Documentare, creare un documento, ma anche interpretare eventi e realtà, raccontarli e poi lasciare un segno, un solco, una traccia
Film di interesse culturale, una caccia all’uomo, quella doccia fatta al volo grazie alla gentilezza della proprietaria del lido come un’ultima esperienza di umanità, e poi il viaggio senza ritorno verso Vallo della Lucania, quello di Francesco Mastrogiovanni, sul quale pende una richiesta di un Trattamento Sanitario Obbligatorio; Francesco, quell’uomo che diventa vittima inconsapevole di una condotta umana fuori da ogni umanità.
Le sue ultime 87 ore di vita, dal 31 luglio al 4 agosto del 2009, riprese dalle telecamere di video sorveglianza, mentre viene rinchiuso in un ospedale psichiatrico, “imprigionato” in una metodica operativa nella quale gli viene negato anche l’essenziale come cibo, igiene e visite mediche, mentre viene sedato, legato, portato via ai suoi affetti, e strappato senza motivo alla vita.
Orari scanditi su uno sfondo nero, utilizza la regista per segnare lo scorrere di quelle 87 ore che si stringono sempre più strette intorno a Francesco e quel suono che scortica l’animo di chi guarda e che scandisce l’agonia di un uomo che potrebbe essere ognuno di noi, sorpreso in un giorno qualunque mentre sbaglia le parole di una canzone, mentre mostra una leggera follia, di quelle che non nuocciono a nessuno e che a volte, aiutano anche a sopravvivere.
Quelle telecamere, quel sorvegliare senza guardare, diventa un metodo di tortura pari alle torture reali subite da Francesco. Immagini diurne e notturne, quelle più macabre, quelle ad infrarossi, spettrali in bianco e nero, degne del miglior film dell’orrore, e poi il meccanismo della frammentazione della responsabilità di ognuno delle persone che hanno girato intorno a lui, che lo hanno pian pian torturato, un pezzetto alla volta, seguendo un contesto istituito, che tanto ricorda la prassi dei luoghi di tortura, di quelli dei campi di concentramento, delle aberrazioni di regime, dell’annullamento dell’umanità per mano dell’uomo.
Quella frammentazione di responsabilità che cancella la responsabilità del singolo che nel proprio “breve fare”, in quel breve e metodico percorso smette di essere un uomo che pensa e che reagisce, ma semplicemente esegue.
Le mostra la regista le porte oscurate di quel posto, con i fogli bianchi attaccati alle parti trasparenti, affinché nessuno sguardo possa scrutare ciò che lì dentro si consuma e nulla possa uscire da quei luoghi, neanche un grido di dolore o una parola che possa domandare aiuto.
Racconta la fiducia mal riposta dei familiari, Costanza Quatriglio, la raccoglie quella fiducia ingenua che non incontra rispetto e la condivide con lo spettatore, affinché possa trovare riscatto. Il racconto nella voce di quella nipote della quale non si vede il volto, che si scaglia contro il nero dello schermo, mentre si attende impassibili al ritorno di immagini senza pietà, agghiaccianti e raccapriccianti.
Il film è anche una denuncia verso tutti quegli abusi che sono stati condotti contro i familiari che non sapevano che quelle porte non dovevano restare chiuse, e che si sono chiuse invece, lasciando fuori il loro diritto di vedere tridimensionalmente, da vicino e con coraggio quello che lì dentro si stava consumando.
Il lavoro diviso in più tranche, si dedica anche alla parte processuale, mostra i volti dei familiari di Francesco, degli avvocati; sottolinea quella frase “se solo una persona in quei 5 giorni si fosse alzato e avesse detto, ma cosa stiamo facendo?”
Le parole della sorella di Francesco, che lo descrive come un uomo riservato, e poi quella voglia di “proteggere tutti” affinché i suoi cari non sapessero cosa gli fosse davvero accaduto. Anche la regista ha voluto proteggere lo spettatore dalla crudeltà consumatasi, diluendo le immagini con la sua capacità di raccontare una storia, che in se racchiude il senso profondo di una vita che è andata ben oltre quelle vicissitudini.
Mette tutto quello che serve per creare un senso circolare al film, Costanza Quatriglio. Le iniziative, la richiesta di giustizia per Francesco; quella giustizia, che spesso diventa quasi un privilegio per pochi, e poi la verità, quel dettaglio posto in fondo all’orizzonte che sembra così lontano ed inafferrabile, se non ci si impegna fino allo spasimo per poterlo stringere, almeno una volta prima di archiviare un dolore.
Le mette insieme le immagini di quel luogo, la regista, vi fa un petchwork, affinché non ci siano dubbi di cosa si consumi nelle ultimissime ore di vita del maestro elementare Francesco Mastrogiovanni. La desolazione tutt’intorno, il vuoto, il nulla, la permanenza del dolore che viene ignorato e poi sacrificato, in nome di una assenza di umanità che spaventa più della crudeltà delle immagini che riprendono un uomo nudo, maltrattato e morente in un letto di un ospedale psichiatrico.
Per chiudere il cerchio di una storia che ha dell’incredibile, la regista torna al mare, all’imbrunire, lo inquadra da vicino, lo rende protagonista, lo lascia cantare, così come faceva Francesco, lo lascia cantare mentre si agita e poi si spegne a riva e in quello “spazio” che è anche emozionale lo spettatore si ritrova a cercare di mettere insieme pezzi di pensieri e quelle parole che, se le si potessero catalogare, finirebbero tutte nella casella con su scritto: “ingiustizia”.
La luna a metà, il vento che spinge avanti e indietro le foglie sottili di una pianta in riva al mare. Inquadra da vicino la terra, dove Francesco ritorna senza un perché. In quella terra dove c’è vita però, se guardi bene, dove c’è un’operosità perpetua e incoraggiante.
Non la lascia scorrere la domanda che tutti si sono posti davanti a quelle immagini e cioè: “Avrà sofferto Francesco, durante quelle 87 ore?” Non la lascia al caso la risposta a questa domanda che fa male, ma l’affida alle parole del medico legale che lo spiega bene come anche sotto sedazione, ci fu un tentativo di strapparsi via da quella situazione di contenzione forzata. Decide di fare male fino in fondo, Costanza Quatriglio, di far male alle coscienze, più che agli occhi.
La sentenza che condanna i medici per “falso ideologico, sequestro di persona e morte conseguente ad altro delitto”, e che assolve gli infermieri poiché “obbedivano ad un ordine legittimo“, scorrono nei titoli di coda, come fosse un premio di consolazione, come se si potesse – in pieno stile Quatriglio – utilizzare la punteggiatura, mettendo un punto ed andando a capo.
Un racconto che parte da un documento, che diventa storia. L’intento della regista diviene quello di far parlare la sconcertante realtà delle immagini, di come sono andare le cose; utilizza le immagini messe a disposizione dall’ospedale psichiatrico, ma sa bene che l’orrore che da esse viene fuori e che lascia senza parole, non è sufficiente e pertanto quelle immagini sono diventate la chiave di lettura per costruire un racconto.
La regista ha dovuto prima far suo un linguaggio; un linguaggio medico ed anche giuridico, che andava interpretato e compreso. Ha dovuto anche servirsi dell’occhio disumano e disumanizzante delle telecamere di sorveglianza, che sono molto diverse dall’occhio meccanico che un regista di solito usa per inquadrare ciò che sceglie di raccontare.
La chiave del film è l’osservazione, fare quello che quelle telecamere non hanno fatto per come avrebbero dovuto. Quelle telecamere hanno in maniera disumana, incastrato la disumanità con la quale è stato trattato e poi ucciso Francesco.
Insensatezza, atrocità, assurdità compiute in nome di alcune leggi e regole interne che sono proprie del modo di guardare che hanno in quel luogo. La sua regia è un modo di restituire una sorta di tridimensionalità ai personaggi catturati dalle telecamere della videosorveglianza ed intrappolate in immagini fredde e bidimensionali, quasi schiacciate da quelle stesse insulse regole da rispettare.
Il potere di quello sguardo dall’alto, di quell’occhio che non sa chiedere scusa e che non ha nessun rapporto umano, di umanità, con l’essere “umani”.
Vi è una linea netta che si evince da questo lavoro, ed è quel limite che separa la vita di Francesco, fatta di spiaggia, luce, bellezza, e quel senso di libertà (che sono le immagini con le quali si apre il film) da quei giorni di contenzione, di illecito, di abuso; il film mostra “la rappresentazione” ed il meccanismo del male che si autoalimenta fino all’assuefazione, attraverso un modus operandi meccanico e crudo.
E se è vero che l’occhio freddo di quelle telecamere hanno lasciato una traccia indelebile di quel che è accaduto a Francesco, solo un occhio umano poteva in realtà dire come e perché fosse morto, osservando da vicino le ferite, interrogando quel corpo come se potesse ancora parlare. La testimonianza di come in quel luogo – dove Francesco Mastrogiovanni non voleva andare perché sapeva che “lo avrebbero ammazzato” – si smette di essere umani, si smette di pensare e si diventa macchine.
Archivio e sintassi, gli anelli preziosissimi del lavoro documentaristico di Costanza Quatriglio che apre al “suo punto di vista”, malgrado quelle immagini cruente impongano un proprio punto di vista dal quale non si può scappare.
Utilizza come narratori non solo le immagini delle telecamere, o il corpo di Francesco, ma anche i proprietari del lido che raccontano a modo proprio le ultime ore di vita da cosciente di Francesco, le sue ultime parole. La regista non mostra i volti di chi racconta, ma solo i luoghi da dove quel racconto ha inizio. Sono quelle immagini a disegnare i contorni dell’accaduto, a fare da controcampo alle vicissitudini di Francesco, e sono loro le protagoniste della storia, paradossalmente.
Una testimonianza questo film, di ciò che sta dietro le azioni dei singoli, che diventano torture e che potrebbero accadere ancora. Una denuncia profondamente sentita, nella scelta della regista di contrapporre l’inumanità di chi agisce all’innocenza di chi subisce, che sapeva forse a cosa andasse incontro, ma la cui voce non ha trovato spazio, tranne che nel film.
La ripetizione delle azioni subìte da Francesco e l’autenticità di un documento, che a corredo avrà – grazie alla capacità di Costanza Quatriglio di creare una linea narrativa – almeno nelle intenzioni, un riscatto emotivo.
Torna il senso circolare nella storia: Francesco che amava il mare, che come si vede in inizio di pellicola è lì, bagnato di salsedine e di sole, dopo le 87 ore, muore con l’acqua che fa collassare i suoi polmoni.
La sceneggiatura porta la storia, dal suono del mare del Cilento, dalla musica con cui si apre il Film, al silenzio, al nulla con il quale si chiude su quella immagine di una rete di un letto di un ospedale psichiatrico ormai vuoto, pronto ad essere riempito ancora di orrore.
Simona Stammelluti
Visione del docufilm, qui https://www.raiplay.it/video/2015/12/Doc-3-87-Ore-del-28122015-302e0e12-2a9b-4ae8-a339-e5c5ed9f659d.html