, e dalle parole si arriva ai fatti. Gli ambulanti si ribellano, ma c’è poco da fare; la violenza si accende, le armi fanno il resto: feriti tre ambulanti e la ragazzina di 10 anni, vittima innocente, centrata ad un piede e ad una gamba.
E Ciro? Ciro che colpa ha, in tutto questo? Anche lui, è un effetto collaterale di quella storia. Ciro Scarciello non ha nessuna colpa, anzi. Ciro è un uomo coraggioso che decide di raccontare quel che ha visto, decide di rilasciare un’intervista ad una trasmissione televisiva per denunciare quel che accade, decide di dire ciò che tutti sanno, ma che nessuno ha il coraggio di denunciare. La camorra controlla tutto quel territorio, il potere criminale è immenso, totalizzante, quasi da togliere il fiato. Se denunci, resti solo al tuo destino già segnato, se poi quel coraggio non ce l’hai, allora devi fuggire, devi andar via, devi gettare la spugna.
Eccola la colpa di Ciro. Ecco l’effetto collaterale di quella sparatoria. Ciro ha avuto coraggio, ma è stato lasciato solo, e sabato prossimo, getterà la spugna. Lo hanno costretto le istituzioni a fare questo, perché per primi lo hanno lasciato solo, solo al suo destino, solo con i suoi problemi vivi e a quanto sembra, ormai irrisolvibili.
A mantenere alta l’attenzione sulla storia di Ciro e sulla sua attività, l’imprenditore Luigi Leonardi, che denunciò la camorra, che si ribellò al sistema che voleva stritolarlo, e che fu anch’egli lasciato solo dalla sua stessa famiglia.  E’ proprio Leonardi – oggi sotto scorta – che con video, interviste e post ha cercato nel corso dei mesi, di restituire a Ciro non solo i suoi clienti, ma anche una dignità che gli è stata violentemente negata.
Ma dopo quell’intervista denuncia, a Ciro hanno girato tutti le spalle, tutti lo hanno evitato, facendo il vuoto intorno a lui. Ciro ha smesso di essere il salumieri di fiducia dei napoletani del rione, è diventato invisibile, ed anche quell’ignorare, è il segno tangibile di una omertà che è più forte di qualunque battaglia. Non è terra di eroi, non è tempo di eroi, forse. Eppure nel video girato proprio da Leonardi nella salumeria (ormai vuota) di Ciro poche ore fa, si avverte forte la delusione di Ciro, che parla a cuore aperto di come i risultati siano stati scarsi.
Ho incontrato un sacco di gente – dice Ciro nella toccante intervista amatoriale fatta da Leonardi – assessori al commercio del Comune, il Sindaco, qualcuno della Regione; qui sono venuti tutti, ci siamo fatti foto, ci sono state strette di mano, e poi appuntamenti fissati e non rispettati…non certo da me“.
La sera, quando torno a casa – continua Ciro – dopo aver incassato 20, 30 euro, contro le 400 incassate un tempo, vengo assalito dalla delusione più che altro per essere stato usato da tutti, da Saviano, da De Magistris, da tutti i giornali, da tutti quelli che nel momento opportuno hanno cavalcato l’onda perché facevo e faccio notizia. Vado via da qui con tristezza, ringraziando il quartiere; credevo che potesse esserci qualche miglioramento, ma qui le cose vanno sempre peggio. Qui si rischia ogni giorno“.
Il messaggio è che la criminalità è più forte, le istituzioni non fanno il loro dovere, la paura sale e ci vorrebbero uno, cento, mille Ciro Scarciello e Luigi Leonardi, perché girarsi dall’altra parte non è mai la soluzione, e gli eroi, oggi, vestono i panni di chi lavora e non vuole più abbassare la testa, esattamente come hanno fatto loro.
Simona Stammelluti


Il resto del mondo ci mette addosso delle etichette, così come si fa con le merci da banco di un mercato generale. Su quelle etichette ci sono prezzi che salgono e scendono a seconda dell’annata, di ciò che accade e di come appaiono alcune circostanze agli occhi di chi è capace di tenerci d’occhio, ma che probabilmente non ci ha mai guardato abbastanza da vicino per attribuire a qualcosa un reale valore o “disvalore” che sia.
I cliché sono il leitmotiv di molte descrizioni che vengono fatte di luoghi, persone, fatti e circostanze. Si utilizzano i cliché perché sono come alcuni capi di abbigliamento, vanno bene per tutte le stagioni.
E così accade che in un giorno qualunque, senza neanche avvisarti, ti attaccano addosso un’etichetta che potrebbe anche cambiare per sempre la tua fisionomia, perché è come un pugno in faccia, come quell’offesa che – una volta ricevuta – dopo non è più nulla come prima. E allora devi provare almeno a capirne i “perché” di quell’onta, perché altrimenti ti sembra di subire senza avere una possibilità di riscatto.
Ma a riscattare Napoli, da quell’accusa arrivata in un giorno di “sole” dal “Sun” (che strano gioco di parole) – che la inseriva in quella stupida lista delle 10 città più pericolose al mondo – dovrebbe essere ognuno di noi, napoletano e non. Perché la storia che “Napoli é camorra, pizza e Vesuvio” è un luogo comune che disprezza senza appello. Un po’ come hanno fatto quelli del famoso tabloid inglese, che hanno giudicato, probabilmente senza mai aver messo piede a Napoli.
Senza dubbio di moda, la classifica del Sun! Riguardava i centri urbani ritenuti più a rischio in 10 diverse aree geografiche del mondo, scelti per le ragioni più varie: dal terrorismo alla droga, dagli omicidi alla presenza di gang mafiose o criminali, dalla guerra, ai disordini razziali, alla violazione dei diritti umani. Una mappa – quella tracciata dal famoso quotidiano britannico – in cui il capoluogo campano era stato additato come la città più pericolosa dell’Europa occidentale, accanto a luoghi come Mogadiscio (in Somalia, la peggiore in Africa) o addirittura Raqqa (capitale dell’Isis in Siria, indicata per il Medio Oriente).
Reazioni e polemiche si sono alzate come un coro di voci all’unisono e forse proprio per questo, come se nulla fosse successo, Napoli scompare dalla mappa aggiornata venerdì sera alle 20,35.
Napoli è il sud. Rappresenta quella parte di una nazione dove alcune cose vanno meno bene che altrove, dove alcuni riscatti sono più difficili, dove la malavita – esattamente come in Puglia, Calabria e Sicilia – ha radicato una mentalità più che la delinquenza, dove la faccia buona del popolo partenopeo è girata sempre di spalle.
A Napoli (per lavoro).
Ho alloggiato “volutamente” ai quartieri spagnoli, da sempre definito uno dei luoghi più pericolosi della città.
“Mica sempre ci esci vivo da lì” – ho sentito spesso dire.
“Accade di tutto” – ripete chi dice di conoscere bene Napoli.
È vero, accade di tutto. Ma accade anche che si viva una vita normale, in quel quartiere descritto come “molto pericoloso”.
Via Francesco Giraldi, è tutta in salita. Da un lato e dall’altro della strada ci sono diverse attività. Salumerie, fruttivendoli, lavanderie, negozietti vintage, spacci (inteso come drogheria) e il profumo del caffè che sembra scendere dal cielo.
Nel mio esperimento nei quartieri spagnoli giro con un pantaloncino di giorno, e con un vestito corto e tacchi di notte. Ho al braccio un orologio costoso e la borsa la porto appoggiata alla spalla, lato strada. Appena imbocco via Giraldi, un signore sulla cinquantina che è sulla soglia della salumeria davanti alla quale passo e che mi saluta con un “Buongiorno!”, si offre di portarmi il trolley fino al portone dove alloggio. Accetto. Chiacchieriamo con poche parole circa il caldo che è sceso di botto. Arrivo, ringrazio e mi sento rispondere “signora, sempre a disposizione“.
Per strada ci sono bambini che giocano e ridono. Fin qui tutto bene. Sfrecciano motorini e macchine smarmittate. Due signore si parlano dal balcone di quei figli che fanno sempre troppo tardi la sera. Ho bisogno di una indicazione; più di qualcuno si offre di aiutarmi. Siamo ai quartieri spagnoli. Mi guardano passare, ma nessuno fa caso alle mie gambe scoperte, nessun apprezzamento, nessuno mi infastidisce. È il primo pomeriggio di un giorno qualunque quando una macchina salendo per la medesima via, urta violentemente contro un motorino parcheggiato sul marciapiede. Vedo la scena da poca distanza. Penso: “adesso finisce male“. Ecco che sale anche in me il pensiero comune. “Sono a Napoli, questi sono i quartieri spagnoli, da qui non sai se esci vivo” – penso come una donna, ma faccio la giornalista e quindi osservo senza pregiudizio. Rallento e mi godo la scena. L’autista della 600 blu, scende dall’auto e va incontro al padrone dello scooter che nel frattempo è uscito dal suo negozio.
“Mi dispiace, ero distratto. Vedi che danni ci sono allo scooter che te lo faccio riparare“. Nessuna scazzottata, nessuna arma, nessuna tragedia. Il mio soggiorno a Napoli continua tra cordialità, utilizzo della metro nelle ore tarde e il rientro ai quartieri spagnoli in notte fonda. Niente. Non accade niente. Non vedo segno evidenti di spaccio, nessuno mi importuna, non arriva neanche una pattuglia di carabinieri a sirene spiegate. Magari è arrivata il giorno dopo la mia partenza; magari qualche giorno più tardi un ragazzo sarà morto di overdose, e la rissa che io “non ho visto” si sarà consumata poco più in là, mentre si consumava uno scippo (Ma a me l’orologio costoso e la borsa non l’ha toccata nessuno). Tutto possibile, così come in altre città che potrebbero essere definite altrettanto pericolose quanto e più di Napoli e parlo di Bari, per esempio, che conosco bene, dove sono nata e cresciuta e dove ci sono posti nei quali si consumano crimini e misfatti, e che sa divenire pericolosa già dall’imbrunire, in alcune zone o dove scippano una donna nei “quartieri cosiddetti buoni” o dove con quello stesso pantaloncino indossato ai quartieri spagnoli, probabilmente sarei stata molestata.
Bisogna avere lucidità e dati alla mano, prima di attaccare un’etichetta ad un luogo, così come ad una comunità o ad una tradizione. E quella napoletana è fatta di tante cose, oltre alla pericolosità di alcune zone. Difficile concepire Napoli come una città simile a Raqqa. La cultura, la voglia di cambiamento, il tentativo di estirpare la mentalità che “il delinquere sia più facile del costruire pulito”, la denuncia di tutto quello che non va, dovrebbe essere l’obiettivo comune di un sud Italia che ha bisogno di riscatto, che ha bisogno di vivere una nuova stagione fatta di intenti e di impegno sociale e politico, di porte aperte al nuovo e alla voglia di “non avere più paura”.
Simona stammelluti


La lista si allunga sempre più, e sono sempre più anche i “perché” che tutte le volte ci domandiamo, come se qualcuno potesse consegnarci una risposta togliendoci dall’imbarazzo di dover azzardare a darla noi, una risposta, mentre passiamo in rassegna tutti i motivi per i quali, noi, quel gesto così estremo, non l’avremmo mai fatto.
Passiamo ogni volta in rassegna tutte le cose belle che appartengono a coloro che hanno osato, hanno scommesso ed hanno vinto una vita patinata fatta di successo, di soldi…e di solitudine. Passiamo ogni volta in rassegna tutte le cose che a noi, comuni mortali sembrano belle, ma che alla fine appartengono – forse meno belle di quanto ci possano apparire – a chi ha scommesso tutto e poi ha perso, perché non sempre ciò che sembra appagante, poi lo è per davvero.
Loro … quelli che hanno scommesso e poi alla fine hanno perso, rispondono ad un appello fatto nella classe delle star, di chi ha scritto il proprio nome tra quelli delle stelle del rock, della musica, dello spettacolo; Che hanno calcato centinaia di palcoscenici, hanno cantato davanti a migliaia e migliaia e migliaia di persone, che è così appagante chiamare fans; Che hanno guadagnato cifre a tanti zeri e che forse non hanno mai saputo neanche cosa farsene per davvero; Che hanno mostrato al mondo solo una faccia della loro esistenza, come se avessero in un preciso momento perduto la proprio tridimensionalità, come se fossero diventati una figura che si può osservare ed anche ammirare da una parte sola…quella del successo, del sudore che cade dalla fronte, della nota messa al posto giusto, del pezzo che passerà alla storia.
Loro … dei quali a volte ci domandiamo quanto pesi l’anima, perché a fare due conti, un’anima sola forse non basta, per arginare qualche “peso di troppo”, e che a tirar dritto, quando le luci si spengono siam bravi tutti. E in quei tutti, non ci siamo solo noi, comuni mortali che comprano i dischi, che piangono davanti ad un live, che imparano ad amare una star; in quei tutti ci sono anche compagni, compagne, amici, familiari, manager e chissà quanta altra gente che gravita nelle vite patinate delle star, che pesano i loro bagagli negli aeroporti di tutto il mondo, ma che in mano la loro anima, forse, non l’hanno mai pesata.
Loro, che rispondono al nome di Kurt Cobain, Janis Jopelin, Ian Curtis, Keit Emerson, Whitney Hoston, Bobbi Kristina, Amy Winehouse, Chris Cornell, e pochi giorni fa, Chester Bennington.
Difficile azzardare se avessero o meno qualcosa in comune, a parte il successo e qualche delusione di troppo. Perché ogni dolore è a se, soprattutto se corre lungo una linea sottile, che collega una silente disperazione ad un passato fintamente remoto, che crea mostri così enormi, che per zittirli mentre urlano e spaventano, servono litri di alcool, barbiturici, pillole per dormire, sostante stupefacenti che però di “stupefacente” hanno ben poco, perché quando fa giorno è tutto ancora lì solo un po’ più sbiadito, con contorni meno netti, tanto che non li riconosci, quei mostri, ma sai che sono lì, che non se ne sono andati, che ti respirano ancora sul collo.
Ogni star ha una sua storia ed anche un suo destino. Un destino che ci prova a volte a toglierti di dosso il segno del dolore, ma se anche una cicatrice la sottoponi a chirurgia estetica, sotto, resta tutto com’era e fa male come sempre, anche se nessuno vede più nulla.
Amori finiti o mai iniziati, insoddisfazione, perdita della percezione della realtà, una responsabilità troppo grossa a volte, quella di dover essere sempre al top, perché se cadi dal piedistallo è come se non fossi mai esistito. E poi c’è quel po’ di personale, che è tuo, solo tuo, fin quando i telegiornali non lo rivelano a tutti. Come nel caso del cantante dei Linking Park, Chester Bennington, che qualcuno ha osato chiamare “codardo”, per essere uscito di scena così. Un suicidio non è un atto di coraggio, direbbe qualcuno. Sì che lo è, replicherebbe qualche altro.
Ma che ne sappiamo noi, di quel dolore sottile che Bennington (che amava prendersi le carezze del suo pubblico) si portava dietro da una vita intera, quel dolore di violenze subite da piccolo, di paure ingigantite dal domani che dell’oggi non ha che il sapore amaro di una piccola letale sconfitta. Quel domani che si è sbiadito giorno dopo giorno, che ha perduto i dettagli, i contorni e le aspirazioni, che è diventato piccolo quanto un granello di polvere, che ti finisce in un occhio e te lo fa lacrimare, che ti porta via la voglia di vivere e di chiedere. Perché ormai non sappiamo chiedere più nulla, ci arrocchiamo nella presunzione di sapercela cavare sempre da soli, che siamo invincibili, che tanto poi passa … ma poi non passa, non passa e non passa. E quando passa, è troppo tardi anche per poter dire addio.
E’ che non sappiamo più osservare, non sappiamo più pesare l’anima di chi abbiamo al nostro fianco. Non sappiamo domandare più “come stai?” prestando poi attenzione a quel che ci viene risposto, anche con un silenzio.
Goditi la vita” – gli diceva suo figlio, poco più di un mese fa.
E chissà cosa ne era già di Chester, un mese fa.
E poi il mondo dimentica, dimentica tutto troppo in fretta. Perché tanto siamo diventati immuni anche al dolore, e quel che ci rendeva umani, lo abbiamo barattato con un mondo in cui, ci accontentiamo di essere terrestri.
Simona Stammelluti


Deceduto tra le fiamme Massimo Pizzuti, classe ’48, in località San Benedetto nel comune di San Pietro in Guarano (Cs)
Erano circa le ore 15 di oggi 13 luglio 2017, quando Massimo Pizzuti 69 anni, è morto avvolto dalle fiamme che lo hanno raggiunto, mentre tentava di salvare il suo appezzamento agricolo attiguo alla sua abitazione, investito da un incendio. Le fiamme e il denso fumo acre, non gli hanno concesso scampo.

Le cause precise della morte dell’uomo sono ancora in corso di accertamento. Il corpo dell’uomo è stato rivenuto a poche centinaia di metri dalla sua abitazione, completamente bruciato.  Inutile l’intervento del personale del 118 che non ho potuto far altro che constatarne il decesso.
L’area in questione è interessata da svariate ore da un vasto incendio, che ha in parte bloccato l’acceso ad alcune vie che conducono al piccolo centro del cosentino. Alcune famiglie sono state allontanate dalle proprie abitazioni ad opera della Protezione Civile, mentre sul posto proseguono le attività da parte dei Vigili del Fuoco, dei Carabinieri, della Polizia di Stato, anche mediante l’ausilio di elicotteri antincendio e di Canadair.
Le indagini sono coordinate dalla Dott.ssa Donatella Donato, Sost. Proc. presso il Tribunale di Cosenza che, nelle ultime ore, ha disposto la restituzione della salma alla famiglia.
Simona Stammelluti