Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 63 di 94
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E’ il terzo caso di omicidio-suicidio (al momento ancora presunto) che si consuma nel cosentino nel giro di un paio d’anni. Fare una strage della propria famiglia togliendosi poi la vita, è un delitto che resta senza colpevoli, ma forse solo apparentemente. Da dove nasce tanta efferatezza? Cosa può spingere un essere umano – se così fosse stato – ad accanirsi contro i suoi figli, in maniera così violenta? E’ un gesto compiuto in un momento di follia, quando la mente ti si annebbia completamente, o è un gesto premeditato?

Le domande sono sempre tante, sono sempre le stesse, e forse queste domande le risposte le hanno, ma non sempre vengono a galla, oppure il tutto finisce per archiviarsi come l’ennesimo caso in cui la depressione, ormai il male del secolo, scava così tanto l’animo umano, da rendere un uomo vittima prima di tutto di se stesso.

E intanto tra qualche giorno (mentre le indagini procederanno e i risultati autoptici riveleranno qualche certezza in più e gli esami condotti sugli stub diranno se a sparare è stato o meno una delle quattro vittime) ce ne saremo tutti ben che dimenticati, un po’ per sopravvivere a tanto orrore ed un po’ anche perché – diciamolo chiaro – ad alcune notizie ci siamo abituati.

E’ difficile anche per noi giornalisti, resocontare (dare conto) di quello che accade ormai sempre più spesso tra le mura domestiche, lì dove invece dovrebbe regnare la consapevolezza che qualunque problema possa avere la giusta risoluzione.

Forse alcune risposte a quanto è accaduto nella villetta a Contrada Cutura a Rende poco più di 48 ore fa, risiedono proprio dentro quella abitazione; quella casa con tutte le porte e finestre perfettamente sigillate, quella casa chiusa dall’interno con quella chiave poi ritrovata sul corpo dell’uomo che ha compiuto il folle gesto, custodita nel giubbotto che indossava sopra il pigiama, mentre ai piedi aveva un paio di scarpe da ginnastica. In piena notte, con indosso un giubbotto ed un paio di scarpe, mentre i suoi familiari indossavano semplicemente quello che di notte si indossa, un pigiama, una vestaglia la moglie, e ai piedi dei calzini. Perché Salvatore Giordano indossava un giubbotto ed un paio di scarpe in piena notte? Chissà se in quella abitazione fossero presenti anche altri mazzi di chiavi.

Forse una accenno di premeditazione vi era, considerato che le armi da fuoco usate per finire la sua famiglia, che poi ha rivolto contro di se, sparandosi in bocca, non erano di sua proprietà ma erano state trafugate da casa di suo padre, che le deteneva legalmente. Forse aveva “ancora indosso” il giubbotto e le scarpe perché era appena rientrato dall’appartamento al piano di sotto, dove aveva prelevato le armi?

E allora perché non gli sono bastate, quelle due pistole? Perché ha usato tre coltelli differenti con lama dai 12 ai 15 cm per infierire con immane violenza contro i suoi figli e sua moglie? Che poi i corpi dei due coniugi sono stati ritrovati seduti, vicino alla porta d’ingresso, con la testa della donna sulla spalla dell’uomo. Forse la donna ha provato a scappare, senza riuscirci, così come era accaduto a Cristiana, la figlia che colpita a morte con arma da taglio e da fuoco, si è poi trascinata fino al corridoio, finendo prona, rannicchiata sul pavimento. Cristiana e le sue due lauree, perfettamente tenute in bella vista nella sua stanza, che lavorava in un call center dove aveva dimostrato le sue capacità, dove i colleghi lunedì mattina l’hanno attesa senza vederla arrivare, l’hanno chiamata senza avere risposta, per poi apprendere dalla stampa, quello che alla giovane fosse accaduto. E poi Giovanni, giovane studente, che presumibilmente svegliato da rumori di colluttazione provenienti dalla stanza della sorella, si è precipitato sul posto per soccorrerla, restando ferito a morte anch’egli.

Eppure in quella villetta c’era un particolare che sicuramente aiuterà gli investigatori a fare un po’ di chiarezza. L’unica stanza non interessata allo strazio di quei corpi e alle tracce ematiche derivanti da quella mattanza era un soggiorno, nel quale gli uomini dell’Arma che hanno effettuato i rilievi hanno trovato un ambiente vissuto, che lascerebbe ipotizzare che l’uomo dormisse lì da un po’. Coperte, cuscini, sigarette consumate.

Può essere dunque che qualche problematica familiare tenesse in pensiero Salvatore Giordano. Ma che tipo di pensiero? Incomprensioni varie, problemi economici, qualcosa che lo tormentava e che magari non aveva mai detto a nessuno?

Sul principio di storie come queste, nessuno sa mai nulla o forse nessuno sa mai abbastanza. A volte una lite può essere solo una lite…a volte. Forse i suoi familiari saranno in grado di ricostruire gli ultimi periodi della vita di quella famiglia, che oggi non c’è più, ma che lascia traccia nella cronaca, ancora una volta, e chissà se a quella stessa opinione pubblica che tanto si è interessata all’accaduto, interesserà sapere, tra un po’ cosa abbia spinto Salvatore Giordano a quella metodica omicida e suicida – sempre che si appuri  che i fatti siano andati così come da prima supposizione – esattamente come accadde per Giovanni Petrasso, agente di polizia penitenziaria che nello scorso giugno, in quella villetta a Montalto Uffugo, uccise sua moglie e poi si tolse la vita, o ancora a Francesco De Vito, appuntato dei carabinieri che nel maggio del 2015 compì lo stesso tragico e malsano gesto, risparmiando però i suoi figli.

Resta da capire come siano andate le cose e probabilmente i telefoni cellulari, i computer e i tablet sequestrati mostreranno qualche dettaglio dal quale partire o al quale arrivare.

 

Simona Stammelluti

 

 

Macabro ritrovamento quest’oggi per i Carabinieri del Comando Provinciale di Cosenza e della Compagnia di Rende coadiuvati dai Vigili del Fuoco nella villetta sita in contrada Cutura dove è stata ritrovata un’intera famiglia trucidata

I Vigili del Fuoco hanno dovuto forzare un ingresso per permettere agli uomini dell’Arma di introdursi nella villa e di ritrovare i resti della famiglia Giordano. Si tratterebbe con molta probabilità di un omicidio-suicidio, consumatosi presumibilmente nella notte tra le mura domestiche.

Una vera e propria mattanza, quella rilevata dai tecnici del Nucleo Investigativo di Cosenza, che hanno riscontrato non solo segni di arma da fuoco su 3 dei 4 corpi ritrovati.

La procura cosentina non si sbilancia in merito alla dinamica degli eventi e attende le perizie da parte dei consulenti balistici ingegneri Ferdinando e Vincenzo Mancino e del medico legale Berardi Cavalcante, sopraggiunti sui luoghi nel corso del pomeriggio di oggi. Gli stessi consulenti, unitamente agli uomini dell’Arma sono rimasti per ore all’interno dell’abitazione, prima che le salme lasciassero i luoghi all’interno dei classici sacchi da cadavere.

Le armi usate per la strage erano di proprietà di Giordano Giovanni, che abita al piano inferiore della villetta. Sembrerebbe dunque, che sia state sottratte al legittimo detentore da Giordano Salvatore che le ha usate contro i suoi figli, Giovanni e Cristiana e la moglie Franca Vilardi.

Da alcune indiscrezione sembrerebbe che il Giordano Salvatore si sia particolarmente accanito contro il corpo della ragazza, che ferita a morte si sarebbe trascinata fino al corridoio dove venivano rinvenute anche le salme dei due genitori. Il corpo del fratello Giovanni, è stato invece ritrovato senza vita sulla soglia della stanza della sorella, dove presumibilmente era giunto attirato da probabili rumori di colluttazione.

L’abitazione era chiusa dall’interno con diverse mandate e le chiavi sono state ritrovate all’interno dello stesso appartamento.

Non è chiaro ancora il movente, che gli investigatori stanno vagliando, sentendo in queste ore molti testimoni tra amici e parenti.

Il Pm che conduce le indagini unitamente al Procuratore Mario Spagnuolo è Domenico Frascino, che nelle prossime ore provvederà a conferire gli incarichi peritali, medico-legali e balistici al cui esito, si dovrebbero poter avere dettagli più chiari ed esaustivi sull’intera vicenda.

Ancora una volta esplode violenza all’interno delle mura domestiche con esiti drammatici, nonostante persone a loro vicine, abbiano continuato a sostenere la “normalità” delle loro vite.

 

Simona Stammelluti

 

Succede tutti gli anni, ed il bello sta proprio lì. A chi piace e a chi no, poi c’è chi finge di non vederlo perché molti lo definiscono “démodé” o privo di materiale culturale e allora per uniformarsi alla massa, lo guarda di nascondo, senza esprimersi mai in merito (hai visto mai che venga scoperto mentre canticchia il suo pezzo preferito?!?)

E poi si ha sempre qualcosa da ridire sui presentatori (più o meno abili), sul direttore artistico (le cui scelte non si apprezzano mai fino in fondo) e sulle presenze femminili che, tra una gaffe e l’altra, e vestite di tutto punto, portano sempre a casa il compitino.

Quest’anno c’è chi “altro che compitino” ha portato a casa ed è colui che è stata la vera rivelazione di questo Sanremo 2018, e che ha saputo sfruttare quel palco per mostrare tutti – ma proprio tutti – i suoi talenti.

Pierfrancesco Favino che fino a ieri era visto esclusivamente, forse, come uno dei migliori attori che l’Italia possa vantare, oggi, soprattutto dopo la straordinaria ed emozionante performance di ieri sera, può dire di saper fare davvero tutto.

E se ieri sera Favino ha straziato emotivamente tutti, con quel toccante monologo sulla condizione degli immigrati, tratto dal dramma di Bernard-Marie Koltès, commuovendosi e commuovendo, dimostrando di essere un attore di grande caratura, la sera prima ha lasciato tutti a bocca aperta suonando al sax “In a sentimental Mood”, famosissimo standard jazz composto da Duke Ellington.  E prima ancora ballando, e cantando, tanto che ci si è chiesti dove e quando abbia imparato a fare tutto, così bene. Verrebbe da dire che non ci si dovrebbe meravigliare più di tanto considerato che l’attore vero, dovrebbe essere capace di interpretare un qualsiasi ruolo e dunque le abilità dovrebbero essere tante e tutte in modalità “on”, e nel caso di Favino questa regola sembra calzargli a pennello.

Durante questo festival, mi sono domandata se mettere alla conduzione e alla direzione artistica un cantante, fosse stata una scelta giusta e onesta, o se potesse entrare in scena anche una buona dose di conflitti di interesse.  Da addetta ai lavori mi verrebbe da dire che un musicista, è sicuramente più abile nel scovare un pezzo che funziona e nel costruire poi uno spettacolo che, malgrado tutti gli annessi e connessi, alla fine si basa sulla canzone italiana. Baglioni ha passato quasi tutto il suo tempo sul palco dell’Ariston cantando le sue canzoni in duetto con i vari ospiti che si sono avvicendati (c’era troppo Baglioni nel Festival), e questo si è inevitabilmente tradotto in frutto in fatto di diritti d’autore; e poi la sigla, che ha scritto lui e ancora, scava scava, si scopre che la maggior parte dei cantanti in gara è della scuderia Sony Music, la stessa di Claudio Baglioni. Un caso? Direi di no. Che poi a dirla tutta, i momenti che sono toccati a lui, nella conduzione, sono stati spesso salvati da coloro che di mestiere sanno come fare uno Show, e allora Fiorello nella prima serata, la Virgina Raffaele nella seconda e così via.

Gli ospiti quest’anno, condannati al duetto con Baglioni – che forse se avessero potuto scegliere liberamente avrebbero probabilmente declinato l’invito – hanno fatto meno scalpore degli anni precedenti, fatta eccezione per Sting, che ha cantato in italiano, e James Taylor che nella terza serata ha regalato un bel duetto con Giorgia. Il Volo, i Negramaro, la Nannini, Gino Paoli, Antonacci, Pelù … ognuno a proprio modo ha riempito “un tempo”. Gli omaggi ad alcuni artisti scomparsi sono stati un tentativo (non sempre riuscito) per ricordare la bravura di cantautori che hanno ricamato in maniera impeccabile le trame della musica italiana. De Andrè, Bindi, Endrigo, Battisti. Ieri sera molto bello è stato il duetto Baglioni-Mannoia sulle note di “mio fratello che guardi il mondo” di Fossati, subito dopo il monologo di Favino.

Forse quasi nessuno ha notato la bravura al pianoforte ieri sera di Goeffry Martin Wesley, proprio mentre cantava Baglioni, ma era troppo dispendioso raccontare colui che è uno dei migliori pianisti ed arrangiatori in circolazione. Wesley che ha diretto l’orchestra di questa edizione e che proprio ieri sera, durante l’esecuzione della sigla.

Come tutti gli anni la presenza femminile è quella che fa più discutere, a partire da abiti e acconciature, per finire a gaffe e scivoloni vari. La Michelle Hunziker presa in presto alle reti Mediaset, fa quel che può, considerato che lei, nata modella, nella sostanza non sa fare un granché, non spicca per bravura in nulla e quella scelta infelice di farla cantare (per darle una collocazione diversa dalla valletta) non le ha giovato. Che poi capita a tutti la defaillance ma sbagliare clamorosamente il nome di un cantante come Jobim, la dice lunga su quanto lontana lei sia dal mondo musicale che l’ha inghiottita per 5 giorni, in modalità “full time”. Perché alcune cose si imparano con il tempo, si metabolizzano attraverso le passioni, però a dirla tutta, nessuno pretendeva che lei conoscesse Daniel Jobim e Ana Carolina, ma il copione in mano glielo avevano messo diversi giorni prima, le prove si erano abbondantemente consumate e dunque qualcuno avrebbe dovuto erudirla almeno sulla pronuncia. Le perdoniamo quell’eccesso di “dolcezza” nei confronti del marito seduto in platea nella prima serata, i cui abiti lei ha indossato qualche sera dopo, senza sortire grande successo. In quanto a perdono, perdoniamo anche Baglioni per non aver saputo cosa sia un melismo, nominato dalla Nannini, mentre disquisiva su abbellimenti sonori.

Ma alla fine della fiera, cosa resta di Sanremo?

Restano le canzoni, al netto di tarantelle, di denunce per plagio, di squalifiche e ripescaggi. Perché a giochi fatti, probabilmente la squalifica del pezzo “Non mi avete fatto niente” del duo Meta-Moro, accusati di aver utilizzato un pezzo già sentito, ha giocato a loro favore, ha tenuta alta l’attenzione su di loro, più che sul pezzo e alla fine alcuni meccanismi, innescano delle reazioni a catena che finiscono proprio lì, sul primo posto del podio. Fatto sta che alla quinta serata, anche quello che di solito non gradisci, si insinua nella testa, diventa orecchiabile e ti sembra di conoscerlo da sempre e si fa quasi fatica a dire cosa non piace.

Ma più che ciò che non piace, “mi piace” dire ciò che “mi piace” o meglio ciò che mi è piaciuto circa le canzoni in gara. Intanto mi sono piaciuti alcuni duetti – quelli consumatisi nella quarta serata – durante i quali l’arrivo di altre voci oltre a quelle in gara, ha concesso l’opportunità di immaginare altri abiti per le canzoni, altri arrangiamenti, altre sfumature. Il ritorno vocale di Servillo negli Avion Travel mi è sembrato un accordo perfetto, il jazz di Rita Marcotulli e Roberto Gatto hanno impreziosito il pezzo già bello di Gazzè, e poi Ron – la cui canzone ha vinto a pieno titolo il premio Mia Martini – con Alice; in quel duetto, la classe e la bravura hanno dato il giusto grembo alla canzone scritta da Lucio Dalla che, ne sono certa, sarà contemplata come una delle più belle dell’ultimo decennio.

Tutti gli anni diciamo che “non ci sono più le canzoni di una volta” oppure che “non ci sono più bei testi“, o che “gli interpreti sono orfani di buoni testi“. Beh quest’anno mi è sembrato che di buoni testi ce ne fosse più di qualcuno, forse perché a scriverli c’erano bravi autori dietro, già noti e famosi per il loro lavoro nel mondo della musica a prescindere da Sanremo, ed anche perché l’aspetto sociale è caduto in maniera NON involontaria in alcuni testi sottolineando come alcune tematiche non sono più ignorabili. Che il premio come “miglior testo” sia andato a “Stiamo tutti bene” di Mirkoeilcane che ha gareggiato nelle nuove proposte, non è un caso. La storia di un bambino che parte per un viaggio drammatico, la vita di chi lascia tutto senza sapere cosa sarà, il tema dei migranti è stato toccato con la giusta delicatezza ed anche musicalmente è stata rispettata la metrica. I ragazzi bolognesi de Lo Stato Sociale, arrivati secondi con “Una vita in vacanza“, vince il premio della Sala Stampa e a parte il ritornello orecchiabile e la dinamica artistica che mima un po’ lo show che lo scorso anno fu di Gabbani, il pezzo punta l’occhio sugli standard del lavoro, su quel voler identificare per forza qualcuno in base al lavoro che svolge, oltre che quel desiderio che appartiene ai giovani di poter lavorare facendo quello che piace e non solo per necessità.

Ho puntato più l’attenzione sull’assegnazione dei premi speciali, come quello per la migliore interpretazione andata ad Ornella Vanoni o al miglior arrangiamento stabilito dai maestri dell’orchestra che quest’anno è andato a Max Gazzè. Questi premi analizzano un po’ più a fondo i brani, li scandagliano dal punto di vista musicale, ne scorgono le novità armoniche, ne scrutano i dettagli interpretativi perché alla fine un pezzo bello ha bisogno anche di un bell’abito, che si traduce anche in un’ottima direzione d’orchestra, considerati che si è a Sanremo.

Calato il sipario, adesso si raccolgono i dati dello share, tutte le critiche che piovono insieme ai plausi e si riazzera tutto fino alla prossima edizione. A me resta la voglia di riascoltare alcuni brani, di riassaporare alcune sonorità e di far mie alcune parole. E poi resto con quel ricordo di quando nel 1998 sono entrata per la prima volta al teatro Ariston e dopo aver esclamato “ma così piccolo è?” ho respirato la magia che quel posto custodisce e che si rinnova ogni anno, quando oltre qualsiasi pronostico, produce sempre lo stesso successo perché “Sanremo è Sanremo…papàpà”

 

Simona Stammelluti

 

 

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Tra diatribe su un eventuale plagio, squalifiche e ripescaggio, Ermal Meta e Fabrizio Moro salgono sul podio e VINCONO la 68esima edizione del Festival di Sanremo con la loro “non mi avete fatto niente”.

Premio della critica Mia Martini a Ron con “Almeno pensami” di Lucio Dalla.

Premio Sala Stampa a Lo Stato Sociale con “Una vita in vacanza”.

Premio Sergio Endrigo per la migliore interpretazione Ornella Vanoni con Bungaro e Pacifico con il pezzo “Imparare ad amarsi”.

Premio Sergio Bardotti per il miglior testo assegnato dalla giuria degli esperti a Mirkoeilcane con il pezzo “Stiamo tutti bene”.

Premio Giancarlo Bigazzi assegnato dai maestri dell’orchestra a Max Gazzè con il pezzo “La leggenda di Cristalda e Pizzomunno”.

Premio Tim Music per il pezzo più ascoltato sulla app Tim a Ermal Meta e Fabrizio Moro con il pezzo “Non mi avete fatto niente”

Gli ultimi saranno i primi“, recita un famoso passo. E’ stato il caso del giovane 22enne che ieri sera ha vinto il Festival di Sanremo nella sezione “Nuove Proposte”. Ultimo, il 22enne romano vince con il brano “Il ballo delle incertezze” e la spunta su Mirkoeilcane, che però vince il premio della critica “Mia Martini” e su Mudimbi con la sua “Il mago” arrivato terzo, ma dato per favorito nelle ultime ore. La canzone vincitrice ha tutte le caratteristiche per essere quel pezzo che spopolerà in radio, che in tanti canticchieranno anche se il giovane cantante, non ha ancora una maturità vocale che dovrà invece allenare, se deciderà di continuare a fare questo mestiere per nulla facile.

La quarta serata del Festival ha visto poi duettare tutti i 20 Big, che hanno riproposto i loro brani insieme a personaggi del mondo musicale e non solo,  vestendo a nuovo alcune atmosfere.

Una lunga serata, durante la quale i brani in gara sono passati al vaglio della giuria di qualità, che ieri sera ha decretato una classifica provvisoria che vede nella parte alta la Vanoni, Diodato, Caccamo, Ron, Barbarossa e Gazzè.

I momenti più toccanti della serata hanno visto protagonisti Ron con Alice, sul brano scritto da Lucio Dalla, Avitabile e Servillo che hanno suonato con gli Avion Travel, Gazzè con due grandi jazzisti – Rita Marcotulli al piano e Roberto Gatto alla batteria – che hanno impreziosito il pezzo in gara, Barbarossa con Anna Foglietta che ha dimostrato ottima presenza scenica e phatos, e Lo Stato Sociale, che ha ospitato Paolo Rossi e il coro dell’Antoniano.  Anche l’intro al piano di Cammariere che ha accompagnato Nina Zilli è stato un ottimo ricamo.

Nella serata di ieri, ospiti Gianna Nannini, che dopo aver presentato il suo ultimo pezzo “Fenomenale” ha duettato – così come ormai fan tutti – con Baglioni che non perde occasione per cantare. Il pezzo è stato “Amore bello” durante il quale però, a causa di continui cambi di tonalità per adattare le strofe alle due diverse voci, ci sono state delle pecche in fatto di intonazione. La Nannini coglie anche impreparato Baglioni circa il significato di “melismo“. Ma a detenere lo scettro delle gaffe è la Hunziker che sbaglia i nomi dei cantanti stranieri ospiti nei duetti con i Big. Ma tanto alla fine lei ride, e non se ne interessa più di tanto.

Ospite della serata anche Piero Pelù che con Baglioni fa un omaggio a Battisti, raccontando poi come “Il tempo di morire” fu un modo di sfogare la rabbia di un tradimento, considerato che – differentemente da oggi, quando ci si arma e si uccide – il cantautore usò una penna e una chitarra per raccontare uno stato d’animo.

Favino non sa più come tenere a bada i suoi mille talenti, e dopo aver omaggiato la sua compagna con un mazzo di fiori ed un panino, scendendo in platea e baciandola tra i capelli, si cimenta anche in un momento jazz, suonando al sax “In a sentimental Mood”  tra i maestri dell’orchestra.

Segnalo come momento di grande lustro ed emozione durante la quarta serata del Festival, il premio alla carriera “Città di Sanremo” consegnato alla grande Milva, ritirato da sua figlia Martina Corgnati che ha regalato al pubblico in maniera toccante le parole di sua madre, che non solo ringraziava tutti coloro che avevano accolto la sua arte in tutto il mondo, ma incoraggiava i ragazzi a riconoscere i propri talenti e a coltivarli attraverso lo studio.

Ci prepariamo adesso all’ultima serata della 68esima edizione del Festival di Sanremo. Ai primi tre posti ci saranno, secondo i miei pronostici la Vanoni, Lo Stato Sociale e il duo Meta-Moro, ma il mio gusto personale mi porta a voler sperare che quel premio quest’anno vada a Ron, con la canzone di Lucio Dalla, ma anche con la sua capacità di interpretare, di essere lucido ma non troppo, di essere intonatissimo e appagante sotto il punto di vista delle emozioni, che poi alla fine, sono il grande regalo che la musica sa fare.

 

Simona Stammelluti

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Questa 68esima edizione del Festival di Sanremo è stata un’ottima possibilità per Pierfrancesco Favino per mostrare – anche a chi lo conoscesse abbastanza bene come attore – tutte le sue capacità artistiche. E se la presenza scenica con la quale calca il palcoscenico è senza dubbio una dote innata, sorprende vederlo, sera dopo sera, ballare ed intrattenere in maniera a volte esilarante, ma sempre con stile e con un picco alto di talento. Non è comune vedere un attore parlare così fluentemente la lingua inglese tanto da potersi permettere una sorta di parodia a Steve Jobs che spiega come sia riuscito a mettere a punto un replicante di  Claudio Baglioni.

La terza serata – che a parte qualche momento – non sembra particolarmente accattivante, si rianima con l’arrivo di Virginia Raffaele, che con la padronanza di chi sa fare “tutto e bene”, riesce a prendere elegantemente in giro il direttore artistico e poi con lo stesso canta. Ma lei sì che può farlo, perché ne é capace e così “canto anche se sono stonata”, diventa uno dei momenti migliori della serata.

Baglioni continua a proporre le sue canzone in tutte le salse e in ogni contesto; Persevera anche la Hunziker, che per la terza sera di seguito si cimenta nella pratica canora fallendo miseramente.
Non convince neanche il look retrò con quella pettinatura anni ‘30 e quei vestiti con godet.

Non falliscono invece in quel che a loro riesce benissimo, James Taylor e Giorgia in duetto, super ospiti della terza serata, che con la famosa “You’ve got a friend” mettono in pausa tutto il resto e tengono il palco di una bolla, sospesa in un’atmosfera sofisticata.

Anche i Negramaro ospiti della terza serata, che dopo aver profuso sul palco dell’Ariston tutta la verve possibile, alla fine – perché quella è la sorte che tocca a tutti ormai – cantano con Baglioni una delle sue canzoni, “Poster”. Che poi questi pezzi per forza di cose vengono riarrangiati e non sempre conservano le peculiarità armoniche e ritmiche che le resero celebri.

È tardi ormai quando sul palco sale Danilo Rea, un veterano del jazz che oggi piegatosi al commerciale, sveste quei panni e segue da anni Gino Paoli che ha fatto anche lui la storia della musica italiana, ma che ormai non ce la fa più e forse dovrebbe tenere seriamente in considerazione la possibilità di lasciare le scene; e così resta solo la tenerezza dell’omaggio a Faber e a Bindi.

Ma Sanremo è soprattutto una gara. In gara per la sezione “nuove proposte” Mudimbi (Il mago), Eva (Cosa ti salverà), Ultimo (Il ballo delle incertezze), Leonardo Monteiro (Bianca). Buoni i pezzi di Mudimbi e di Ultimo, anche se “quest’ultimo” ha poco controllo della sua voce.

Per i secondi 10 Big in gara, restano nella zona “alta” della classifica Max Gazzè, il duo Meta-Moro (aiutati sicuramente dalle polemiche degli ultimi giorni circa la vicenda del plagio) e Lo Stato Sociale.
A me ha colpito invece il duo partenopeo Avitabile-Servillo; hanno un sound spettacolare, ed arte interpretativa degna di nota.

Si attende la serata di oggi, durante la quale i 20 big duetteranno con altri artisti e tra questi “altri” ci sono fior fiore di talenti. Sarà – a mio avviso – la migliore delle serate fin ora consumatesi.

 

Simona Stammelluti

 

 

 

Seconda serata con qualche dettaglio degno di nota, ma anche tante “note stonate”. Si ostinano a far cantare la Hunziker che proprio non ce la fa, mentre Baglioni si autocelebra, mettendo i suoi pezzi – che per l’amor del cielo sono un pezzo importante della musica italiana – in ogni blocco di trasmissione.

Serata di ingresso per 4 nuove proposte, ma non sono certo i tempi della Pausini, di Zucchero, di Vasco o di Giorgia e tutto scorre via in poco più di mezz’ora, tra il “congiuntivo” di Lorenzo Baglioni (beato lui che ci scherza su), il “come stai” di Giulia Casieri, lo “stiamo tutti bene” di Mirkoeilcane e “gli specchi rotti” di Alice Caioli.

Tornano in gara sullo storico palco dell’Ariston 10 big, e dal secondo ascolto incominciano a delinearsi quelle che con molta probabilità saranno i pezzi che si guadagneranno il podio. Ancora degno di nota il pezzo scritto da Lucio Dalla “Almeno pensami” cantata magistralmente da Ron, che come sempre intonatissimo e appassionato, sembra possedere le dinamiche giuste per far rivivere Dalla in quel pezzo. Penso che andrà a lui il premio della sala stampa.

Anche la Vanoni, sul palco insieme a Bungaro e Pacifico e la loro “Imparare ad amarsi” rappresenta un ottimo momento di musica e di interpretazione. Decibel con “Lettera dal duca” (omaggio a David Bowie), anche il pole position, e tra le meno veterane Annalisa con la sua ballad “Il mondo prima di te” resta la più credibile, almeno in fatto di intonazione.

E poi ancora in gara ieri sera, Diodato con Roy Paci, Red Canzian, Renzo Rubino, le Vibrazioni e la Zilli che cerca in qualche modo di uscire dal suo cliché.

La serata si dipana tra cantanti in gara ed ospiti. Piacciono i tre ragazzi de “Il volo” ai quali il pubblico dell’Ariston riserva una standing ovation e con i quali Baglioni fa un omaggio a Sergio Endrigo in inizio di puntata, ma la star, la stella indiscussa della seconda serata resta Sting, che riesce a mettere in ombra tutto il resto. Canta – in italiano per omaggiare il Festival – “mad about you“, riadattata da Zucchero e che diventa “muoio per te“. Quella che a mio avviso è la peggior regia degli ultimi 15 anni di Festival di Sanremo, si riscatta proprio mentre canta la star inglese. Personalità da vendere, capacità espressiva, intonazione e fascino tutto insieme che si consuma sul palco dell’Ariston di Sanremo e poi quella performance insieme a Shaggy, alla fine della quale Sting scappa quasi via. Tra le due esibizioni qualche battuta con Favino, che ieri sera si è lanciato anche nel ballo.

Non c’è Fiorello, ma arriva Pippo Baudo, che racconta per sommi capi la sua esperienza sanremese; 13 edizioni, tanti talenti scoperti, tanti ospiti stranieri invitati ed incontrati, da Armstrong a Whitney Huston, a Springsteen. A Baglioni invece come ospite tocca Biagio Antonacci, che non dispiace se non fosse che si affossa da solo, provando a cantare con Baglioni – che continua ad autocelebrarsi – “mille giorni di te e di me”.

Sul finale – siamo quasi in ore piccole – un gradevole Roberto Vecchioni che racconta come nacque la canzone Samarcanda e cosa narra e con lui sul palco, un bravissimo (come sempre) Lucio Fabbri al violino.

Insomma…alla fine è sempre così; le trasmissioni collaudate nel tempo, finiscono per diventare un grande calderone, dal quale ognuno tira fuori quel sente più affine, il testo più sentito e quella musica che – come spesso accade – si insinua e finisce per ricordarti qualcosa che viene da lontano, come una nostalgia.

 

Simona Stammelluti

 

 

Puntuale come ogni festività che si rispetti, è arrivato Sanremo e come tutti gli anni ha portato con se le polemiche che alla fine, sono solo della prima serata; poi tutto sembra viaggiare su binari che si riscaldano e portano in circolo la musica che – piaccia o no – accompagna per un bel po’ di tempo, riempie le radio, e quando è possibile diventa il tormentone dell’estate.
È inutile dire che non è più il Festival di Luigi Tenco, di Claudio Villa, di Bindi e di Lauzi, come non é più quel Sanremo che aveva il ritmo e la leggiadria di chi quel palco sapeva come calcarlo, di chi di mestiere faceva il presentatore e che ha per molto tempo sostenuto il binomio “Sanremo-Pippo Baudo”.
Perché lui, con a fianco mannequin o soubrette, ha sempre saputo come portare avanti per sere e sere uno degli spettacoli più antichi della televisione italiana ed anche tra i più conosciuti fuori dai confini. Canzoni, ospiti stranieri, qualche gag e poi la musica protagonista.
Che però piaccia o meno, ieri sera la prima puntata del festival ha tenuto incollati oltre 11 milioni di telespettatori, che nell’era del digitale ha poi utilizzato i social network per dire la propria con il famoso hashtag.

Nel tempo le cose sono cambiate e alla conduzione oggi c’è un Claudio Baglioni rimesso a nuovo per l’occasione, impacciato e “fuori tempo”, che sembrava più in crisi per il papillon che non stava al suo posto, che per l’impaccio che ha mostrato. La Hunziker, che qualcuno pensa adatta a tutto, è sembrata forzata nelle battute, oltre che stonata ed improponibile come cantante. La triade alla conduzione si chiude con Pierfrancesco Favino, che impeccabile nel suo smoking e da bravo attore che piace a tutti, ha provato a fare del suo meglio, ma forse ci vuole ancora un po’ per padroneggiare sul famoso palco dell’Ariston che per quanto facile, resta una istituzione con tutto quello che si consuma su di esso.

La gaffe della Hunziker che sottolinea come “i pezzi a Sanremo siano tutti inediti”, non passa inosservato tanto quando i suoi begli abiti.
Per riempire un tempo morto le scappa anche un “ti amo, amore” diretto al marito in platea (ma a noi poco importa).

Sul palco, imprevista anche l’irruzione di un disturbatore ma a quello, gli spettatori di Sanremo sono abituati, considerato che ai tempi di Baudo, anche quel momento faceva audience.

Mattatore della serata Fiorello, show man a tutto tondo, versatile e simpatico come sempre, ironico al punto giusto, oltre che capace di ridare un ritmo alla trasmissione che alla fine è fatta di tante cose oltre alla musica, come ogni show che si rispetti.
La musica a Sanremo ha un grande privilegio, quello di essere suonata dai grandi maestri dell’Orchestra, che probabilmente non riceveranno in compenso cifre astronomiche come quelle di presentatori ed ospiti vari, ma sono l’emblema di come l’arte sia un dato oggettivo e al contempo appagante.
Ottima orchestra – sempre protagonista – ed anche ottimi direttori, come Antonio Fresa che quest’anno ha diretto l’orchestra sul pezzo cantato dalla Vanoni insieme a Bungaro e Pacifico, entrambi autori del pezzo “imparare ad amarsi”.
Molti cantautori sul palco di Sanremo quest’anno; Gazzè (discreto), Ron con “almeno pensami”, un pezzo delicato e appagante scritto da Lucio Dalla, e poi ancora Barbarossa, Avitabile con Servillo.
Mi è sembrato già tutto sentito nel pezzo di Elio e le Storie Tese, non mi sembra riuscito il duetto Meta-Moro e boccio Noemi e la Zilli che a parte il look improponibile, abbandona il suo stile, il suo sound e si dà alla canzone melodica che le toglie ogni caratteristica costruita nel tempo.
Le canzoni – tranne qualche raro caso – come sempre meritano un ascolto più approfondito, ed abbiamo ancora diverse serate per allenare l’orecchio e farci un’idea sui probabili vincitori.
Non mi sembra particolarmente azzeccata la giuria di qualità che influenzerà il verdetto finale, ma ormai ci hanno abituati ad accontentarci, e allora lasceremo che Scanzi, Allevi e Muccino dicano la loro.
Mi stringo nelle spalle e penso che forse a questo giro farà meglio il televoto.

Simona Stammelluti

Non è un film realizzato solo per celebrare la regia di chi i film li sa fare, e pure bene e neanche per mostrare l’immensa bravura di due attori come Maryl Streep e Tom Hanks che di riconoscimenti prestigiosi ne hanno vinti a vagonate. E’un film girato con la voglia e la fierezza di raccontare il ruolo del giornalismo nella storia, oltre a mostrare come si affrontano i poteri forti, come si resiste alla tentazione di “non rischiare”.

La stampa è al servizio di chi è governato, non di chi governa“. E’questa la frase cardine di un film forte, che pianta le sue fondamenta nella difficoltà delle scelte, e punta l’attenzione su quanto quelle scelte pesino sul lavoro, in termini di credibilità e di correttezza.
È tutto questo mentre amicizie strette, sodalizi, interessi più o meno spiccati, vengono utilizzati come sottili ricatti affinché alcune verità non vengano rivelate. Poteri forti da difendere, così come sono da difendere gli investitori e poi il popolo americano, il lettore, l’unico al quale la stampa dovrebbe sempre dare conto.
Seppur i fatti raccontati siano noti a tutti, il film di Spielberg, con il suo ritmo incessante e i dettagli storici, tiene lo spettatore in uno stato di eccitazione e di attesa.

Il film narra di una donna, titolare del Washington Post, che tira fuori tutto il coraggio e la convinzione che ha per ignorare la minaccia del governo americano guidato da Nixon – siamo nel 1971 – decidendo di pubblicare un articolo frutto di un’inchiesta stracolma di dettagli circa la guerra in Vientam, dettagli che spiegavano come mentre si continuavano a mandare a morire migliaia di soldati pur sapendo che non si sarebbe mai potuto vincere, i presidenti degli Stati Uniti si continuavano a passare il testimone di quelle scelte scellerate, solo per non ammettere la verità davanti al mondo intero.
Il film narra di come si fa il giornalismo d’azione, di come si consumano fumo ed ore in una redazione ai tempi nei quali le informazioni dovevi sapere dove trovarle e come. Il salto nel passato Steven Spielberg lo sa fare, portandoti dentro a quel luogo fatto di gente che lavora alacremente, mentre prepara le macchine per stampare a ciclostile, e poi ancora i camion che partono all’alba e buttano i giornali per strada mentre sono ancora in corsa. Racconta di un reporter che raccoglie la verità sul posto e che decide di trafugare i documenti Top Secret per poi passarli al New York Time che però dopo aver pubblicato, viene fermato dalla Casa Bianca. Sarà allora il Washington Post a dover continuare la battaglia affinché il popolo americano sappia.

Il sodalizio e il coraggio di colei che detiene la proprietà del giornale, ma che per una vita intera ha dovuto piegarsi al fatto di essere una donna, di essere spesso invisibile rispetto ad alcuni meccanismi, che sceglie però di mettere a repentaglio anche la sua amicizia con il Primo Ministro – colui che quelle indagini le aveva richieste – pur di dare un senso al suo ruolo e al ruolo della stampa. Il suo gesto ispira le altre testate che sull’esempio del Washington Post decidono anch’esse di pubblicare parti di quel fascicolo fino ad allora secretato, innescando a catena la forza della stampa libera, quella che non si lascia intimidire, che va fino in fondo, con tutti i rischi del caso.
E’ un film che tutti i giornalisti dovrebbero vedere perché descrive il coraggio di chi deve decidere, della passione che si deve necessariamente mettere in questo lavoro, di come si lavora in squadra, di come si reagisce davanti a delle scelte da prendere con lucidità e mettendo da parte ogni interesse, di come si tiene testa a chi è più forte e a chi quella forza sa sempre come usarla.
Molto bello il ruolo di Tom Hanks, che interpreta il direttore Ben Bradlee, che vive la sua vita in attesa che arrivi il momento propizio affinché il giornale possa diventare un quotidiano di grido; entusiasmante quel modo di convincere, di motivare, di non mollare. Appassionato il rapporto con Katharine Graham (Maryl Streep) editore, donna di grande fascino, che si trova a dover gestire il quotidiano alla morte di suo marito, morto suicida, che aveva ricevuto l’incarico di dirigere il giornale dal padre di Katharine. Degna di nota anche l’interpretazione di Bob Odenkirk, che nella pellicola fa Ben Bagdikian che insegue il suo vecchio amico Dan fino in una sperduta camera di un Motel per prendere in consegna i fascicoli incriminati e che, quella sua voglia di poter essere parte di una piccola rivoluzione la vive quando, all’indomani dell’uscita dell’articolo sul W.P. scopre che tutti gli altri giornali hanno seguito quell’esempio.

Un film dinamico, con molti primi piani, con la cinepresa che segue i personaggi nei loro passi, non sfrutta il campo controcampo nei dialoghi, ma si mette come terzo interlocutore, a fianco e poi gira intorno per scorgere ogni dettaglio di quello scambio di parole, di sguardi e di emozioni. E sono quelle che pulsano nel film e che dalla pellicola vengono fuori travolgenti. Emozioni come amore per un lavoro, passione per quel che si deve fare e coraggio, quello che spesso cambia per sempre il corso della storia.
Vincente la trovata di Spielberg che decide di utilizzare sul finale la vera voce di Nixon mentre si ribellava e sputava odio verso la stampa che raccontava i suoi misfatti.

Un film fin troppo attuale, che ricorda qualcuno che ancora oggi si comporta nella medesima maniera, ma resta da chiedersi se il coraggio della stampa di allora, sarebbe replicabile oggi.

Il film c’ha provato a porre questo interrogativo, chissà se gli avvenimenti e le scelte che verranno, sapranno regalare questa risposta, senza deludere.

 

Simona Stammelluti

 

Continua la raccolta delle testimonianze nell’ambito della strage avvenuta a San Lorenzo del Vallo il 30 ottobre del 2016

In aula oggi per il processo che vede imputato Luigi Galizia come esecutore materiale del duplice omicidio di Edda Costabile ed Ida Maria Attanasio, i tre uomini della squadra mobile – il commissario Falcone, il sovrintendente capo Palermo, l’ispettore Funaro – e il dottor Barbaro, il perito incaricato di effettuare l’esame autoptico sulle vittime nonché numerose perizie su luoghi, auto, indumenti.

I tre uomini della mobile, intervennero quando fu individuata grazie al sistema Gps l’auto del Galizia, oltre ad occuparsi della consegna della stessa ai familiari di Luigi Galizia – padre Domenico Galizia, Salvatore Galizia il fratello e l’omonimo zio – hanno spiegato come si fossero mossi nel momento del ritrovamento dell’auto, di come la stessa mostrasse chiavi inserite nel quadro e finestrino lato giuda completamente abbassato e poi di come siano riusciti furtivamente a fotografare gli indumenti presenti sul sedile posteriore dell’auto.

Le domande del Pm e della difesa miravano a capire come mai nelle foto realizzate dai poliziotti, l’immagine delle scarpe nuove che il padre di Luigi aveva rivelato appartenere a suo figlio, fossero state ritratte in diverse posizioni.

Si è ritenuto dunque necessario chiarire se le stesse – come anche il giubbino e il cappellino con visiera – anch’essi presenti all’interno dell’auto – fossero stati spostati e da chi.

Concordi i poliziotti nel dichiarare che gli indumenti erano stati maneggiati e spostati dal Domenico Galizia, padre di Luigi, mentre spiegava che quelle scarpe erano state acquistate da poco e mani messe.

Le domande del Pm hanno portato i teste a rispondere circa il periodo in cui gli stessi avessero sparato al poligono in sede di esercitazione.

Tutti hanno risposto che tali esercitazioni non si svolgono tanto spesso, circa una volta ogni 3 mesi e che sicuramente nessuno di loro aveva sparato a ridosso di quel 31 ottobre del 2016, data in cui i poliziotti sono intervenuti in quella piazza di Spezzano Albanese dove era stata intercettata l’auto del Galizia.

Si capisce poco dopo il perché di quella domanda, considerato che è durante la testimonianza del dott Barbaro, medico legale e perito della procura, che vien fuori che in una delle perizie svolte, ossia quelle all’interno dell’Alfa 156 di proprietà di Luigi Galizia, erano state rinvenute delle particelle di materiale che compongono la polvere da sparo. Il perito parlava proprio di antimonio, stagno, bario e piombo. Anche dalla perizia svolta presso la Questura di Cosenza, mirata ad analizzare del materiale balistico, il perito Barbaro ha potuto verificare che le cartucce sottoposte ad esame, erano identiche a quelle esplose dall’arma con la quale era stato commesso il duplice omicidio, ossia una Beretta calibro 9 corto.

Il materiale balistico era tra quello sequestrato nei locali di Rende in merito all’inchiesta della Dda.

Ma lo stesso perito ha tenuto a specificare che quel genere di proiettile è molto comune, e attualmente utilizzato anche dalla Guardia di Finanza.

Le perizie mirate a rintracciare tracce di polvere da sparo svolte sulle altre due autovetture di proprietà del padre di Luigi Galizia e di suo fratello Salvatore, ossia una Grande Punto e una Citroen, avevano dato esito negativo.

Il perito Barbaro ha poi illustratori in maniera approfondita le dinamiche della perizia svolta sul luogo del duplice omicidio (il cimitero di San Lorenzo del Vallo) oltre che in sede di esame autoptico, e poi, rispondendo al Pm Giuliana Rana, ha delucidato circa i 10 bossoli rinvenuti, di cui 2 inesplosi, 4 diretti all’Attanasio e i restanti verso la Costabile.

Molti dei dettagli del Dott. Barbaro erano già stati resocontati in aula dirante la prima udienza, dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Cosenza, che avevano effettuato i rilievi nell’immediatezza del crimine.

L’imputato, Luigi Galizia, anche quest’oggi in aula.

 

Simona Stammelluti