Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 62 di 94
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Documentare, creare un documento, ma anche interpretare eventi e realtà, raccontarli e poi lasciare un segno, un solco, una traccia

Film di interesse culturale, una caccia all’uomo, quella doccia fatta al volo grazie alla gentilezza della proprietaria del lido come un’ultima esperienza di umanità, e poi il viaggio senza ritorno verso Vallo della Lucania, quello di Francesco Mastrogiovanni, sul quale pende una richiesta di un Trattamento Sanitario Obbligatorio; Francesco, quell’uomo che diventa vittima inconsapevole di una condotta umana fuori da ogni umanità.

Le sue ultime 87 ore di vita, dal 31 luglio al 4 agosto del 2009, riprese dalle telecamere di video sorveglianza, mentre viene rinchiuso in un ospedale psichiatrico, “imprigionato” in una metodica operativa nella quale gli viene negato anche l’essenziale come cibo, igiene e visite mediche, mentre viene sedato, legato, portato via ai suoi affetti, e strappato senza motivo alla vita.

Orari scanditi su uno sfondo nero, utilizza la regista per segnare lo scorrere di quelle 87 ore che si stringono sempre più strette intorno a Francesco e quel suono che scortica l’animo di chi guarda e che scandisce l’agonia di un uomo che potrebbe essere ognuno di noi, sorpreso in un giorno qualunque mentre sbaglia le parole di una canzone, mentre mostra una leggera follia, di quelle che non nuocciono a nessuno e che a volte, aiutano anche a sopravvivere.

Quelle telecamere, quel sorvegliare senza guardare, diventa un metodo di tortura pari alle torture reali subite da Francesco. Immagini diurne e notturne, quelle più macabre, quelle ad infrarossi, spettrali in bianco e nero, degne del miglior film dell’orrore, e poi il meccanismo della frammentazione della responsabilità di ognuno delle persone che hanno girato intorno a lui, che lo hanno pian pian torturato, un pezzetto alla volta, seguendo un contesto istituito, che tanto ricorda la prassi dei luoghi di tortura, di quelli dei campi di concentramento, delle aberrazioni di regime, dell’annullamento dell’umanità per mano dell’uomo.

Quella frammentazione di responsabilità che cancella la responsabilità del singolo che nel proprio “breve fare”, in quel breve e metodico percorso smette di essere un uomo che pensa e che reagisce, ma semplicemente esegue.

Le mostra la regista le porte oscurate di quel posto, con i fogli bianchi attaccati alle parti trasparenti, affinché nessuno sguardo possa scrutare ciò che lì dentro si consuma e nulla possa uscire da quei luoghi, neanche un grido di dolore o una parola che possa domandare aiuto.

Racconta la fiducia mal riposta dei familiari, Costanza Quatriglio, la raccoglie quella fiducia ingenua che non incontra rispetto e la condivide con lo spettatore, affinché possa trovare riscatto. Il racconto nella voce di quella nipote della quale non si vede il volto, che si scaglia contro il nero dello schermo, mentre si attende impassibili al ritorno di immagini senza pietà, agghiaccianti e raccapriccianti.

Il film è anche una denuncia verso tutti quegli abusi che sono stati condotti contro i familiari che non sapevano che quelle porte non dovevano restare chiuse, e che si sono chiuse invece, lasciando fuori il loro diritto di vedere tridimensionalmente, da vicino e con coraggio quello che lì dentro si stava consumando.

Il lavoro diviso in più tranche, si dedica anche alla parte processuale, mostra i volti dei familiari di Francesco, degli avvocati; sottolinea quella frase “se solo una persona in quei 5 giorni si fosse alzato e avesse detto, ma cosa stiamo facendo?”

Le parole della sorella di Francesco, che lo descrive come un uomo riservato, e poi quella voglia di “proteggere tutti” affinché i suoi cari non sapessero cosa gli fosse davvero accaduto. Anche la regista ha voluto proteggere lo spettatore dalla crudeltà consumatasi, diluendo le immagini con la sua capacità di raccontare una storia, che in se racchiude il senso profondo di una vita che è andata ben oltre quelle vicissitudini.

Mette tutto quello che serve per creare un senso circolare al film, Costanza Quatriglio. Le iniziative, la richiesta di giustizia per Francesco; quella giustizia, che spesso diventa quasi un privilegio per pochi, e poi la verità, quel dettaglio posto in fondo all’orizzonte che sembra così lontano ed inafferrabile, se non ci si impegna fino allo spasimo per poterlo stringere, almeno una volta prima di archiviare un dolore.

Le mette insieme le immagini di quel luogo, la regista, vi fa un petchwork, affinché non ci siano dubbi di cosa si consumi nelle ultimissime ore di vita del maestro elementare Francesco Mastrogiovanni. La desolazione tutt’intorno, il vuoto, il nulla, la permanenza del dolore che viene ignorato e poi sacrificato, in nome di una assenza di umanità che spaventa più della crudeltà delle immagini che riprendono un uomo nudo, maltrattato e morente in un letto di un ospedale psichiatrico.

Per chiudere il cerchio di una storia che ha dell’incredibile, la regista torna al mare, all’imbrunire, lo inquadra da vicino, lo rende protagonista, lo lascia cantare, così come faceva Francesco, lo lascia cantare mentre si agita e poi si spegne a riva e in quello “spazio” che è anche emozionale lo spettatore si ritrova a cercare di mettere insieme pezzi di pensieri e quelle parole che, se le si potessero catalogare, finirebbero tutte nella casella con su scritto: “ingiustizia”.

La luna a metà, il vento che spinge avanti e indietro le foglie sottili di una pianta in riva al mare. Inquadra da vicino la terra, dove Francesco ritorna senza un perché. In quella terra dove c’è vita però, se guardi bene, dove c’è un’operosità perpetua e incoraggiante.

Non la lascia scorrere la domanda che tutti si sono posti davanti a quelle immagini e cioè: “Avrà sofferto Francesco, durante quelle 87 ore?” Non la lascia al caso la risposta a questa domanda che fa male, ma l’affida alle parole del medico legale che lo spiega bene come anche sotto sedazione, ci fu un tentativo di strapparsi via da quella situazione di contenzione forzata. Decide di fare male fino in fondo, Costanza Quatriglio, di far male alle coscienze, più che agli occhi.

La sentenza che condanna i medici per “falso ideologico, sequestro di persona e morte conseguente ad altro delitto”, e che assolve gli infermieri poiché “obbedivano ad un ordine legittimo“, scorrono nei titoli di coda, come fosse un premio di consolazione, come se si potesse – in pieno stile Quatriglio – utilizzare la punteggiatura, mettendo un punto ed andando a capo.

Un racconto che parte da un documento, che diventa storia. L’intento della regista diviene quello di far parlare la sconcertante realtà delle immagini, di come sono andare le cose; utilizza le immagini messe a disposizione dall’ospedale psichiatrico, ma sa bene che l’orrore che da esse viene fuori e che lascia senza parole, non è sufficiente e pertanto quelle immagini sono diventate la chiave di lettura per costruire un racconto.

La regista ha dovuto prima far suo un linguaggio; un linguaggio medico ed anche giuridico, che andava interpretato e compreso. Ha dovuto anche servirsi dell’occhio disumano e disumanizzante delle telecamere di sorveglianza, che sono molto diverse dall’occhio meccanico che un regista di solito usa per inquadrare ciò che sceglie di raccontare.

La chiave del film è l’osservazione, fare quello che quelle telecamere non hanno fatto per come avrebbero dovuto. Quelle telecamere hanno in maniera disumana, incastrato la disumanità con la quale è stato trattato e poi ucciso Francesco.

Insensatezza, atrocità, assurdità compiute in nome di alcune leggi e regole interne che sono proprie del modo di guardare che hanno in quel luogo. La sua regia è un modo di restituire una sorta di tridimensionalità ai personaggi catturati dalle telecamere della videosorveglianza ed intrappolate in immagini fredde e bidimensionali, quasi schiacciate da quelle stesse insulse regole da rispettare.

Il potere di quello sguardo dall’alto, di quell’occhio che non sa chiedere scusa e che non ha nessun rapporto umano, di umanità, con l’essere “umani”.

Vi è una linea netta che si evince da questo lavoro, ed è quel limite che separa la vita di Francesco, fatta di spiaggia, luce, bellezza, e quel senso di libertà (che sono le immagini con le quali si apre il film) da quei giorni di contenzione, di illecito, di abuso; il film mostra “la rappresentazione” ed il meccanismo del male che si autoalimenta fino all’assuefazione, attraverso un modus operandi meccanico e crudo.

E se è vero che l’occhio freddo di quelle telecamere hanno lasciato una traccia indelebile di quel che è accaduto a Francesco, solo un occhio umano poteva in realtà dire come e perché fosse morto, osservando da vicino le ferite, interrogando quel corpo come se potesse ancora parlare. La testimonianza di come in quel luogo –  dove Francesco Mastrogiovanni non voleva andare perché sapeva che “lo avrebbero ammazzato” – si smette di essere umani, si smette di pensare e si diventa macchine.

Archivio e sintassi, gli anelli preziosissimi del lavoro documentaristico di Costanza Quatriglio che apre al “suo punto di vista”, malgrado quelle immagini cruente impongano un proprio punto di vista dal quale non si può scappare.

Utilizza come narratori non solo le immagini delle telecamere, o il corpo di Francesco, ma anche i proprietari del lido che raccontano a modo proprio le ultime ore di vita da cosciente di Francesco, le sue ultime parole. La regista non mostra i volti di chi racconta, ma solo i luoghi da dove quel racconto ha inizio. Sono quelle immagini a disegnare i contorni dell’accaduto, a fare da controcampo alle vicissitudini di Francesco, e sono loro le protagoniste della storia, paradossalmente.

Una testimonianza questo film, di ciò che sta dietro le azioni dei singoli, che diventano torture e che potrebbero accadere ancora. Una denuncia profondamente sentita, nella scelta della regista di contrapporre l’inumanità di chi agisce all’innocenza di chi subisce, che sapeva forse a cosa andasse incontro, ma la cui voce non ha trovato spazio, tranne che nel film.

La ripetizione delle azioni subìte da Francesco e l’autenticità di un documento, che a corredo avrà – grazie alla capacità di Costanza Quatriglio di creare una linea narrativa – almeno nelle intenzioni,  un riscatto emotivo.

Torna il senso circolare nella storia: Francesco che amava il mare, che come si vede in inizio di pellicola è lì, bagnato di salsedine e di sole, dopo le 87 ore, muore con l’acqua che fa collassare i suoi polmoni.

La sceneggiatura porta la storia, dal suono del mare del Cilento, dalla musica con cui si apre il Film, al silenzio, al nulla con il quale si chiude su quella immagine di una rete di un letto di un ospedale psichiatrico ormai vuoto, pronto ad essere riempito ancora di orrore.

 

Simona Stammelluti

Visione del docufilm, qui https://www.raiplay.it/video/2015/12/Doc-3-87-Ore-del-28122015-302e0e12-2a9b-4ae8-a339-e5c5ed9f659d.html

 

 

 

 

 

Ci voleva un gesto che facesse simpatia a tutti, ma proprio a tutti, anche a quelli del PD messi in punizione fino a data da destinarsi. Ma il gesto di simpatia, che poi è un gesto di puro marketing politico – per chi mastica la materia – ossia la bella foto che ritrae Fico che scende da un autobus, non è sicuramente lì a caso, soprattutto considerato lo sdegno, il rigurgito acido e l’insurrezione di una parte degli elettori che lo scorso 4 marzo hanno votato per il Movimento 5 Stelle sull’onda dello slogan “nessun inciucio, tutti a casa“; perché è da un paio di giorni che quegli stessi elettori inondano i social pubblicando a tutto gas, quel video patchwork nel quale in una lunga carrellata si sente forte e chiara la voce dei grillini che ripetono quelle parole, per poi rimangiarle replicando con un “siamo aperti al confronto, parleremo con tutte le forze politiche, è stato un voto per poter avere Fico come presidente della Camera“.

Che poi a dirla tutta questa parte di elettorato fa un po’ tenerezza, considerato che in politica i compromessi, gli accordi, i patti è quasi impossibile non farli, soprattutto quando diviene necessario uscire da alcune empasse che fermano quelle fasi fondamentali del percorso di una legislatura. Quelli dei 5 Stelle  – i furbetti del movimento – lo sapevano che quelle parole avrebbero attecchito, e pure bene; loro, a differenza di quelli che oggi incominciano ad indignarsi, lo sapevano bene che quelle erano le dinamiche della politica, semmai avessero governato. Dunque si torna sempre allo status quo ante. Se alcune domande ce le si fosse poste a monte, se si conoscesse la materia un po’ di più, oggi non ci sarebbe tutto questo meravigliarsi ed indignarsi…e ancora non abbiamo visto nulla.

Per cui ad oggi poco varranno i: “pensavo fossero diversi”, “avevano detto che mai con Berlusconi”, perché che piaccia o no – e qui gli elettori del Movimento 5 Stelle dovranno farsi piacere tutto, ma proprio tutto, a meno che non si mettano a pregare che accordatisi su una nuova legge elettorale, si vada nuovamente al voto – loro hanno vinto, e devono governare, devono far vedere quello che sanno fare e quel “fare”, va ben oltre la foto di Fico che scende da un autobus.

Certo è che fanno sorridere e non poco quei video in cui l’odio e il disgusto che Di Maio esternava verso Salvini e viceversa, si sia trasformato, nel giro di poche ore, in una pacifica convivenza, o forse dovrei dire in un “tango” nel quale ci si appassiona al ruolo, a quel ruolo che fa gola  a tutti, e allora va bene che ci si rimangi tutto, tanto loro sapevano come sarebbero andate le cose, perché seppur non avranno la competenza del “fare”, sono tutti furbi abbastanza per sedere su quelle sedie.

E mentre si salvano e si conservano le foto dell’ormai famoso murales realizzato a  Roma da un artista di strada palermitano, esponente del movimento “Neo Pop” che ritrae il bacio tra Di Maio e Salvini – fatto cancellare alla velocità della luce dall’amministrazione Raggi (magari avesse fatto chiudere le buche sulle strade con la stessa solerzia) – che tanto ricorda il murales di Berlino che ritraeva il bacio fraterno tra Erich Honecker e Leonid Brezhnev, il marketing politico del Movimento 5 Stelle muove i suoi passi e punta tutto sulla foto di Fico, sorridente che si mostra uomo tra gli uomini, come Gesù Cristo prima di finire sulla croce e che prende i mezzi pubblici (sempre che circolino in orario e fuori dagli scioperi).

E si lasci stare il fatto che molti degli esponenti del M5S non hanno conseguito una laurea o che hanno lavorato in un call center, non è questo che importa. Ci sono persone validissime senza laurea, mi viene da pensare a Valter Veltroni, che è stato direttore dell’Unità, e poi vicepresidente e ministro nel governo Prodi, fu Sindaco di Roma, e i risultati ottenuti nella valorizzazione ed il recupero dei beni culturali su tutto il territorio nazionale, sono stati riconosciuti anche all’estero. Per questo non è la mancata laurea  di qualcuno, ma la mancanza di un pensiero politico, di un’idea propria che esca dalla loro bocca senza essere stati prima indottrinati come se ci fosse una sola risposta contemplabile, nella miriade di domande plausibili.

Non siamo come quelli del Fatto Quotidiano che vomitano parolacce ed improperi perché usare quel tipo di intercalare contro gli altri, contro il Pd forse, da loro una forza che non riescono a trovare altrove. Noi, dalle pagine del nostro giornale, vogliamo sottolineare anche qualcosa che in queste ore sfugge, ossia che quelli del M5S non sono angeli scesi dal paradiso per liberarci dal fuoco dell’inferno. Sono quelli che tra di loro hanno Dessì, sono quelli del bluff, del “Dessì ha rinunciato” e poi dell’imbarazzo di Di Maio. Emanuele Dessì, finito sotto accusa per il canone di 7 euro della casa popolare in cui era in affitto e per il filmato che lo ritraeva insieme a Roberto Spada. Difficile oggi non sapere chi siano gli Spada, la malavita, la mafia su Ostia. La stessa Ostia dove i balneari puntarono sull’appoggio dei 5 Stelle, per intralciare il lavoro di Sabella alla lotta al sistema degli abusi edilizi sulle spiagge e delle concessioni balneari irregolari. A parlare sono le intercettazioni in cui Balini e Papagni tramano per sabotare gli interventi sui lidi abusivi, e che  potete leggere se vi va, su La Repubblica a firma di Federica Angeli, che vive e resiste ad Ostia, che ha bisogno della scorta per non morire, dopo essere stata minacciata da quella stessa mafia locale.

E che non si dica sempre “Però il Pd” perché il Pd è fuori dai giochi, e un po’ di penitenza non gli farà male, sopratutto perché ha bisogno di tempo per capire quali errori siano stati commessi e soprattutto come rimediare, per non permettere che l’incoerenza e il potere del marketing, trascinino questa Italia, in una sete di sangue e ad un punto senza più ritorno.

Che poi siamo sempre alle solite. Siamo tutti bravi quando dobbiamo difendere quel che è nostro, ma alla fine siamo un popolo che non vuole cambiare, forse, perché vogliamo l’onestà altrove e poi però continuiamo ad essere quelli che non pagano le tasse, che parcheggiano al posto degli invalidi, che sorpassano con la doppia striscia continua e che aggrediscono gli altri, perché signori, a parlare civilmente, non siamo abituati più.

 

Simona Stammelluti

 

 

 

 

Con l’arrivo della primavera si perpetua quella pratica durante le quali le donne di ogni età e ceto sociale, aprendo gli armadi per fare il tanto famigerato “cambio di stagione“, si pongono la fatidica domanda: “Tengo o butto via?” Perché le stagioni si alternano, i cambi di abiti negli armadi pure, ma 9 volte su 10 quello che l’anno precedente non si è messo, pur avendolo conservato, finirà per non essere indossato anche nell’anno in corso. Le statistiche dicono che sono più di 20 gli abiti che “restano lì“.

E così, vestiti mai messi o messi poco, pantaloni nei quali non entriamo più o vi entriamo 2 volte, finiscono per restare appesi negli armadi per troppo tempo, quando invece si potrebbe dare loro una nuova vita, barattandoli con qualcosa che a noi piace, che non abbiamo e che a qualcun altro non piace più o non va, più.

E’ questa l’idea alla base dello Swap Party, il fenomeno innovativo portato a Cosenza da Soave Maria Pansaautore televisivo – organizzato e realizzato ieri nel Chiostro di San Domenico con la collaborazione del Comune di Cosenza, dove tantissime donne sono riuscite a “Swappare“, a barattare, a scambiare abiti, scarpe, accessori, trovando tutte – ed è questa la cosa singolare – qualcosa che facesse al caso loro. I capi (rigorosamente freschi di lavanderia) esposti in maniera ordinata, erano tutti di qualità, rispettando i canoni della scelta che era stata effettuata in fase organizzativa, quando ad ogni capo che si aveva intenzione di  scambiare, è stato attribuito un valore simbolico in stelle di qualità, che andavano da 1 a 3. Bella l’iniziativa voluta dall’organizzatrice dell’evento, di devolvere ad una associazione umanitaria, i capi che alla fine della serata non sono stati swappati, e questo con il benestare delle signore che hanno aderito all’iniziativa.

La location scelta per questo esperimento riuscitissimo, è molto suggestiva, eppure lei, Soave Maria Pansa, è riuscito a renderlo ancor più appropriato al mood di quella tendenza, nata nella “Big apple” con lo scopo di invertire e rinnovare il modo di fare Shopping, rendendolo gratuito, senza sprechi e riciclando con stile. Molto ben arredato il chiostro – dotato dei giusti spazi per consentire la prova abiti – con quadri che ritraevano la divina Marylin Monroe, con libri aperti sull’arte di Andy Warhol, e come in tutti i party che si rispettino, con un aperitivo in piedi con vino di qualità, piccole delizie e ottima musica.

Un pomeriggio diverso, per Cosenza, che per qualche ora è diventata una piccola Milano, che ha potuto respirare l’aria di un evento che all’estero è ormai da tempo una consuetudine e che invece in città, è stato un esperimento ben riuscito, che ha dovuto però scavalcare quella tendenza tutta meridionale del voler “tenere per se” anche quello che non piace più, e che al massimo si regala ad un parente, purché resti in famiglia. L’iniziativa ha dovuto rompere anche il pregiudizio della piccola provincia, dove non è semplice entrare nel meccanismo di un vero e proprio scambio, di un evento in cui non si compra e non si vende, in cui non girano soldi, ma solo idee, gusti, vestiti ed accessori che nascono a nuova vita, e che – nel caso dello Swap Party cosentino – è riuscito a soddisfare sia chi di solito è “shopper compulsiva”, sia colei che invece, per predisposizione acquista poco, ma in maniera oculata.

Per le donne che hanno partecipato all’evento, quest’anno il guardaroba sarà perfetto, senza quell’abito che sostava da troppo tempo, o con quel capo che aspettava solo di finire nell’armadio giusto.

Un’idea perfetta, quelle di Soave Maria Pansa, che ha sfidato la diffidenza verso il nuovo che si respira al sud, ma al contempo ha saputo solleticare la curiosità di chi ha poi accettato di “andare a vedere” quel pezzo di mondo chic, che sembrava così lontano, e che poi è stato un baratto utile, divertente e alla portata di tutti.

 

Simona Stammelluti

Povera terra.

Un morto non muore, è già morto.

Agrigento non può morire, perché è morta da tempo.

Il Polo Universitario di Agrigento sta per morire definitivamente. Ciò significa che un filo di vita ancora ce l’ha.

E allora perché questa agonia? Perché tentare di salvare un Consorzio Universitario che fa tantissimo comodo a migliaia e migliaia di giovani agrigentini i quali, per un motivo o per un altro, non hanno la possibilità di trasferirsi a Palermo o Catania per il sacrosanto diritto allo studio?

Perché tanto bene ai giovani agrigentini, ai giovani di una provincia in agonia e che adesso sta solo aspettando i colpi finali dei suoi killer pronti ad eliminare (invece di salvare) l’ultimo ostacolo?

E’ così che la “nuova” classe politica vuol cancellare il brutto passato che ha distrutto una intera provincia; forse per iniziarne uno di nuovo, peggiore del precedente?

Fabrizio Micari, Rettore dell’Università di Palermo e Lagalla (già presidente del Cupa) assessore, hanno iniziato il balletto delle responsabilità; in realtà (e se ne sono accorti tutti) stanno mettendo i colpi in canna. Stanno facendo la corsa contro il tempo, ma non per salvare il Cua di Agrigento, ma per fregiarsi di essere i primi a sparare il colpo di grazia ed assassinare definitivamente il diritto allo studio nella provincia di Agrigento.

A questo punto ai giovani studenti non rimane altro che aggrapparsi al buon senso ed alla sensibilità del presidente della Regione Nello Musumeci ed al suo vice, Gaetano Armao, già presidente del Cua agrigentino. Stanno in quei posti non per eliminare ma per creare, salvare, innovare e perché no, dare anche un briciolo di speranza.

Prima l’Ingegneria, poi la Giurisprudenza, poi l’Architettura e adesso la facoltà di Beni Culturali che verrà trasferita a Palermo.

Uno stillicidio che dura ormai da troppi anni; una sconfitta per tutto un territorio che necessita di ben altre figure politiche per il proprio “risorgimento”.

Il dramma vuole che quando si parla di Archeologia e di Beni Culturali il riferimento geografico non è al paesello di Decimomannu o alla città di Catanzaro, ma semplicemente alla città di Agrigento (che ha rischiato di diventare la capitale della cultura), capitale mondiale della Archeologia e culla della cultura greca.

“Doveroso” chiudere il corso di laurea più importante…

Mancano i soldi e il Consorzio Agrigentino avrebbe qualche debito con l’Ateneo palermitano.

Non riusciamo a comprendere un fatto: come mai i soldi (e sono tanti) per pagare missioni, aerei, alberghi e ristoranti di lusso si trovano sempre e poi si sbatte la porta in faccia in modo crudele a tantissimi giovani speranzosi di crearsi un futuro?

Forse dovranno trasferirsi a Decimomannu o a Catanzaro?

Non abbiamo mai temuto la solitudine come in questo periodo storico, tanto che a volte pur essendo soli non ce ne accorgiamo, perché non abbiamo più né mente né sentimento per percepirla. Siamo diventati sordi, oltre che ostinatamente ancorati a quella compagnia “a tutti i costi”, e quella sordità non è solo di percezione uditiva ma anche di sensazioni che sono ormai adulterate dall’euforia di quel sistema che ci ingloba, spesso ci inghiotte, ci digerisce e poi ci risputa sul mondo ancora più confusi sul perché si sia sempre alla ricerca di qualcosa che alla fine non ci soddisfa mai fino in fondo. Vogliamo colmare i buchi, deve essere “tutto pieno”, i momenti di silenzio sono sempre meno, i giovani non conoscono neanche più la noia, il silenzio è divenuto un nemico e alcuni suoni (per esempio quelli delle notifiche dei social e delle chat) scandiscono le ore che un tempo riempivamo con molte più cose, rispetto alla curiosità odierna – che ci ossessiona – di sapere che vita ha avuto una “storia su Instagram” o quanti “Like” ha preso quel preciso selfie che per farlo venire “accettabile dalla rete” ci si è perso un intero pomeriggio.

Essere solo, sentirsi solo, stare da solo; quanta differenza in apparenti uguaglianze.

Quanti ad oggi potrebbero raccontare come esperienza di vita l’essere solo? Solo … rispetto a chi, a cosa? La solitudine che si subisce, è quella che ti segna, quella che ti attraversa, che ti mette con le spalle al muro, che ti spinge a capire se te la sei meritata o se ti è stata data in eredità da una condotta di vita, o da un vita destinata a quello. Lo vedi guardando i tuoi passi; quando nessuno ti cammina a fianco, sei solo. Ma le strade che si percorrono non sempre sono sotto i piedi, sono anche sopra la testa, sopra il cuore, dentro lo stomaco, nei ricordi e nei desideri. Tutto spento, come quell’ultima insegna a neon nella notte, che illumina per un po’ e poi fa buio proprio quando passi tu. Perché? Perché qualcosa si è inceppato in quel che vogliamo, in quel che chiediamo, in quel che proviamo a barattare in cambio di due gambe che camminino insieme alle nostre mentre procediamo. Perché nessuno ascolta più quel che abbiamo da dire, e non lo sente non solo perché il mondo è abituato ad “urlare”, ma perché l’intensità di quel che diciamo non viaggia sulle frequenze che intercettano solo ciò che è semplice. Perché i dialoghi sono diventati asfittici e poco attraenti e non contemplano più le pause, come quelle che un tempo si chiamavano “di riflessione”.

Abbiamo ancora qualcosa su cui “riflettere”, o abbiamo stupidamente sempre tutto chiaro?

Ciò che richiede riflessione e senso critico costa troppa fatica, costa notti insonni e tante parole, perché la solitudine è muta, non ha parole. Ma la cosa più grave che chi è solo è povero anche di gesti, di sguardi, di mani che stringono, che abbracciano, che aiutano ed incoraggiano.

E quando, ci si sente soli?

Forse è quella dimensione in bilico sul filo senza rete. Resti spesso immobile per paura di cadere e di frantumarti in mille pezzi che sai per certo non saprai più rimettere insieme, perché con quei pezzi in frantumi proverai a rimontarti ma non ci riuscirai perché alcuni pezzi, quelli fondamentali saranno andati perduti, mancheranno irrimediabilmente e allora resterai monco, per sempre.

Ti domandi perché nessuno lo capisca che ci si sente soli. Soli nelle risate, nei momenti in cui il silenzio scende e si accende la reciproca comprensione. Soli nelle scelte e nelle posizioni da prendere, soli nella luce del giorno che scivola dentro la notte e quella dell’alba che riprende fiato dopo un’apnea che lascia senza luce e senza fiato. Soli, mentre il mondo corre e ti attraversa perché sei invisibile alle necessità di quel mondo, che non contempla le necessità del singolo ma della globalità del target di appartenenza. Nessuno ti chiede più cosa ti piace, perché c’è un sistema che conta ciò che fingi ti possa piacere, che lo registra e poi te lo ripropone in altre vesti. Nessuno ti chiede più cosa senti, perché tanto nel chiasso è già tanto se senti il tuo respiro che si fa affannoso quando corri perché hai perso qualcosa, o qualcuno … e allora provi a riacciuffarlo, ma ti trovi fermo, mentre le immagini si fanno piccole e il respiro dalle orecchie scende piano nel petto, dove si arrende.

E lo stare da soli, poi, diventa una conquista, una sfida, quasi; Un mondo nel quale trovare un proprio spazio, e un modo per tornare a sentire quel che hai perso, che non riconosci più quando lo incontri, che devi imparare di nuovo a disegnare, come una casa nella quale accomodarti e sentirti di nuovo a tuo agio, nei tuoi panni, nei tuoi desideri, nelle tue necessità. Necessità che ti rendono di nuovo erudito, mentre abbandoni quell’essere analfabeta di momenti da riempire solo con ciò che serve, perché l’essenziale è la porta di quella casa che ti aspetta per rifiatare.

La solitudine è ormai una malattia che ci passiamo in maniera pandemica, alla quale sviluppiamo anticorpi che però non ci fortificano, ma ci rendono solo immuni ad alcuni cambiamenti che si consumano sotto i nostri occhi e che inconsapevolmente autorizziamo perché ad ostacolarli non siam capaci più. Siamo così oppressi da moti perpetui di “non consapevolezza” che abbiamo perso la capacità di indugiare su una riflessione e persino di avere paura. Sembra che non si abbia più paura di nulla, e poi alla fine però siamo tutti malati di idiosincrasia.

Chi sa più guardare oltre? Ci ostiniamo a vivisezionare quel che ci si para dinanzi agli occhi, alla vita, alle nostre aspettative e ci facciamo andare bene quel che ci propinano gli altri. In fondo piace a tutti, può piacere anche a noi e al diavolo se non ci piace per davvero, tanto chi se ne accorge, a chi interessa? Chi sa dire se le nostre vite si siano popolate o desertificate in questi giorni tutti uguali, che non sapremmo fermare neanche se lo volessimo, e che non hanno più un orizzonte, perché per disegnarlo si ha bisogno di un tempo per prima desiderarlo?

Piccole fughe ci attendono, proprio lì, mentre scappiamo da quel finto appagamento sociale dove tutti fingono di sentire mancanze improbabili, ma in quel circolo vizioso, dimentichiamo a volte di mancare a noi stessi.

Ci vorrebbe un cambio di direzione, un tempo in cui arrivare tardi, in cui farsi attendere perché solo così alcune solitudini diventeranno il respiro che torna, mentre smettiamo di correre dietro a treni persi, a persone che corrono senza meta, mentre lasciamo naufragare la paura di essere soli per scelta propria e non per modalità altrui.

Simona Stammelluti

 

 

Le emozioni sono sempre difficili da tenera a bada. Talvolta però è ancora più complicato, perché a sederti a fianco è anche la commozione che ti raggiunge senza chiedere il permesso, tirandoti dentro un vortice di magia. Tutta “colpa” dell’unicità dell’evento, della bravura coinvolgente dei maestri dell’orchestra, oltre al coraggio e all’energia contagiosa che appartiene a Ennio Morricone, che a dispetto dei suoi 89 anni di età ha regalato l’ennesima indimenticabile serata d’incanto.

Ad omaggiare la musica sublime e la carriera di uno dei più grandi compositori contemporanei nella notte del 6 marzo all’interno dei 40 mila metri quadrati del Forum di Assago, oltre 12 mila spettatori, 100 componenti del coro, l’Orchestra Roma Sinfonietta al completo, la soprano svedese Susanna Rigacci e lui, il Maestro Ennio Morricone, classe 1928, compositore e direttore d’orchestra sopraffino, specializzato nella composizione di musica assoluta e di musica applicata, e non solo di famose colonne sonore.

La maestosità del suo modo di concepire la musica, la ricercatezza creativa che mette in campo quando scrive per il cinema, l’immensa capacità di costruire un tema servendosi di quelle “voci” – come le chiama lui – che si insinuano nella sua testa, producendo poi le basi per quegli arrangiamenti che nel tempo sono diventati memorabili, hanno permesso di realizzare un concerto che avresti voluto non finisse mai. Il maestro lo sa, e non si risparmia nel concedere bis, e a fatica risale più volte sul suo palchetto, senza prima ringraziare a mani giunte il suo pubblico.

Eppure durante il concerto Morricone non rispetta a pieno gli arrangiamenti originali delle sue celeberrime composizioni; cambia il tempo di alcuni passaggi in “Il buono, il brutto e il cattivo“, nel brio del divertimento che si mescola alle note drammatiche, e le atmosfere passionali ed energiche che appartengono al suo modo di scrivere la musica, si avvertono a pieno in “The ecstasy of gold” – accompagnata dalla voce del soprano Susanna Rigacci – o mentre si viene avvolti dalla raffinatezza di “The mission” e dal suono dell’oboe. Ogni voce dell’orchestra trova il suo spazio, ma è quando i fiati entrano in gioco, legandosi alla base ritmica e alle percussioni, che si scatena il vortice emotivo, che ti porta a godere a pieno del lavoro del maestro Morricone che non agita semplicemente la sua bacchetta per dirigere, ma con incisività da’ gli attacchi, incoraggia, e coordina perfettamente ogni ingresso di sezione, e guida magistralmente l’esecuzione, come se quella fosse la sua unica, irripetibile, appassionata “missione”. Gli archi riempiono il tempo e la dimensione ritmica, incalzano e poi si smorzano, rispondono alle nacchere e lasciano andare le note alte, come se potessero restare sospese e attaccate al soffitto per poi piovere addosso al pubblico incantato durante il pezzo “Indagine di un cittadino ad di sopra di ogni sospetto“.

Non dice una parola al suo pubblico, ma ad esso si inchina con amore e gratitudine, la stessa che tutti abbiamo provato a restituirgli proprio con quella emozione che è stata incontenibile per le oltre due ore di concerto, intervallate da una ventina di minuti di pausa che era necessaria. Ennio Morricone non ce la fa a dirigere in piedi e così gli viene concessa una seduta, che è suggestiva, perché il maestro sembra incastonato tra gli archi, come se volessero proteggerlo dagli applausi e dall’affetto prorompente che lo travolge.

L’impatto visivo è coinvolgente quanto quello sonoro. Sono i 200 elementi dell’orchestra che creano la migliore suggestione possibile, condita solo dall’essenziale, ossia quel dipanare la musica lungo la linea melodica di pezzi che non sono solo conosciuti come le straordinarie colonne sonore dei film di Sergio Leone ma che creano il miglior connubio tra cinema e musica, oltre ad aver fatto la storia del cinema.

Un concerto in cui c’è tutto; C’è il tempo, la memoria, la nostalgia, l’oblio. Al centro della scena la ricerca di un tempo perduto, citazioni sonore, allusioni e dettagli evocativi. Ma risuonano anche le note di quell’ambizione che  trasborda dalla musica compositiva di Morricone, senza schemi, ma con la giusta dovizia nella direzione e nell’esecuzione di brani che sono nella memoria di tutti, in cui ognuno trova il filo del proprio gusto e della propria predisposizione verso una musica che il tempo lo tiene, lo rimodula, e poi lo passa come testimone di qualcosa di impalpabile che va sorretto e custodito.

Per un pugno di dollari, C’era una volta in America, La leggenda del pianista sull’oceano; Li regala tutti, i suoi successi il maestro Morricone, e il coro non è solo una cornice artistica, ma una vera e propria esperienza estetica rispetto alla musica; è voce, accompagnamento e ricchezza espressiva. Nella musica di Ennio Morricone si sentono gli echi della musica classica dell’800, di Mahler e di Stravinskij che hanno influenzato proprio la composizione delle colonne sonore a cui lui ha dato vita.

Tanti capolavori in un concerto che celebra una carriera lunga 60 anni, con oltre 500 colonne sonore scritte, e se è vero che – come il maestro racconta – non si deve credere alla mera ispirazione quando si approccia alla musica di un compositore, allora quel suo modo di tessere, intessere, cucire, scucire, distruggere e ricostruire ciò che parte da un’idea, diventa un raffinato lavoro artigianale che conduce non all’espressione romantica della musica assoluta ma alla sua capacità di superare sempre se stesso, mentre difficilmente qualcuno è riuscito a superare lui, in quella maestria di comporre musiche stracolme di armonia, melodia e chiara presenza musicale.

Che si sia o meno educati alla musica, che si riesca o meno a percepire alcune raffinatezze stilistiche, di contrappunto, di cambio di registro o di modalità di note tenute sospese in un assolo, questo concerto ha costituito per i presenti una coerente e appassionante avventura, in cui la direzione dell’orchestra è stata il filo  conduttore di una intelligenza musicale, che si traduce in dialogo, immagini che coinvolgono la sensorialità, con risultati magistrali.

Simona Stammelluti

 

In atmosfera di Oscar, vale la pena dire così, in prima battuta, che Paul Thomas Anderson, ha vinto tantissimi premi nella sua carriera, ha ricevuto anche diverse candidature, ma l’Oscar non gli è ancora toccato, malgrado le 6 nomination proposte per il suo ultimo film “Il filo nascosto“.

Certo è che Anderson appartiene a quella schiera di registi talentuosi che non ha fatto nessuna scuola in particolare, e che ha imparato il mestiere semplicemente guardando centinaia di film e questa metodica, gli ha consegnato una conoscenza quasi enciclopedica circa cosa ci sia alla base di un buon film e dunque, come lo si realizzi.

E’ senza dubbio, uno di quei registi che sfida il suo pubblico ad andare “più a fondo” oltre le trame che apparentemente seguono la linea dei suoi film. Accade anche con “Il filo nascosto“, che si alimenta di tanti dettagli che lo rendono un film “cucito” con armonia, attenzione e perizia. Ricerca la perfezione, Anderson, in bilico tra le dinamiche classicistiche del cinema americano fatto di storie, di luoghi e di grandi attori, e quella contemporaneità sulla quale punta, per provare a divenire immortale…a modo suo. E con i film che ha realizzato negli ultimi 10 anni, avendone solo 47 oggi, di punti che disegnino quel “a modo suo” ne ha tracciati e messi insieme un bel po’.

Il filo nascosto si poggia su una scenografia ed ambientazioni incantevoli ed incantate, la Londra degli anni ’30 e la natura incontaminata tutt’intorno che accoglie residenze e castelli; e poi una colonna sonora che è stata sapientemente incastonata nelle immagini, scritta da Jonny Greenwood, che non è la prima volta che firma le colonne sonore per il regista. La sua musica che riesce a mescolarsi sapientemente a Brahms e  Debussy che rieccheggiano mentre scorre un film che si apre, un passo alla volta e che incede come su una sublime passerella. E poi ancora gli attori tra famosissimi (Daniel Day-Lewis, che annuncia il suo congedo dalla recitazione) e semisconosciuti (la talentuosissima Vicky Krieps, che avrebbe meritata eccome, la nomination all’Oscar come attrice protagonista) che hanno dato alla pellicola il senso giusto, quella capacità di tenersi in bilico e di tenere in bilico la storia tra amore ed ossessione, tra l’essere esigenti e la ricerca di una perfezione, che può sembrare possibile ma che alla fine non lo è mai, così come si confà alla natura umana. E poi gli abiti, protagonisti anch’essi del film, che così tanto perfetti appaiono, nascondono più di qualcosa in una cucitura, dietro quel “filo nascosto”.

Un film – girato quasi tutto in interno – che “nasconde” più di qualcosa, e che probabilmente necessita di più di una visione per comprenderne tutti i dettagli intessuti nella trama. E’un film elegante e ben confezionato, assolutamente da vedere, che lascia il “retrogusto amaro” di quel che solo alcuni amori sembrano essere capaci.

Non è un caso che io abbia aperto questa recensione partendo da alcuni dettagli senza infilarmi precocemente nella narrazione. Il motivo risiede nel fatto che questo film è un po’ come entrare in un luogo misterioso scoprendone le stanze segrete; ogni stanza, prima di giungere in quella in cui verrai irrimediabilmente risucchiato – dove ti sarà dato di “capire tutto”, o quasi –   ti mostra una serie di dettagli, che parlano di un amore, di un amore che si ammala e che non guarisce, di un amore che trasforma vittime in carnefici. E poi ancora quei dettagli ti parlano di relazioni tenute in piedi da un filo, di ruoli che quando da pubblici diventano privati, smettono di essere così perfetti e che si rompono, così come si rompe tutto ciò che è delicato, come un legame, come un filo, come un vestito di organza.

E’ la storia di un uomo ricco e potente, un sarto che gestisce – insieme a sua sorella Cyril – l’austera e bravissima Lesley Manville – una maison e che cuce abiti per le donne più famose ed aristocratiche d’Europa. Un uomo che è adorato dalle donne, tutte; donne che cadono ai suoi piedi vittime del suo fascino irresistibile e della sua bravura e della sua ispirazione che sembrano non dover mai subire defaillance. Lui che si infatua facilmente, ma che poi si sbarazza delle donne che gravitano intorno a lui, fin quando non inciampa in quella che diventerà non solo la sua musa, la sua modella perfetta, ma anche colei che minerà, riuscendoci, tutte le sue certezze, il suo potere e la sua stessa ispirazione.

Mr Woodcock incontra Alma, una cameriera di un ristorante, ne resta colpito, la conduce con se, la porta nel suo mondo, la fa diventare sua modella, ma a lei questo ruolo non basta. Lei vuole un posto nella sua vita e sa di poterlo avere solo minando – a modo suo – quella sicurezza che il grande stilista pensa essere invincibile. Sarà Alma a gestire le dinamiche di un gioco perverso, che si alimenta di “veleni” ben somministrati, di giochi di vita che stravolgono i ruoli e mandano a dormire il potere assoluto di colui che si trova, in maniera consenziente a passare da tiranno a schiavo di un amore che per sopravvivere, dovrà passare attraverso il ribaltamento dei ruoli.

Sarà quell’arrendersi agli aventi, in quei momenti in cui Reynold Woodcock perde ogni controllo su di se, regredendo fino a divenire completamente indifeso, e quando avrà bisogno esclusivamente di Alma, per ritornare alla vita, dopo desiderato anche di morire, che riuscirà a tenere in piedi un rapporto, che viaggia sul filo sottile che divide l’essere esigenti dalle ossessioni più profonde.

Nell’arte del cucire sapientemente, si nascondono segreti, ricordi, dolori e dietro quel filo che nessuno vede, non si sono solo sapienti mani che imbastiscono, ma una tenacia e la determinazione di una donna che non ha nessuna intenzione di fare la fine di tutte le altre, e che è pronta a qualsiasi cosa pur di tenere con se l’oggetto del suo amore, anche spingendosi fin dove nessuno si sarebbe spinto mai. Coraggio dunque, in colei che sfida il suo uomo e che vince, ogni qualvolta quel gioco perverso che avvelena, diventa una compromesso da vivere in due, in un costante duello tra amore e dolore, e che lascia cadere una perfezione che si “scuce” appena tiri via il “filo nascosto” che lascia uscire convinzioni stantie e fantasmi di un passato che ancora non consola.

Forse è vero che Anderson si sia ispirato ad Hitchcock nel corso degli anni, un quel metodo di produrre meticolosità, mirando all’attenzione e alla reazione emotiva dello spettatore. Nel finale de “Il filo nascosto”- scena carica di inquietudine – le inquadrature, i silenzi, la penombra, i rumori, ed anche il bacio tra i protagonisti,  ricordano la famosa scena del latte de “Il sospetto”. Non c’è il latte, ci sono i funghi velenosi, imprigionati in una omelette, che sarà ancora una volta una trappola consapevole e al contempo una via di fuga, dalla quale ripartire.

 

Simona Stammelluti

 

 

 

 

 

Un tempo era facile sapere da che parte stare; si stava sempre dalla parte dei buoni, di quelli che non sarebbero mai stati capaci di fare del male a nessuno. Si stava dalla parte degli eroi, ma non quelli visti alla Tv. Si stava dalla parte di quelli che erano eroi ai nostri occhi, gli eroi del quotidiano: un padre, per esempio, il carabiniere che sconfigge il crimine, la maestra che ci prendeva sulle gambe e ci rassicurava che tutto sarebbe andato per il meglio, il parroco di provincia, che regalava il pallone ai più piccoli del quartiere e li invitava a giocare nel cortile della chiesa, dopo la scuola.

Oppure accadeva che si guardasse a “eroi” politici come Berlinguer che sosteneva quanto il mondo, anche quello terribile e intricato potrebbe essere conosciuto, interpretato, trasformato, messo al servizio dell’uomo, del suo benessere e della sua felicità, e che questo “lottare” deve essere l’obiettivo che riempie degnamente una vita; Lui, che sosteneva che se i giovani si impadronissero di ogni ramo del sapere e se lottassero a fianco del lavoratore e dell’oppresso non ci sarebbe scampo per il vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia.

Ad oggi i giovani non hanno più nulla di ciò che necessiterebbe loro, per diventare quei giovani a cui Berlinguer si rivolgeva. Non hanno ideali, non hanno eroi; Non hanno più passioni e non hanno più punti di riferimento; Hanno tutto quel che vogliono, senza sapere cosa farne, con quel tutto.

Oggi è difficile capire da che parte stare.
Dal pulpito son tutti bravi a descrivere un mondo che non esiste, perché quel che esiste, nel disegno di qualcuno, fa paura perché in quel disegno c’è odio, c’è mancanza di rispetto per la dignità dell’uomo…c’è una deriva umana, che è dietro l’angolo di casa, che si radica sempre più ed è pronta a travolgerci. Il buono si nasconde, gioca a nascondino, mette alla prova la nostra capacità di riconoscerlo. E nell’epoca della notizia in tempo reale, alcune reazioni sono talmente imprevedibili che anche il più perspicace fa fatica a trovare una soluzione immediata a problemi troppo grandi, per essere sanati senza una strategia a lungo termine. La stampa fa quel che può, non sempre quel che deve. La difficoltà di scegliere “come darla” una notizia è pari a volte, alla maldestrezza nella tempestività che spesso va a discapito della correttezza dei dati forniti. Non dovrebbe mai valere quel che la gente vuole, come notizia, ma la notizia nella sua veridicità, con tutto quello che reca in sé.

Viviamo in un momento storico in cui non si riesce più a contenere la rabbia, l’egoismo e la violenza. E’ lo stesso periodo in cui, però, si pensa che siano sempre gli altri, il problema, che alcune cose non ci toccheranno mai, come se fossimo gli unici dotati di ottime dosi di lucidità. E’ lo stesso periodo in cui con estrema nonchalance ci si gira dall’altra parte, se si vede qualcosa si fa finta di non vedere, se si sente qualcosa si fa finta di non sentire. E quel che “non vedi” o “non senti” oggi, domani produrrà effetti devastanti, e tutti quelli che “tanto ad un metro dal mio culo, accada quel che accada” sono quelli che alla fine si domandano anche “perché“, alcune cose accadano sempre più spesso.

I fatti che la stampa sta sviscerando negli ultimi giorni sono proprio il termometro di alcune situazioni che stanno sfuggendo di mano; sfuggono di mano allo Stato che dovrebbe fare di più e meglio, sfuggono di mano a chi dovrebbe vigilare e finiscono dritti dritti in mano all’opinione pubblica che come un moderno Ponzio Pilato decide chi debba morire – in fatto di notizia – e chi debba continuare a vivere. E la stampa usa il termometro della suscettibilità, dell’impressionabilità che la società ormai inevitabilmente esprime, pur senza volerlo.

Ma quel di cui si deve dar conto – adesso e non domani –  è la mancanza di rispetto, di valori, di cultura, di integrazione e di onestà. Qui non si gioca più a chi ce l’ha più grosso, “il titolo”…Il titolo in borsa, il titolo di studio, il titolo sui giornali, il titolo ecclesiastico.

Qui non si gioca più, e basta. Perché l’apocalisse, la deriva umana è sotto gli occhi di tutti, basta guardare, basta smettere di far finta che alcune cose siano solo frutto di fatalità oppure “statisticamente” accettabili. Perché non è più concepibile che la politica alimenti odio e razzismo, che a sua volta innesca a catena altrettanti atteggiamenti di odio e di razzismo che si tramutano in offese da parte di un adulto in metro, verso un ragazzino di colore, dodicenne, italiano, o in minacce di morte da parte di docenti che dovrebbero insegnarlo, il rispetto, ed invece diventano l’esempio più becero, più offensivo di quella vita che andrebbe difesa e protetta, a qualunque costo.

E allora quei padri che uccidono i loro figli, e che sono anche quegli uomini dell’Arma, che dovrebbero essere l’emblema del buono che sa sempre cosa fare? Dirà più di qualcuno. Sono anch’essi vittime di un sistema di mancanze. Non sono innocenti, sia chiaro. Sono colpevoli di aver commesso dei crimini orribili e che forse, si sarebbero potuti evitare. Sono vittime di un sistema di mancanze, sì. Perché manca chi ascolta ciò che si consuma in silenzio, chi non insegna più a distinguere tra ciò che è tuo e ciò che ti appartiene, chi non difende quando ancora è possibili, chi non sa più indicare la strada, per scovare quel bene, che gioca a nascondino.

E allora cosa resta?
Per adesso, resta il ricordo di ciò che non è più; resta il ricordo di famiglie che non ci sono più, di ideali che non ci sono più, di onestà che non c’è più.
Resta in un figlio, il ricordo di quel padre che è morto facendo il suo dovere, in quello Stato che il suo dovere, forse, non lo sa fare più.

 

Attualmente, tutta l’arte del politico, consiste nel suscitare l’indifferenza del popolo
[Jean Baudrillard – Filosofo e Sociologo francese 27 luglio 1929/ 6 marzo 2007]

 

Simona Stammelluti

 

 

 

Per oltre 20 anni nella compagnia teatrale Krypton – con la quale ha fatto anche Beckett – oggi Fulvio Cauteruccio classe 1967, figlio del sud ma fiorentino d’adozione, “di teatro” e “con il teatro” vive. Lo spettacolo Roccu u stortu” di cui ha curato la regia, con le musiche de “Il parto delle nuvole pesanti”, fu trasmesso in versione integrale nel programma Teatri Sonori di Rai Radio 3 e da Palcoscenico di Rai 2.

Apprezzatissimo nel ruolo di Don Catello nel “Ferdinando” di Annibale Ruccello, con la regia di Chiara Baldi – che è stato in scena al Teatro Eliseo a Roma lo scorso novembre – e intenso sul palco del teatro Niccolini di Firenze in questi giorni con “Prigionia di Alèkos” di Sergio Casesi, che narra la vicenda umana, politica e poetica del rivoluzionario greco Panagulis, risponde alle mie domande, mentre si racconta un po’.

 

SS: Come valuti un lavoro che ti viene proposto?
FC: Valuto la produzione, la credibilità del regista e poi i colleghi. Tutto questo è importante tanto quanto un ruolo o un testo.

 SS: Come lo scopre un attore, se la sua strada è il ruolo drammatico o quello comico?
FC: È cosa nota che il ruolo drammatico sia più facile. Far ridere è una questione di tempi, non solo di battute. A volte se non sai usare una pausa, puoi fare tutto giusto, ma non ti riesce la parte comica.
Personalmente mi sono cimentato, riuscendo in entrambi i ruoli. Basti pensare al mio ruolo in “Ferdinando” di Annibale Ruccello della Baldi. Entrambi i caratteri in quel ruolo, mentre il personaggio prende corpo e poi si riscalda e si sfalda, partendo in maniera esilarante e poi invece lasciando uscire la drammaticità dell’uomo che fa i conti con troppe cose, oltre che con se stesso.

SS: Di solito un attore dice: “mi piacerebbe fare questo ruolo”. A te com’è andata questa faccenda del “mi piacerebbe”?
FC: Quel “mi piacerebbe” cambia nel tempo, sai?! Capita a tutti di voler fare l’Amleto, o Agamennone. Poi però scopri tante scritture, e nel mio caso, l’essere curioso mi ha aperto tante strade nel mondo del teatro. E poi ti dirò, preferisco fare anche una piccola parte, buona e con bravi attori, che ruoli da protagonista in cose pessime. Ma di questi tempi ci sono troppi finti attori, disposti a tutto e così c’è un gran caos. Ci vorrebbe una commissione di esperti che dica “tu sì, puoi farlo, tu no”, come nella scuola russa o americana. Che poi anche per i registi, dovrebbe valere la stessa selezione.

SS: Tanti giovani vorrebbero fare questo mestiere. Un attore di esperienza come te, cosa direbbe loro?
FC: Di valutare bene, perché se non riesci a viverci,  facendo questo mestiere,  forse sarebbe il caso di lasciar stare. E poi studiare, perché l’improvvisazione è deleteria. Bisogna leggere la storia, la letteratura e bisogna conoscere la vita artistica di chi è esistito artisticamente prima di noi. Di solito non si lavora solo in due casi: se non si ha talento o se si ha un brutto carattere. Tutto il resto sono solo chiacchiere.
Vedi Simona, i grandi attori sono umili, timidi spesso.
Ricordo Irene Papas con la quale ho lavorato, Michele Di Mauro, bravissimo attore e poi Gassman, di cui sono stato allievo.

 

SS: Racconta.
FC: Sono stato fortunato ad averlo come maestro e rimane ogni giorno quel che ho imparato. Con lui ho imparato che il teatro è divertimento e fatica in proporzioni variabili. Ho imparato che si cammina insieme agli altri per un po’ e poi si può avere una seconda giovinezza in questo lavoro. Io dopo 20 anni in compagnia con mio fratello adesso da 5, viaggio da solo.
Un tempo dicevo “ma chi me l’ha fatta fare” – (ridiamo) – oggi non più, perché in definitiva, so fare bene solo quello.
Gassman si ostinava a chiamarmi Fabio e non Fulvio, eppure era quel maestro che mi dava coraggio, che mi spronava a fare sempre meglio.
Alla fine della scuola, prima dello spettacolo finale il direttore mi declassò per la dizione. Io ci rimasi male ma Gassman volle parlarmi e mi disse: “non ci sono grandi parti per grandi attori, né piccole parti per piccoli attori; ci sono solo parti, anche piccole per bravi attori”.
Poi mi suggerì di mettere una pausa, in un punto particolare di una battuta,  feci come mi suggerì e fu un successo.

 

 SS: Cosa ci vuole per essere un buon attore, oltre al talento che non si può né ignorare, né inventare?
FC: Devi essere capace di riconoscere il linguaggio della contemporaneità, ma devi conoscere la storia;  il passato del teatro è il primo maestro che va ascoltato.

SS: Fai anche cinema; hai appena recitato con Zingaretti in Montalbano. Che vestito indossi meglio, quello teatrale o quello cinematografico?
FC: Sono un attore di teatro che non disdegna affatto il cinema, ma che aspetta una parte importante per dedicarcisi a pieno; nel frattempo continuo con il teatro che mi appaga e che mi fa vivere e “sentire vivo”.

 Gli chiedo se ha figli, mi risponde che ha un cane, che ha portato in scena, una volta, e che gli ha rubato gli applausi, anche! Ci salutiamo, con la promessa di rivederci, presto…a teatro.

 

Simona Stammelluti

 

Durante tutto il film mi sono domandata cosa mancasse, perché qualcosa manca in “15.17 – Attacco al treno” il nuovo film di Clint Eastwood in questi giorni nelle sale. Sarà che da un gigante della cinematografia quale lui è, ci si aspetta sempre qualcosa in più, qualcosa che ci racconti di cosa sia ancora capace quel regista che tesse trame dalle storie, che racconta e imbastisce temi sociali, che traccia le coordinate di alcune mancanze dell’uomo comune, inglobando una indifferenza che poi svolta repentinamente in cambiamento.

Non è la prima volta che Eastwood si ispira ad una storia vera; L’aveva fatto meravigliosamente con “American Sniper” nel 2014, con “Sully” nel 2016 un po’ meno, e oggi con “15.17 – Attacco al treno“. Chissà se le aspettative a tratti deluse da questo nuovo lavoro del regista 88enne non si fossero potute arginare, utilizzando per esempio un altro titolo, un titolo che non influenzasse lo spettatore nel cercare in “quell’atto dinamico” – a cui il titolo inevitabilmente rimanda – l’energia, la tecnica cinematografica, i movimenti di macchina e quel montaggio strategico al quale Eastwood ci ha abituati mentre racconta storie che sono illuminanti, iconiche, dolorose, potenti e raffinate.

L’attacco al treno è solo una marginale e breve sequenza di momenti,  racchiusi in (troppo) pochi minuti di pellicola, oltre a qualche flash-back. Non c’è action, non c’è phatos a sufficienza in quelle sequenze, se si pensa che nella pellicola si racconta di fatti, di orrore e di quella paura che “non arriva”, che manca, che non coinvolge, che non tiene in tensione. La storia di un terrorista che esce da un bagno impugnando un mitra e che ha 300 pallottole addosso, che mina la vita e il viaggio di 500 persone, nel film non affascina, non scuote le paure.

L’attacco al treno concede ai protagonisti della storia non solo la condizione per essere eroi loro malgrado, ma anche e soprattutto di raccogliere quelli che erano stati i loro desideri a tratti delusi da una vita che “ti scarta” a prescindere dai tuoi sogni, e che poi alla fine si traveste da opportunità, e ti sfida e raccontare chi sei.

Chi erano i tre ragazzi che salvano i passeggeri del treno che da Amsterdam porta a Parigi sul quale salgono mentre fanno un viaggio in Europa, per stare nuovamente insieme così come da bambini? E’ questo il mood in cui Eastwood si infila e “ti infila” raccontando la storia dei tre ragazzi fuori tempo, un po’ “stonati” nel loro percorso di crescita, che stringono un’alleanza a partire dalle loro vite senza troppe stabilità e dalle loro defaillance. Una storia che potrebbe appartenere a tanti, e che pertanto non necessitava di grandi abilità attoriali. Il regista usa una voce narrante, quella di uno dei tre protagonisti, fa un salto nel passato, delinea le volontà e gli ideali di quei tre giovani ( Alek Skarlatos, Anthony Sadler e Spencer Stone) e poi mette in fila un desiderio, un insegnamento ed una opportunità; così il desiderio di Stone di entrare nel reparto dell’Aerosoccorso dal quale lo scartano per una inezia, lo porta a continuare un percorso che gli insegna come reagire in alcuni momenti nei quali la vita di qualcuno dipende da quel che farai, e alla fine lo pone nella condizione di soccorrere e salvare un’altra vita, il tutto come se fosse un disegno divino. Anche l’aspetto “fede” è protagonista del film. Questo Dio che parla a Spencer Stone, quel Dio che lui prega sin da piccolo, dal quale si aspetta un cenno affinché lui e i suoi amici abbiamo un buon motivo per non salire su quel treno diretto a Parigi e al quale Spencer poi recita una preghiera dopo il suo atto eroico.

Segue i ragazzi durante il viaggio, Eastwood, mostra le immagini  del Colosseo, di Piazza San Marco, dei pub di Berlino, delle discoteche di Amsterdam, come in un filmino amatoriale qualunque; mostra nomi di alberghi – forse quelli in cui la troup ha soggiornato – e poi racconta i dialoghi di quei tre ragazzi, che sembrano a tratti scarni e inducono a pensare semmai siano state davvero dette, quelle frasi lì. E allora la domanda è: possibile che Eastwood non sia stato capace di romanzare meglio, di porgere ai protagonisti qualche battuta migliore? Manca la forza narrativa alla quale il regista ci ha abituati.

Crediamo spesso che i nostri “eroi” in fatto di genialità nell’arte di sceneggiare, dirigere e girare siano infallibili, ed invece gli eroi sono quelli che fanno ciò che si deve, a dispetto di ogni avversità. A Clint Eastwood possiamo perdonare anche questa “defaillance”, come quella dei protagonisti del suo ultimo film, non fosse altro che per il fatto che alla sua età, con una carriera come la sua e dopo tutto il talento profuso in film che fanno parte della storia del cinema, non ci importa sapere se alla fine il suo scopo fosse stato quello di mostrare come si salva un’umanità, o quanto la realtà giochi troppo spesso a colpirla.

 

Simona Stammelluti