Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 66 di 94
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Immagine tratta dal film “Non ci resta che piangere”

 

Quanto piace il pulpito. A molti, forse a tutti. Peccato che sul pulpito c’è chi ci sale tutti i giorni, e da quella posizione dovrebbe portare un messaggio di pace, dovrebbe spiegare la storia umana, dovrebbe indurre il popolo di Dio ad atteggiamenti di carità, di amore, anche se sempre più spesso è un discorso moraleggiante, monotono e a tratti fastidioso, soprattutto quando è mirato ad indottrinare e a trasformare in verbo, ciò che è un personalissimo “deve andare così”.

E’ di pochi giorni fa, la notizia delle dichiarazioni infelici – ed io aggiungo offensive – che un prete manco troppo di periferia, ha esternato, a ridosso del decesso del boss Totò Riina: “Ha più morti innocenti sulla coscienza Totò Riina o Emma Bonino?”

Un attimo ci pensi, e cerchi in una frazione di secondo una connessione tra i due, ma poi la frase continua: “moralmente, non c’è nessuna differenza” – dice riferendosi all’impegno politico e civile di Emma Bonino a favore della legge sull’aborto.

E se all’impronta potrebbe sembrare una frase semplicemente infelice, racchiude in se una vera e propria offesa verso tutte le donne e non solo verso la conquista che le donne hanno ottenuto dopo anni ed anni di lotte, di interruzioni illegali di gravidanza. Ora, se pure vogliamo considerare tutti i risvolti e le convinzioni etiche in materia, se vogliamo riflettere sugli orientamenti culturali che pongono l’aborto nel limbo della tutela o meno della vita e sulla sottigliezza circa l’anima intra o extrauterina, non si potrebbe lontanamente porre l’aborto insieme ad altri crimini come il genocidio o l’omicidio volontario. Eppure è questo che ha fatto Don Francesco Pieri, che quella frase – con tutto ciò che reca in se – avrebbe potuto risparmiarsela. Ma la cosa grave o forse gravissima, è che nel dirla con molto probabilità vi era tutta la convinzione possibile e questo significa che è lontano, anzi lontanissimo dal comprendere la gravità della sue parole.

Emma Bonino con la classe e la fermezza che la contraddistingue, ha replicato nell’unico modo possibile, ossia sottolineando quanto “dietro l’aborto, vi sia un grande disagio morale, un trauma fisico, psicologico ed emotivo“.

Non vi è trauma né fisico, né psicologico, né tantomeno emotivo per chi compie crimini efferati, per chi stabilisce chi deve vivere e chi deve morire ed anche come, anche senza un apparente perché. Riina ha consumato la sua esistenza senza conoscere il pentimento, senza ravvedersi mai. Dietro un aborto c’è sempre un perché ed è semplicistico paragonare chi si è battuto affinché le donne avessero un diritto, rispetto a chi i diritti li ha tolti agli altri con un ingiustificato ed ingiustificabile libero arbitrio. Tutto questo oltre che assurdo fa anche orrore.

Mi immagino la scena (neanche tanto improbabile) del parroco in questione che ripete queste affermazione dal pulpito fra due giorni, durante la messa domenicale, cercando di utilizzare il suo potere – perché quello spazio dal quale parla è anche questo – per convincere i fedeli che la scelta di chi si è battuto per un diritto, ha fatto più morti di un boss di mafia.

Dietro un aborto c’è una storia, spesso drammatica, ci sono scelte difficili e traumatiche, ci sono violenze subìte, anche. Tra l’altro la Legge 22 maggio 1978, n.194 prevede delle norme per la tutela sociale della maternità; è una legge che prevede delle tempistiche per poter applicare l’interruzione, che permette di salvare le donne in caso di pericolo di vita, di tutelare le minorenni, oltre a consentire ai medici obiettori di coscienza di astenersi dalle pratiche di aborto.

Non una frase infelice, quella di don Francesco Pieri, ma un’offesa a chi ha dovuto scegliere di abortire perché non aveva un’altra strada da percorrere. Ci si aspetta un messaggio caritatevole da chi sale sul pulpito, ed invece le frasi sono sempre più spicciole, più semplicistiche, mirate a puntare il dito. Ma non erano loro che dovevano insegnare a “porgere l’altra guancia?”, non dovrebbero raccontare che “chi è senza peccato scagli la prima pietra?”

A questo punto – che si sia credenti o meno – mi viene da citare Sant’Agostino che fu anche filosofo, prima di diventare santo e pregando diceva “insegnami la dolcezza ispirandomi la carità, insegnami la disciplina dandomi la pazienza, ed insegnami la scienza, illuminandomi la mente“. Dove sono la dolcezza, la carità, la disciplina, la pazienza, la scienza e la mente, nelle parole del prete, neanche tanto di provincia?

Ama e fa ciò che vuoi” – diceva Sant’Agostino. In quelle parole risiede anche il fare la scelta giusta, quando serve, il battersi per un ideale o per un diritto, il provare a distinguere ciò che giusto da ciò che non lo è e lei, signor Francesco Pieri, mi sa che questa volta non c’è riuscito.

 

Simona Stammelluti

 

E’  recidivo il comune di Lamezia Terme, che quest’oggi per la terza volta  è stato sciolto per infiltrazione mafiose,  dal Consiglio dei Ministri

Sciolto il comune di Lamezia Terme per infiltrazioni mafiose. Lametia Terme che con i suoi 70 mila abitanti è la terza città calabrese per numero di abitanti dopo Reggio Calabria e Catanzaro.

Gli stessi provvedimenti sono stati presi anche per altri 4 comuni calabresi che sono Cassano allo Jonio, Isola Capo Rizzuto, Marina di Gioiosa Ionica e Petronà.

Sembra che a Lamezia la decisione non abbia sorpreso più di tanto. Forse per le dichiarazione della presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, che solo qualche giorno fa, a margine di un convegno a Cosenza, ha dichiarato “A noi della commissione parlamentare Antimafia sembra che ci siano tutti gli elementi per arrivare allo scioglimento del consiglio comunale“.

 

Lo scorso 9 novembre, ho moderato un interessante convegno che aveva per tema i “processi di immigrazione ed integrazione”, mirato anche al confronto tra le realtà italiane e canadesi, organizzato da alcune scuole di Cosenza e Provincia. Ai ragazzi presenti, che si allenano sin d’ora a diventare – forse un giorno – giornalisti, avevo promesso che avrei scelto un articolo, con la volontà di dare ad uno di loro la possibilità di scrivere, per un giorno, sul prestigioso giornale per il quale lavoro.
Non è stato facile scegliere l’articolo al quale concedere questo spazio, ma alla fine ho dovuto effettuare quella scelta esclusivamente in base ai contenuti e alle modalità di scrittura. Non conosco personalmente nessuno di questi ragazzi, ma li apprezzo per il lavoro che hanno fatto.
Adesso non resta che godersi la lettura dell’articolo, del quale non ho toccato neanche una virgola

Simona Stammelluti

Convegno scuole italo-canadesi presso Galleria Nazionale-Palazzo Arnone (CS)

 

Giovedì 9 Novembre 2017 alla Galleria Nazionale (Palazzo Arnone) CS, a partire dalle ore 9:00, si è tenuto un incontro tra i rappresentanti di due Istituzioni Canadesi ed i Dirigenti di alcune scuole della provincia di Cosenza per trattare il tema dell’Immigrazione e dell’Integrazione. Alla tavola rotonda hanno preso parte i Dirigenti scolastici delle seguenti scuole: “IC Montalto Scalo” (Scuola capofila del progetto), “IC Mangone-Grimaldi”, Liceo Scientifico “Enzo Siciliano” Bisignano, ITI “Antonio Monaco” CS, Ist. Omnicomprensivo Luzzi, Centri Provinciali Istruzione Adulti “Valeria Solesin”, DS Liceo “Lucrezia della Valle”; le istituzioni canadesi sono state: il Centro “Leonardo Da Vinci” e la “Principal Lauren Hill Accademy” rappresentati , rispettivamente, da Frank Sorrentino e dalla dirigente Donna Manos.

Nella sala sono stati esposti i lavori svolti dagli alunni delle classi seconde e terze della scuola secondaria di Montalto Scalo guidati dalla loro Prof.ssa d’arte che, per l’occasione, si è vestita con un tipico abito calabrese.

All’inizio della conferenza il coro del “Lucrezia della Valle” ha dedicato ai presenti gli Inni Nazionali dei rispettivi Paesi di provenienza.
La tavola rotonda è stata coordinata dalla giornalista di “Sicilia 24 ore”, Simona Stammelluti. Dopo i vari interventi dei Dirigenti Scolastici, c’è stata la testimonianza di un ragazzo africano che, venuto in Italia, ha cercato di trovare lavoro insegnando Inglese privatamente.

Alle ore 11:30 la mattinata è stata ulteriormente allietata da un coffee break , durante il quale gli alunni delle varie scuole partecipanti sono stati “giornalisti per un giorno” e hanno intervistato alcuni dei partecipanti , scattato foto e girato filmati. A conclusione della giornata, il coro del “Lucrezia della Valle” ha incantato la platea con il coinvolgente Gospel “This little light of mine”.

L’evento è continuato anche la sera e, nella palestra dell’Istituto Tecnico Monaco, è stato organizzato l’ “Ethnic dance party”. Qui era stato allestito un buffet mentre in fondo alla palestra c’era un grande palco sul quale successivamente si sono esibiti i dj. Dopo mezz’ora sono arrivati i professori e i Dirigenti Scolastici, con i quali, gli studenti hanno scattato alcune foto.

Dopo circa un’ora i Dj delle varie scuole  e un ragazzo canadese, vincitore di un concorso, hanno iniziato ad movimentare la serata con i loro brani. Da quel momento i partecipanti, di varie lingue e culture, hanno iniziato a ballare lasciandosi coinvolgere da puro e sano divertimento mentre venivano lanciati dei gadget con il logo del liceo dal quale proveniva il dj canadese.

È stata una serata unica perché ai ragazzi è stata data la possibilità di confrontarsi, parlare e divertirsi con persone nuove. Da questo evento si è capito che, nonostante le diversità, non può esistere alcuna barriera che possa dividere e,  la musica in particolare, si è dimostrata un importante collante che unisce giovani di culture diverse.

“giornalisti per un giorno”
Classe III A -Scuola Second.
IC MONTALTO SCALO

 

 

La magia sta tutta lì, in quella miscela esplosiva che prende fuoco quando l’energia di Massimo Ranieri – artista a tutto tondo e show man instancabile –  si mescola a quello che accade ogni qual volta che la musica jazz, si mette al servizio di un progetto prestigioso come quello in scena al teatro Diana di Napoli e che porta il nome di Malìa.

Lo racconta il perché di quel modo di intitolare il concerto, Ranieri. Ma non è solo un titolo, un vezzo, un nome che affascina… è un vero e proprio viaggio indimenticabile, un incantesimo possibile grazie a quella musica che ha ammaliato il mondo, in quegli anni ’50 e ’60;  Anni in cui Ranieri al secolo Giovanni Calone nasceva, anni in cui la luna sapeva sfavillare sullo sfondo di un cielo blu notte, gli anni dei night club e degli americani che affollavano Capri, quando venivano a sentire come si facesse la musica, oltre oceano.

Un concerto, quello di ieri  11 novembre, che si potrebbe incorniciare; e non solo perché non c’è stata “una nota fuori posto”, ma perché le caratteristiche che decretano la riuscita di uno spettacolo, di un concerto, di uno show, le ho passate in rassegna durante la serata e tutte, hanno risposto all’appello. Dall’intonazione alla presenza scenica, dal discorso musicale all’interplay, dall’originalità degli arrangiamenti alle improvvisazioni jazzistiche, dal talento puro, alla ricerca dei dettagli sonori che fanno sempre la differenza, anche e soprattutto quando si rivisitano pezzi storici della tradizione – in questo caso, della tradizione napoletana – e che recano in se una intenzione precisa, sia del periodo storico raccontato, che del significato che quella musica ha avuto nel corso dei decenni sul patrimonio musicale che attraversa i tempi, in maniera inossidabile.

E’ carismatico Massimo Ranieri, è stracolmo di groove, inteso proprio come capace di “divertirsi intensamente”, perfettamente calato nell’atmosfera di quegli anni, che tanto hanno saputo raccontare (musicalmente parlando) e che lui decide di regalare al pubblico attraverso un concerto confezionato impeccabilmente, e tenuto insieme da quel filo sapiente, raffinato e originale come solo il jazz sa sempre essere.

Enrico Rava

Geniale Ranieri che sceglie un quintetto jazz, per raccontare i grandi successi della musica napoletana. Non dei jazzisti qualsiasi, ma a mio avviso scelti proprio nella loro intrinseca capacità di saper inserire come in un mosaico che prende forma pian piano, l’immagine che era alla base del progetto. Enrico Rava (tromba e flicorno), Rita Marcotulli al pianoforte, Riccardo Fioravanti al contrabbasso, Stefano di Battista al sax contralto e pure al soprano e Stefano Bagnoli alla batteria. Quei musicisti che presi da soli, sono già un pezzo di storia del jazz internazionale e non solo italiano, e che riuniti sul quel palco, hanno dimostrato non solo un talento indiscusso, ma una versatilità e una capacità interpretativa capace di fondersi perfettamente con l’impronta scenica e la potenza della voce di Massimo Ranieri, della sua estensione vocale e della sua capacità – unica – di riuscire a fare tutto e a fare tutto bene. Canta, balla, intrattiene, l’artista partenopeo, è generoso e ci si chiede dove li nasconda i suoi 66 anni finiti. Forse tra le rughe di quel volto che raccontano una storia che parte da lontano, che sembrava già scritta sin da quando era bambino. Quelle rughe che si piegano, che si commuovono, davanti alla musica e che si inchinano allo scambio emozionale che viaggia da lui al suo pubblico e viceversa, come se fosse facile incantare, ammaliare tutte le sere, raccontando semplicemente la musica a modo suo…come se fosse ogni sera “tutta nata storia“.

Stefano di Battista e Stefano Bagnoli

Ed è proprio così che si apre il concerto, con una prorompenza che fa salire i brividi, con l’omaggio ad un Pino Daniele che – come lo stesso Ranieri racconta – non era ancora nato, ma che sembra esserci e sempre ci sarà, come un lucchetto sul cuore che ad aprirlo è un attimo, basta rievocare le emozioni che seppe dare in vita, ed anche oltre.

Le note degli strumenti a fiato di Rava e Di Battista, si incontrano e si rispondono, si mescolano e si capiscono, mentre le note altissime lasciano spazio alla sincronia che si realizza a sostegno del ritornello del famoso pezzo di Pino Daniele.

Muoiono i poeti, ma non muore la poesia” – dice Massimo Ranieri ricordando Aldo Palazzeschi.

Sono le canzoni scelte per il progetto a fornire al grande Show man, la possibilità di raccontare aneddoti e pezzi di storia di quelle canzoni in repertorio. E’ dopo “Resta cu’mme“, in cui il jazz è ricamato addosso al cantato, che Ranieri racconta di che anni bellissimi fossero quelli, anche se l’intensità di alcuni pezzi veniva a volte censurata, così come fece la Rai con questa canzone per quei famosi versi “non m’importa chi t’avuto“.

Rita Marcotulli

Puoi provare ad immaginare quel che potrà proporti quel concerto, ma non potrai mai immaginare che lì dentro, dentro quei metri che ospitano gli artisti, i musicisti, si consumeranno sound, passi di danza e arrangiamenti sofisticatissimi. Balla a ritmo di samba, Ranieri, durante Lazzarella, e quasi rieccheggiano ancora i suoi passi e le note della canzone quando prende posto su uno sgabello, mentre lascia Di Battista e la Marcotulli introdurre “Malatia“. Sofisticato e leggero Stefano Di Battista, che ricama il tema con fiato lungo e note aperte. E’ sempre lui che introduce “Anema e cose” con il sax soprano. Il pubblico canta, si lascia trascinare, si lascia emozionare, sorride e poi si commuove, tutto nel tempo di una canzone. Qualcuno si lascia andare ad un ricordo ed io ascolto l’assolo di Rava e penso a quanta strada lui abbia fatto fino ad arrivare qui, sul palco con Ranieri ed altri amici, adesso nel novembre del 2017; penso a quella carriera così lunga e fortunata, a quel musicista canuto e bianco, che prende posto a destra sul palco, seduto sul suo sgabello, mentre mostra il suo profilo migliore, quello mentre soffia nella suo flicorno. In quel profilo in cui entra la sua sonorità calda, non per forza virtuosistica, ma che sa sempre come concedere alle note un’ascesa veloce e decisa, come quando si chiude una porta lentamente, affinché anche l’ultimo invitato, sia presente alla festa. Cura molti finali, Rava, lui che non ha bisogno di complessità per capire “come si finisce”.

E’ un valzer, “Na voce na chitarra e ‘o poco ‘e luna“; ma c’è anche il cha-cha-cha in Malìa, scelto per “La pansè“. Ranieri non sa solo cantare intonatissimo – che quasi ci si chiede come faccia a non lasciar andare neanche una nota – ma ha anche la capacità ormai rara, di cantare in levare. Lo fa meravigliosamente, e lo fa mentre balla, e sorride e ammalia.

Ci sono tutti in questo concerto: Rascel, Murolo, Modugno. C’è la musica napoletana, C’è “Luna rossa” con un abito nuovo di zecca, c’è un Di Battista che invade completamente il palcoscenico con le note del sax alto, con la sua personalità musicale altamente comunicativa, l’eleganza del fraseggio quando parte dalle note basse e velocissimo corre verso l’alto conservando energia, evoluzione ed improvvisazione oltre che tutte le nuance armoniche.

La base ritmica è affidata ad altri due fuoriclasse, Riccardo Fioravanti al Contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria. Sono loro ad aprire “Torero” ed è un tripudio di suoni, di senso ritmico, di cassa e rullante che rimbombano nello stomaco di chi è in teatro, mentre fluiscono convincenti le note del contrabbasso, spesso inarrestabili nel jazz. A sottolineare le parole della canzone, Rita Marcotulli, unica donna sul palco, che tra le altre e tante caratteristiche, sa muoversi nel confine tra jazz e altre sfere musicali con grande maestria, che sui quei tasti bianchi e neri batte il tempo e intreccia melodie, senza mai perdere il filo del tema, così caro a Massimo Ranieri.

Riccardo Fioravanti

Un concerto diviso in tre parti, come se fossero tre tempi diversi da raccontare, tre stati d’animo, tre storie a se, ma che come fil rouge hanno le sfumature di una musica che non tramonta dentro il mare, ma rinasce ogni giorno con il primo sole.

Capri costola di Napoli, piccolo paradiso dei night club, quell’isola che è la “natura abitata dagli dei” come qualcuno felicemente la definì, riceve l’omaggio con “Luna caprese“. Massimo Ranieri canta senza mai una sbavatura, mai una incertezza, capace di far innamorare tutti.

Arriva uno dei momenti più belli del concerto, quando canta “Indifferentemente” canzone che parla della fine di un amore, di un’ultima scena, di quello sguardo alla luna. Un pezzo che Massimo Ranieri ama molto, così come racconta. Ma il racconto va anche un po’ più in là…corre ad uno dei ricordi più belli ed indelebili della sua vita, corre a quando lui ragazzetto andò in America con Sergio Bruni.

Ci sono momenti di jazz puro, durante il concerto, ci sono tanti ricordi, come quello di quando Stefania Sandrelli volle cantare con lui “Nun è peccato” durante la trasmissione “Sogno o son desto”, pezzo riproposto anche ieri sera.

Non lo si lascia andar via così, un artista di quel calibro. Non si è mai abbastanza sazi, soprattutto quando si ha davanti la storia della musica italiana, quando si è al cospetto dell’emblema della musica italiana fatta a regola d’arte, quando insieme a Massimo Ranieri su quel palco ci sono quei musicisti – che a mio avviso sono stati una felicissima scelta che ne ha decretato il successo – e quando non vi è una sola persona che siede in quei posti, che non vuole sentire i pezzi storici che non sono solo i suoi, ma di tutti noi. “Erba di casa mia“, “Rose rosse“, “Perdere l’amore“, nel bis, che arriva dopo due ore di spettacolo, che arriva pianoforte e voce e in chiusura con  il suono del sax contralto di Stefano Di Battista che resta il cabochon di un gioiello, che è e resterà pura Magia…ops, Malìa

Simona Stammelluti

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Il teatro come custode di quell’arte che trasmigra da un autore ad un attore; e a dirigere le dinamiche e il senso di un’opera – con un ruolo tanto delicato quanto decisivo – il regista.
La regista, in questo caso; Perché Nadia Baldi la sua genialità, non l’ha vestita solo mettendo in scena una delle opere più belle di colui che fu “proprietario unico” di una drammaturgia che molto ricorda il senso del teatro di Beckett, di quel malessere che quando manifestato, esplode e gratifica, ma utilizzando un personalissimo linguaggio scenico.
Annibale Ruccello – per chi ha avuto l’onore di amarlo non solo come drammaturgo ma anche come antropologo – ha lasciato in eredità al mondo teatrale un materiale nobile, una tradizione popolare; Ruccello aveva una scopo ben preciso, quello di tirare lo spettatore dentro un vissuto, dentro la trama, non intesa come storia in se, ma come insieme di maglie lavorate ad arte, capaci di inglobare e di risvegliare nella tragicità del vivere, l’uomo che approccia al teatro, proprio tra le mure del teatro.
Assistendo al Ferdinando con la regia di Nadia Baldi – in scena al Piccolo Eliseo di Roma fino a domenica 5 novembre – sembra come se la stessa regista abbia ascoltato un suggerimento di chi quel testo lo ideò.
Sono le sfumature, la dinamicità, il ritmo e la credibilità degli attori calati in quel contesto pensato da Ruccello che immaginò una Napoli del 1870 a cavallo tra due epoche, a fare dello spettacolo della Baldi un esempio di buon teatro.


I “caratteri” tratteggiati da Ruccello, sono vividi nella rivisitazione della Baldi che però sdrammatizza su alcuni passaggi, rendendoli esilaranti, senza mai snaturalizzare l’opera che – in due ore e mezzo di spettacolo – traccia con dovizia, lo spaccato di quell’epoca che tanto Ruccello volle analizzare, mettendo a punto lo sguardo sui poveri cristi, mentre prende respiro e si espande non semplicemente la storia di una baronessa annoiata e senza stimoli che finge di essere in punto di morte, fin quando la sua e la vita delle persone a lei vicine, viene letteralmente stravolta dall’arrivo di “Ferdinando” un improbabile nipote che appaga le sue e le altrui voglie, quanto la spinta che la regista riesce sapientemente ad alimentare circa la volontà di Ruccello di scandagliare i vizi di una società che dietro una facciata di virtù, nasconde le piaghe di ogni tempo: amoralità, opportunismo, egoismo, cinismo, blasfemia, e poi ancora gli interessi, gli scandali, i disvalori che nell’opera della Baldi vengono fuori in tutta la loro crudezza ed attualità, ma non come se fossero un monito perbenista, ma al contrario come un disegno sofisticato, che si serve del linguaggio teatrale puro, e della sua naturale consapevolezza.
Credibile il napoletano parlato, credibili ed adeguate le scene a supporto di quella promiscuità che vede tutti desiderare tutto, che pone il desiderio come un nemico di un equilibrio che tutti vorrebbero conservare, ma che esplode non come un peccato ma come un gioco ad “amare male”.
L’impianto registico non é mirato all’applauso facile, ma è facile applaudire alla bravura e non solo alle intenzioni che i 4 attori in scena regalano generosamente al pubblico…quel pubblico che si divide in chi conosce Ruccello – e ne vede i tratti in quell’adattamento della Baldi che usa il testo come un ponte – e coloro che guardano semplicemente uno spettacolo di grande qualità e che si diverte mentre recupera la consapevolezza che i misfatti, attraversano le epoche finiscono proprio lì, su un palcoscenico dove 4 attori vestono le sembianze di una società che difficilmente si salverà.
Molto efficaci anche le scenografie ed i costumi, quell’abito di donna Clotilde che é un tutt’uno con quel letto che accoglie fatti e misfatti, cattiveria e mezze verità.
Una bravissima Gea Martite, straordinaria interprete, perfettamente calata nel ruolo (e che ci tengo a dirlo, non teme confronti che potrebbero venire dal passato) intorno alla quale ruotano gli altrettanto talentuosi attori; Chiara Baffi che gestiste i registri vocali benissimo, nei panni di Gesualda, la cugina povera della Baronessa che tanto potrebbe dire, che tanto potrebbe fare e che tanto fa, nella intricata storia di amori non corrisposti, di carnalità a basso costo e di dignità svenduta per un grammo di felicità.
Fulvio Cauteruccio nei panni – è proprio il caso di dirlo – di Don Catello, che porta a spasso una tonaca sotto la quale si nascondono i vizi del potere religioso. Il fascino innato di Cauteruccio che si insinua nel suo ruolo e che riempie il palcoscenico. Ferdinando è Francesco Roccasecca, scanzonato ma no troppo, credibile nel fascino del giovane che a tutti promette e a tutti da, impeccabile nella dizione, che quasi ci riesce a nasconderlo il suo essere partenopeo.
Un palco vestito di arte, di intenzioni e della giusta dimensione nella quale l’opera di Ruccello, è rivissuta in una dinamica di teatro fatto così bene, che quasi commuove.
Sono gli applausi sì, che sottolineano anche la bontà si un progetto e stando a quelli che ieri sera scoscianti hanno investito i 5 protagonisti di questo spettacolo per lunghi minuti, non posso che augurare a Nadia Baldi di essere ancora investita da quella sottile genialità.

Lo spettacolo è ancora in scena al Piccolo Eliseo di Roma fino a domani…fate ancora in tempo a godere di un’arte che – a mio avviso – ha ancora molto da dire.

 

Simona Stammelluti

Sono stati due maestri del Conservatorio di Cosenza, Carlo Cimino contrabbassista e Nicola Pisani sassofonista, a salutare il folto pubblico intervenuto all’Università della Calabria e con “Silence”, di Charlie Haden hanno dato via al seminario dedicato al marionettista C. J. Abbey con il quale Steven Feld ha realizzato un film “Ghana’s Puppeteer” che documenta la capacità dello stesso Abbey di utilizzare le marionette per raccontare la musica in molte sfumature, dalle strade del Ghana, alle Tv internazionali; Abbey che parlava diverse lingue, che aveva una vera e propria passione per Coltrane, che utilizzava le marionette per rappresentare le situazioni locali, per comprendere il senso del suono. Marionette che dalle sue sapienti mani cantavano ed eseguivano musiche delle varie culture, e quella capacità di Abbey di mettere insieme l’antropologia del suono con il cosmopolitismo.

15 anni di collaborazioni, tra i due, diversi dischi, un film e un libro che è semplicemente una nota a piè di pagina di questa complessa ed entusiasmante storia.

L’invito è giunto a Steven Feld dal Professor Carlo Serra – docente di Teoria dell’immagine del suono – che fortemente ha voluto la sua presenza all’Università della Calabria e che ha organizzato il convegno, invitando un gruppo di esperti del settore, che hanno relazionato circa i loro lavori nell’ambito del suono e della musica. Steven Feld noto nel nostro paese anche per le frequenti incursioni che lo hanno portato a studiare le nostre tradizioni e il nostro paesaggio sonoro.

Presenti al convegno insieme a Steven Feld e al Prof. Carlo Serra, il Prof. Fulvio Librandi, dell’Università della Calabria, il Prof. Antonello Ricci dell’Università della Sapienza di Roma, il Prof. Sergio Bonanzinga dell’Università di Palermo e il Prof. Nicola Scaldaferri dell’Università degli studi di Milano. Da tutti loro è arrivato un contributo fattivo ed interessante sul senso antropologico della musica e dell’ascolto, sull’accostamento tra suono e musica, sull’importanza della tradizione musicale e sul suono come forma di conoscenza del mondo contemporaneo.

Tanti i concetti che hanno catturato il pubblico intervenuto numeroso, composto non solo da studenti della prestigiosa Università calabrese, ma anche musicisti, docenti, giornalisti di settore e appassionati.

Siamo un equilibrio precario da mantenere secondo natura; i sensi mediano il nostro rapporto con il mondo e i saperi che apprendiamo attraverso i sensi, sono veri e propri manufatti culturali. Il suono ci ingloba e il punto di vista come il punto di ascolto sono parimenti utili nella concezione del mondo, un mondo dove il suono ci comprende e ci specifica” – ha spiegato Fulvio Librandi.

Molto interessante il lavoro documentario di Antonello Ricci, antropologo e etnomusicologo nel quale attraverso un’etnosceneggiatura, Luigi Nigro, campanaro, racconta se stesso, la musica delle sue campane, il rapporto tra suono e sentimento,  tra suono e pianto, che si traduce in quel legame che tutti noi abbiamo tra l’udito e il nostro modo di stare al mondo. L’ascolto è il senso dell’antropologia, e la compassione diventa una dimensione importante, nella misura in cui la “passione comune” si evolve anche attraverso gli scambi sonori, attraverso un codice acustico che diventa un codice culturale. Luigi Nigro, che tutto quel che sa gli è giunto da suo nonno, attraverso la comunicazione da bocca ad orecchio, sia per quanto riguarda la storia e la realizzazione delle campane che l’arte della costruzione ed intonazione della zampogna. “L’accordo mi è entrato nella testa” – dice Nigro nel documentario, parlando emozionato di quel momento in cui suo nonno gli insegnava il mondo della musica.

Un momento intenso e significativo quello nel quale Steven Feld ha parlato dell’acustemologia, che unisce il concetto di acustica e di epistemologia, per affermare il suono come metodo di conoscenza. “Il mondo e dentro la bocca e la bocca è nel mondo” – ha detto Feld, spiegando come vi sia un passaggio dall’antropologia del suono all’antropologia nel suono, come le strutture relazionali possono passare dall’interno all’esterno e viceversa, e come nulla ha a che fare con il rituale, ma con la vita di tutti i giorni. La concezione della conoscenza come piacere; il piacere della conoscenza del mondo, che si fonde alla gioia di “essere al mondo”.

Durante il lungo seminario, è stato Sergio Bonanzinga a raccontare attraverso il suo lavoro documentario realizzato tra il 1987 e il 2017, le concezioni di tradizione orale in Sicilia, ossia la ridefinizione del concetto  di musica in relazione all’aspetto interculturale. E mentre nella nostra comune concezione, per conoscere abbiamo bisogno di distinguere, altrove la cultura si forma sulla agglomerazione, sulla relazione, sul “tenere insieme”. Così diventa fare musica e non solo suono, il battere del martello del fabbro sull’incudine, il suono delle ruote del carretto che diventano accompagnamento al canto, l’utilizzo di coltelli come se fossero strumenti a percussione, o il canto del telaio che “se non accordato, stona”.

A chiudere i lavori del convegno, prima di una collettiva e aperta discussione, Nicola Scaldaferri, che ha mostrato un servizio realizzato proprio insieme a Steven Feld, durante le tappe lucane, e i racconti del Maggio di Accettura, nel quale il rituale della musica non lascia mai spazio al silenzio.

Un vero e proprio excursus nel mondo sulla dinamica del suono, sul potere della conoscenza attiva, sull’importanza dell’ascolto e dello scambio quasi simbiotico tra la nostra percezione e le risposte dell’ambiente che in un continuo feedback reagisce con suoni, che sanno essere musica e che nutrono il rapporto sottile e meraviglioso tra le differenti sensibilità ed i contesti socioculturali.

Simona Stammelluti

 

 

 

Terza giornata di udienza in Corte d’Assise a Cosenza, ad un anno esatto dalla strage di San Lorenzo del Vallo, quando persero la vita Edda Costabile ed Ida Maria Attanasio (Leggi qui la notizia)

Davanti al presidente Giovanni Garofalo, al Pm D.ssa Giuliana Rana e agli avvocati delle parti, sono sfilati 5 testimoni: il Dott. Giuseppe Zanfini, vice questore che all’epoca dei fatti comandava la Squadra Mobile di Cosenza, il Luogotenente Pio Croce, comandante del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di San Marco Argentano, il Luogotenente Sergio De Cristofaro, Comandante Stazione CC di Spezzano Albanese, Bruno Niccolò proprietario dell’appartamento in cui il Galizia si sarebbe rifugiato a ridosso dei fatti accorsi lo scorso 30 ottobre 2016, e Russo Sabrina, l’allora fidanzata del Galizia.

Durante l’audizione Zanfini ha raccontato al Pm e al collegio giudicante, del giorno 26 aprile del 2016 quando Francesco Attanasio, si è rivolto alla Polizia per segnalare un arsenale in un box situato nel comune di Rende, della perquisizione nel box stesso, di come per effettuarla si sono avvalsi dell’intervento dei vigili del fuoco, considerato che lo stesso era custodito da un catenaccio. Lo stesso Zanfini ha elencato la consistenza quantitativa e qualitativa dello stesso arsenale, che era situato nella stessa zona geografica in cui qualche tempo prima veniva arrestato l’allora latitante Franco Presta. Furono così attivate le indagini di intercettazione telefoniche ed ambientali, dalle quali emerge come il Galizia parlando con un’amica dice (riferendosi all’Attanasio) “gli avrei tagliato la testa, ci avrei giocato a pallone e poi mi sarei fatto il carcere” Diverse le domande poste all’allora capo della Squadra mobile circa i rapporti tra il proprietario del box e il Galizia e l’Attanasio.

Il Luogotenente Croce ha raccontato durante l’audizione dell’intervento della pattuglia nel giorno della strage al cimitero di San Lorenzo del Vallo, di dove e come vennero ritrovati i corpi delle due donne brutalmente assassinate, di come a ridosso degli avvenimenti avevano cercato e trovato Domenico Galizia a casa della compagna, mentre il Luigi Galizia era irrintracciabile. Ha altresì detto che sui parenti del Galizia (padre, fratello e cugino) nell’immediatezza dei fatti, fu effettuato uno stub per verificare l’eventuale presenza di residui di esplosione di colpi di arma da fuoco, che però diede esito negativo. Alla domanda se della scomparsa di Luigi Galizia qualcuno dei familiari ne avesse denunciato la scomparsa, il Croce risponde di no. Ha poi raccontato del sequestro delle vetture della famiglia Galizia, poi consegnate al perito Barbaro per gli accertamenti del caso. Dai racconti è venuto fuori che all’interno nella Punto di Domenico Galizia erano stati ritrovati degli indumenti puliti e riposti in un sacchetto di plastica che in teoria potrebbero corrispondere alla taglia di Luigi, tutti poi consegnati allo stesso Dr. Barbaro. I racconti poi si spostano sul giorno in cui il Galizia Luigi si rende reperibile, mentre appare con barba incolta ma pulito, con dei graffi sul volto e una cicatrice sulla mano. Il luogotenente riferisce di aver seguito la pista della vendetta, perché non vi erano altre vie da percorrere, considerato che le vittime erano incensurate,  e che tale pensiero era comune a tutti gli investigatori che avevano coordinato le indagini.

E’ stato De Cristofaro durante l’audizione a definire la famiglia Attanasio come una famiglia “per bene”, entrambi insegnanti, mentre il Galizia pagherebbe la parentela con Costantino Scorza, presunto boss di San Lorenzo del Vallo, collegato al clan Presta. Ha raccontato del giorno in cui insieme allo stesso Luigi Galizia è andato nell’abitazione in cui lo stesso dice di essere stato, di proprietà di Bruno Niccolò anch’esso oggi alla sbarra dei testimoni. L’abitazione in oggetto sembrerebbe servisse al Galizia per vedersi con l’allora fidanzata.

E’ l’allora fidanzata di Luigi Galizia, Sabrina Russo a doversi districare nell’interrogatorio, partendo da quel cuore mandato su WhatsApp al Galizia la sera prima del 30 ottobre, della risposta che non è mai arrivata, della preoccupazione per non sapere deve fosse, del perché non lo avesse cercato, di quella volta che lo vide piangere, di quando andavano in quell’appartamento che presumibilmente fu il rifugio del Galizia dal 30 0ttobre al 6 novembre del 2016, della paura confessata dal Galizia stesso alla Russo circa una macchina che lo seguiva e di alcune persone che lo avevano tenuto d’occhio mente frequentava una sala giochi.

Prossima udienza fissata per il 17 novembre p.v.

 

Simona Stammelluti

 

 

 

Giovedì 2 novembre presso il Centro Demoantropologico del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria, si potrà incontrare da vicino una delle figure più significative dell’etnomusicologia e dell’antropologia visuale contemporanea: Steven Feld

La presenza in terra di Calabria del famoso studioso americano è stato fortemente voluto dal docente di Teoria dell’Immagine e del Suono, Carlo Serra che, coadiuvato da un gruppo di studenti del corso di laurea di Comunicazione e Dams, ha organizzato il convegno.

Steven Feld approda in italia a 35 anni dalla pubblicazione del suo “Suono e Sentimento”, che ha segnato in modo irreversibile non solo i confini disciplinari dell’etnomusicologia – modificando radicalmente la concezione di paesaggio sonoro – ma anche la forma dell’ascolto, la pratica compositiva e il concetto di tradizione.

Al convegno, vi saranno anche tre studiosi del calibro di Antonello Ricci, Sergio Bonanzinga, e Nicola Scaldaferri, che tratteranno suggestioni e suggerimenti di metodo tratti dai libri di Feld.

La giornata si articolerà su quattro lunghi interventi, con proiezioni di film e di frammenti sonori, per dar poi vita ad un dibattito a più voci, considerate le impressionanti ricadute che le ricerche di Feld hanno sviluppato nell’ambito della tecnologia di ripresa, di articolazione dello spazio sonoro tramite microfoni direzionali, estetica e ricerca antropologica.

Una grande opportunità per gli studenti che potranno così prendere parte a dibattiti che vedranno come fulcro, i temi dell’ascolto e della funzione della memoria, il rapporto fra jazz africano e jazz americano, il problema delle emozioni e della danza, la funzione del mito in musica, da James Brown a Bob Marley fino alla danza africana.

Sempre nelle ore dell’incontro verrà ricordata la grande marionettista ghanese J. C. Abbey che ha narrato la storia del Ghana, attraverso le sue danze e le migrazioni che, attraverso le marionette, hanno mescolato i luoghi e le atmosfere. A lei verrà dedicata la proiezione di uno splendido filmato girato dallo stesso Feld.

Un viaggio, dunque, che attende gli studenti dell’Unical e non solo.
Un viaggio intorno alla musica, ai rapporti che legano la danza, le fiabe e i racconti con l’intrecciarsi alle sette note. Un viaggio per capire come ci approcciamo alla musica, alle note tribali di popoli come quelli dei Kaluli, popolazione studiata per molti anni dall’americano, nello stato della Papa Nuova Guinea.

Sarà una giornata all’insegna dell’Antropologia del Suono, capace di andare oltre l’aspetto descrittivo, per fornirci una chiave di lettura sul nostro rapporto con il mondo, che ha nell’orecchio e nella voce i suoi canali essenziali

 

Simona Stammelluti