Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 61 di 90
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Al secolo Marina Elide Punturieri, era nata a Reggio Calabria. Aveva 76 anni Marina Ripa di Meana e da 16 lottava contro un tumore al rene, che però non le aveva mai impedito di continuare a vivere la sua vita  e di frequentare i salotti che aveva sempre frequentato, anche quelli televisivi dove, negli ultimi tempi, si presentava con un velo che le copriva il volto rovinato dalle tante terapie subite. Si è spenta nella casa romana. Aveva confidato ai suoi amici, forse perché sentiva giungere la fine, che questo trascorso, sarebbe stato il suo ultimo Natale…e così è stato. Non voleva un funerale e il suo desiderio sarà esaudito.

Fu amica di Alberto Moravia, sposò il Duca Alberto Lante della Rovere da cui ebbe la figlia Lucrezia, poi sposò il Marchese Carlo Ripa di Meana.

Una donna intelligente, ironica, che nel tempo aveva dettato la moda, che appariva sempre impeccabile. E’ stata eccentrica, intraprendente, anticonformista, amante degli animali. Famose le sue battaglie in difesa delle foche, contro l’uso delle pellicce nella moda ed anche contro le corride. Aveva anche posato completamente nuda proprio per promuovere la campagna contro l’uccisione degli animali da pelliccia. Quelle foto divennero manifesti che finirono sui muri di Milano e della Capitale.

Ma tutti ricordano la Marina opinionista, stilista, ma soprattutto scrittrice. Il suo libro autobiografico “I miei primi 40 anni” ebbe così tanto successo che nel 1987 diventò anche un film.  Scrisse anche “La più bella del reame” e nel 2012 “Invecchierò con calma“.

Non si è fatta mancare nulla, Marina Ripa di Meana, neanche la partecipazione agli ormai famosi Reality Show. Prese parte a “La Fattoria” nel 2009, anno in cui fece una piccola parte nella famosa serie “I Cesaroni” nella quale con facilità interpretò se stessa.

Famosa anche la querelle con Vittorio Sgarbi durante un famoso vernissage, ma alla fine tra i due tornò il sereno e spesso, dopo quell’episodio, andarono insieme ospiti nello show del loro comune amico Maurizio Costanzo, mostrando una singolare sintonia.

In  una intervista, mentre raccontava la sua storia da donna che lottava contro il cancro, diceva: “in un momento come questo che è molto duro e nel quale non sappiamo come andrà a finire il mondo, l’unica cosa che sta andando molto bene è la scienza, sono le terapie che curano o che se anche non possono curare completamente, aiutano a sopravvivere ed io ne sono un esempio“.

 

 

 

Era la notte di Natale del 1952, quando un sacerdote svizzero Padre Ernst Schnydrig, mentre si recava alla messa nella Basilica della Natività di Betlemme, passando vicino ad un campo profughi, incontrò un padre che seppelliva il suo bambino, morto per la mancanza di cure mediche di base.

Da quel drammatico ma provvidenziale incontro, nacque un sogno, quello di poter realizzare un ospedale aperto a tutti i bambini palestinesi. Padre Schnydrig si diede subito da fare, e insieme ad un medico palestinese Antonine Dabdoub e ad Hedwig Vetter, cittadina svizzera incominciarono a dar vita a questo progetto; presero in affitto due stanze, poi pian piano quello che sembrava un piccolo progetto, è cresciuto ed è diventato il “Caritas Baby Hospital” e le sue porte sono aperte ogni giorno senza interruzione da     quel 1952 per i bambini e per le loro madri indipendentemente dalla loro religione o estrazione sociale.

E’ l’unico ospedale solo pediatrico della Cisgiordania, con 82 letti per le degenze. C’è inoltre l’Unità di Terapia Intensiva con 7 lettini, con 2 unità pediatriche e 5 neonatali. L’ospedale eroga anche visite specialistiche di neurologia, pneumologia, cardiologia e fisioterapia per la prima infanzia.

Le mamme possono rimanere con i propri piccoli, possono dormire in un appartamento a loro dedicato e durante la permanenza ricevono igiene, servizi di gestione familiare, alimentazione e sostegno psicologico.

I numeri che raccontano quel che si è riuscito a fare in questi anni sono incoraggianti: 4.500 bambini che hanno avuto bisogno ed hanno avuto la lungodegenza, 35.000 sono passati dai poliambulatori. In totale sono stati 40.000 circa i bambini curati ogni anno.

Il Caritas Baby Hospital da’ anche lavoro nella zona di Betlemme; vi lavorano infatti 230 persone, e questo significa fornire una prospettiva di vita in patria per i giovani della Palestina. Tra il personale, oltre la metà è composto da donne, anche nel settore direzionale. Questo ospedale è un modello di integrazione tra culture e religioni diverse nel difficile territorio della Terra Santa.

Sono tanti i volontari italiani – medici, infermieri, clowdottori – che partono regolarmente verso questo ospedale, consegnando professionalità, solidarietà e supporto pratico.

Nel 2005 nasce una Onlus, Aiuto Bambini Betlemme per sostenere e promuovere l’opera del Baby Hospital di Betlemme. L’associazione No Profit è un punto di riferimento in Italia per tutte le persone, i gruppi e le realtà che hanno a cuore il futuro dei bambini e delle mamme che abitano in Terra Santa. Ponti di solidarietà, sensibilizzazione, raccolta fondi.

Tutto questo nel corso degli anni è stato possibile grazie alle donazioni, che hanno contribuito in maniera fattiva ad aiutare i bambini malati e le loro mamme.

Chiunque fosse interessato a dare il proprio contributo sia economico che come volontario, può visitare il sito.it www.aiutobambinibetlemme.it

 

Simona Stammelluti

Mi sono domandata dove fosse finito l’Ozpetek di “Le fate ignoranti“, di “Saturno Contro”, di “Un giorno perfetto” o di “Rosso Istanbul“. Mi sono chiesta dove fosse finito quel filo conduttore che ha caratterizzato negli anni il regista turco, ossia quella capacità di raccontare momenti di umana crisi, in un contesto intimo ma allo stesso tempo schietto, scevro di architetture stilistiche, senza urtare mai la suscettibilità di chi vive i suoi film.

A Napoli Velata manca più di qualcosa; manca intanto una buona sceneggiatura. Quella che c’è è debole, alcuni dialoghi sono miseri e poco realistici. Eppure come sempre Ferzan Ozpetek vince sia al botteghino che con la critica, considerato che da bravo regista, anche con poco ha saputo fare quel tanto che basta per poter essere ricordato. Si è servito di un ottimo cast, e di una città che pulsa, che affascina, che trasuda magia, storie, modalità di vita e veracità.

Ha raccolto tutto il regista e lo ha regalato attraverso squarci di città, le opere d’arte, i palazzi storici, i sotterranei; La Napoli di ieri, quella di sempre, fatta di superstizione, di numeri che hanno un significato, di opere semiserie, di vicoli, di opere d’arte e poi di sotterfugi, di segreti, di invidie e di silenzi velati. E poi la Napoli più nuova, quella metropolitana dove transita la vita, quella che passa e che diventa piccola fino a scomparire.

E’ un film che racchiude in se erotismo, e questo Ozpetek lo sa raccontare bene, considerato che non è certo la prima volta che se ne serve nei suoi racconti cinematografici. Lo fa con una Giovanna Mezzogiorno e un Alessandro Borghi che riempiono buona parte del film con scene di sesso molto credibili, aiutati anche dalla scelta del regista che inquadra dettagli, proponendo spesso i primi piani, preferendo una fotografia nitida, con un processo interpretativo coerente e senza effetti speciali.

Bene la Mezzogiorno nella parte iniziale, noiosa nel resto del film. Borghi va bene fin quando fa la parte del protagonista, ma quando veste i panni di un fantomatico gemello, perde verve e carisma e diventa anch’egli noioso.

Il film a mio avviso nasceva con l’aspirazione di essere un thriller, ma non ci riesce appieno, e non ci riesce perché la storia è misera. I thriller si basano su intrecci che qui mancano clamorosamente. E’ la storia di Adriana, una donna sola, che è cresciuta con i suoi zii, che nella vita fa il medico legale, che da bambina ha visto sua madre suicidarsi dopo aver ammazzato suo padre, e che sembra vivere una realtà normale, fin quando incontra un uomo, passa con lui una notte di sesso e grande passione, senza rivederlo mai più, perché lo stesso viene ucciso. Sarà lei stessa a identificarne il corpo durante l’autopsia. Il regista prova a raccontare le angosce sopite della protagonista che prendono piede quando la stessa, immagina di incontrare un ipotetico gemello dell’uomo con il quale ha consumato una indimenticabile notte di sesso e intorno a questa nuova storia, ruota il resto del film, che racconta di intrallazzi, di tradimenti, di interessi da difendere a qualunque costo, di vite tenute segrete troppo a lungo che finiscono per diventare la porta per capire, anche se troppo tardi, dove stia la verità.

Qualcuno lo ha definito un film filosofico, ma io non credo. E’solo un film che fa il punto su come si faccia spesso finta che vada tutto bene, fin quando la vita non ti presenta il conto e quello delude, spesso, perché troppo caro rispetto a quello che si è avuto. Ecco, dunque, cadere il velo dagli occhi che finalmente hanno voluto vedere. Ma il velo resta, su quelle cose che è bene restino così come sono, segrete o non del tutto comprensibili, ma esclusivamente perché appartengono ad un popolo e non un singolo, perché rappresentano emozioni collettive e non isolate. E poi racconta di quella “napoletanità” che è così verace che non ha bisogno certo di interpretazione, o di chiavi per convincere.

Il cast ospita oltre a Borghi e alla Mezzogiorno anche Anna Bonaiuto e Lina Sastri, entrambe brave anche nei loro ruoli marginali; e poi ancora Luisa Ranieri e la Isabella Ferrari che Ozpetek sceglie ancora, evidentemente perché le appartiene una capacità di interpretare le intenzioni, più che le battute. Non si fa fatica a notare la bravura spiccata di Peppe Barra, che nel film fa Pasquale, il promiscuo teatrale, colui che tiene insieme tutti gli altri personaggi, che sa tutto di tutti, che sa mediare, che sa raccontare storie vere ed inventate, che poi paga con la vita l’essere stato dalla parte giusta rispetto alle vicende che brulicano di interessi.

Napoli è dunque velata di misteri e svelata nella sua vena sanguigna, e nel binomio vedere-non vedere, si snoda una storia che un po’ ti fa credere di essere capitato nel posto giusto e un po’ ti fa rimpiangere le storie del passato, come quando scegli di fare le scale a piedi perché l’ascensore è rotto…tocca arrivare in cima per capire se è valsa la pena.

https://www.youtube.com/watch?v=7oqRQ6XkpBQ

Simona Stammelluti

Diffidate di chi vi racconta storie sulla povertà; La povertà non la si può romanzare perché ha una sua intrinseca dignità. 
È silenziosa, è diffidente e si avviluppa su se stessa affinché non venga sgualcita, non venga usata per scolorire l’indifferenza o per lavare le coscienze un giorno all’anno. 
Non so come si chiamino le persone alle quali oggi insieme ai miei amici abbiamo offerto un pranzo solidale; non ci sono nomi da ricordare o volti da fissarsi nella mente. Non ricordo com’erano vestiti, né il colore della loro pelle anche se tra quegli uomini e quelle donne c’erano degli stranieri. Alcune voci sì, quelle penso che non le dimenticherò…quelle si impigliano nella tua attenzione mentre tu, inconsapevolmente, cambi il corso di un giorno che per più di qualcuno è uguale a ieri e pure a domani. 
Ricorderò quell’educazione nel chiedere ancora un po’ di risotto e i tanti “grazie”, che mai ne ho sentiti così tanti nei miei 47 anni di vita.

Esiste una comunità di cui tu fai parte per qualche ora, mettendo a disposizione quel che hai e ciò che sai fare. Accogli mentre vieni accolto, prepari e “ti prepari” ad alcune emozioni che malgrado ti dici sicuro di poterle governare, prendono il sopravvento e mandano a casa ogni programma. 

Oggi 29 dicembre 2017 è stato uno dei giorni più belli della mia vita, condiviso con la mia famiglia e con quella famiglia che é stata mia per un po’, in quel luogo caldo di tepore umano, dove ogni giorno qualcuno si adopera affinché sia assicurata un po’ di dignità a chi non ha nulla, a chi aveva e ha perso tutto, a chi non ha mai avuto nulla se non la solidarietà di uomini di buona volontà. 

Non ti trattano come un Gesù sceso sulla terra i poveri a cui offri un pranzo, ma ti sono riconoscenti. Pensano a te come a una mano che li conduce a ciò che verrà ma non si inchinano al tuo gesto che però accettano sorridendoti un po’. 

Stamane a prim’ora abbiamo preparato il refettorio, poi ci siamo messi ai fornelli. I miei figli – che vedere di spalle nella foto qui sopra – hanno preparato i vassoi e poi li hanno serviti. Abbiamo seduto a tavola tutti insieme.
Abbiamo respirato la stessa aria. 

Abbiamo mangiato un pasto caldo e ci siamo silenziosamente compresi, scambiando quando necessario qualche parola e accogliendo le difficoltà di una diversità di vita, di lingua ma non di intenti.  Ad un tratto, mentre provavo a riordinare alcune cose, mi sono girata ed il refettorio era vuoto, erano già andati via. 

Avrei voluto salutarli ancora quegli uomini e quelle donne (con bambini) che erano transitate nel mio personalissimo 29 dicembre e non solo in quel refettorio. 
“Non prendertela Simona” – mi è stato detto – “non sono portati per i convenevoli e le conversazioni, i poveri, però conoscono la gratitudine”.
Ho pensano che avessero ragione loro…che altro avevamo da dirci? C’era solo da “lasciarsi andare” ognuno per la propria strada; io verso la mia vita che ormai dopo 39 anni aveva riscattato una malinconia radicata e loro verso quel destino che però ha voluto metterci in contatto, per un giorno. 
Chissà, forse qualcuno di loro lo rincontrerò prima o poi, senza riconoscerlo.
Resto ancora un po’ qui, in questa significativa parentesi di vita, nella quale ho visto da vicino la povertà, quella che non si può romanzare perché ha una sua intrinseca dignità, quella che oggi è stata visibile dai miei occhi e dal mio cuore.

Ringrazio di cuore Pina Belmonte che ho scomodato a notte fonda prima di Natale per chiederle di aiutarmi a realizzare questo pranzo e che da donna e volontaria meravigliosa, mi ha offerto tutto il suo aiuto e il suo sostegno.

Ringrazio di cuore Elsa per aver accettato il mio invito a fare da chef oggi mettendo a disposizione la sua esperienza in cucina, la sua capacità organizzativa e la sua forza emotiva.

Ringrazio Luca Rizzo proprietario del Ristopasto di Rende (Cs) che con immensa generosità ha offerto il secondo a tutti i nostri amici.

Ringrazio i miei figli per essere stati spontaneamente presenti e così amorevoli verso chi ha molto meno di loro dimostrandomi una sensibilità che a volte maldestramente nascondono.

Ringrazio l’Associazione Casa Nostra – Cosenza , per avermi dato lo spazio e la disponibilità per realizzare questo desiderio.

 

Simona Stammelluti

Tanti giocattoli e libri raccolti tra il 18 ed il 21 dicembre presso la sede della Confesercenti di Cosenza, associazione delle piccole e medie imprese del capoluogo Bruzio, su iniziativa del gruppo Facebook “Life” guidato da Tecla Morelli, con la collaborazione di Manuela Falvo

Una straordinaria raccolta, il cui materiale sarà devoluto ad alcune realtà che operano nel sociale e promuovono cultura in alcuni comuni della provincia, come l’Associazione “Athena” di Montalto Uffugo e l’Associazione Culturale “Fiore di Aria” di Saracena, unite per l’occasione nel progetto.

Tanti i giochi raccolti, tanto l’impegno per regalare sorrisi ai più piccoli, tanti gli abbracci solidali in un clima prenatalizio a fare da cornice” – sottolineano con soddisfazione gli organizzatori.

Tutti i libri raccolti andranno all’Associazione culturale “Fiore di Aria”, fondata e presieduta da Barbara Forte, che nel piccolo borgo del Pollino si è distinta in pochi mesi per lodevoli iniziative di promozione culturale e di solidarietà, oltre che per la creazione di una biblioteca di scambio, unica nel suo genere in provincia di Cosenza.

I giocattoli, invece, andranno all’Associazione “Athena” di Montalto Uffugo, fondata e presieduta da Federica Ferraro, Maria Esposito e Rossella D’ Amico, da tempo impegnata nel campo dell’istruzione e della formazione, che funge anche da centro Polispecialistico per la Tutela e la Cura di coppie, famiglie, e minori.

Un plauso anche alla Confesercenti Provinciale Cosenza mai indifferente alla solidarietà che ha apprezzato e supportato l’evento con entusiamo , affinché gli auguri ed il calore del Natale possano arrivi più lontano possibile, anche lì dove è difficile concepire questa festività come una perenne gioia.

 

C’è una magia nel teatro di Max Mazzotta, e coincide da sempre con quella sua capacità di servirsi delle tavole del palcoscenico per raccontare alcune realtà che spesso fanno riflettere, che sono crude nella loro essenza, ma senza “azzardare” la serietà che quella realtà reca in se. Sa raccontare episodi di vita, personaggi, storie e sogni, con quella leggera comicità che però mai snaturalizza il senso della sua scrittura.

La magia del teatro di Max Mazzotta si è consumata al Piccolo Teatro Unical in 3 giorni di sold out, portando in scena “Commedia all’Italiana“, uno spettacolo che sorprende già dai primi minuti, considerato che il regista sceglie di portare il mondo del cinema su quel palcoscenico a lui tanto caro. E’ un gioco teatrale che pone lo spettatore nella condizione di vivere una doppia esperienza, che va dal recitato in presa diretta che non può essere modificato e dunque deve “convincere qui ed ora”, al mondo frenetico e spesso pieno di problematiche e di insidie quale è il cinema.

Commedia all’Italiana racconta la storia di Tommy (Max Mazzotta) un regista squattrinato e con pochi mezzi, che con l’aiuto-regista Gigi (Francesco Rizzo) e il direttore della fotografia René (Matteo Lombardo) decidono di realizzare un film dal titolo “Il riscatto”; un film che riusciranno a girare tra mille peripezie, senza un centesimo, ma con tanti sogni. lo stesso sogno che accompagnava il cinema felliniano, ma nella purezza di un teatro povero eppur significativo. Saranno Tommy, Gigi e René a barcamenarsi come meglio possono, improvvisandosi in tutti i ruoli possibili; e così saranno a turno macchinisti, cameramen, addetti al trucco e parrucco, man mano che verranno meno i veri professionisti che senza soldi rinunceranno a lavorare al progetto. Una serie di esilaranti gag, mostreranno proprio quella vena comica di cui Mazzotta si serve, per raccontare il senso dello spettacolo, ossia quel “riscatto” che i personaggi sognano, ma che non arriverà mai.

“Il riscatto” è il titolo del film che Tommy vuole girare (e che gira) mettendo in scena “le scene” tra mille peripezie, raccontando la storia di un uomo che rapisce sua figlia da un istituto e che tra rocambolesche avventure si ritrova a sprofondare in una realtà che è molto diversa da come l’aveva sognata, quando scrisse il testo di una “commedia all’italiana”. A fare Lello, il primo attore sofisticato e ipocondriaco, un eccellente Paolo Mauro, veterano del teatro che al teatro dona non solo la sua presenza scenica ma anche quella sua capacità di essere comico ma con classe, mentre si destreggia in quella parte che sembra calzargli a pennello mentre incassa complimenti che lui stesso sa di non meritale ma che gli servono per non mollare; sua figlia Polly è Antonella Carchidi giovanissima attrice, alle prime armi sia nel ruolo di attrice cinematografica ma anche nella vita vera, su quel palcoscenico. Alle prime armi, sì, ma così poliedrica e scanzonata che in scena mostra tutta la sua versatilità nei panni di una ragazzina che poi per necessità di copione diventa ragazzino e che sogna anch’essa un futuro con un finale diverso da quello già scritto. La prima attrice, Cassandra, che vestirà i panni della superiora dell’istituto e poi della prostituta che aiuterà Polly e suo padre a sfuggire ai carabinieri che hanno alle calcagna, è Alma Pisciotta, che a mio avviso ha dalla sua, non solo la capacità di essere credibile in entrambi i ruoli, a tratti drammatici, ma possiede anche un’intonazione vocale che si insinua perfettamente nell’attenzione dello spettatore creando svariate tinte emozionali.  Tiene per se il ruolo del regista, Max Mazzotta, che calca il palcoscenico con la genialità di chi forse nella vita sa fare bene solo quello, perché con il teatro è un tutt’uno, perché alcuni amori diventano sodalizi e poi sofferenza per restare sempre un sogno che a crearlo ci vuole poco, ma a realizzarlo servono energie, talento e tanto coraggio.

Bravo, simpatico, eclettico, coinvolgente, come solo un direttore dei lavori sa essere, mentre crea l’atmosfera giusta in quella messa in scena che non è per nulla semplice. Sul palco ci sono attrezzature da spostare, tanti cambi d’abito, ci si deve anche arrampicare su una impalcatura per simulare la salita su un muro che rappresenta la salvezza.

E’ un gioco teatrale molto ben riuscito, quello che Max Mazzotta regala al suo pubblico. Una regia efficace e con quel retrogusto amaro di chi sa – perché lo ha vissuto – che chi sogna non smette mai, anche quando quel sogno sembra sepolto sotto il fango, ma basta un’idea, se giusta, a farlo riemergere.

E’ un teatro che riesce, se sullo stesso palcoscenico convivono e recitano e sudano giovane leve e attori navigati; significa che gli intenti si fondono alle idee e che la regia mira a mettere in luce le capacità di chi approccia alla storia con convinzione e talento.

Molto emozionante la scelta di proiettare spezzoni di film di Monicelli, De Sica, Totò, che non fanno da sfondo solo alle scene del film che lo squattrinato regista ancora spera di poter ultimare malgrado tutto, ma anche ad uno spettacolo teatrale che in equilibrio perfetto tra sogno e realtà, tra finzione e viva vera, mostra un sogno, quel sogno, che a volte si trasforma in riscatto e a volta resta solo un posto sicuro dove dormire e sognare.

 

Simona Stammelluti

 

Quinta giornata di udienza, presso la Corte d’Assise del Tribunale di Cosenza, dove stamane davanti al Presidente del collegio giudicante Giovanni Garofalo, al Pm Valentina Draetta, e agli avvocati difensori e di parte civile, sono sfilati come teste Antonio Toscano e Guido Toscano, rispettivamente marito e figlio di Ida Maria Attanasio (52 anni), vittima insieme a sua madre Edda Costabile (77 anni) del duplice efferato omicidio, avvenuto il 30 ottobre del 2016 nel cimitero di San Lorenzo del Vallo

 

Prima dei due testimoni di parte civile, è stato ascoltato il perito dott. Nicola Zengaro che ha spiegato alla corte le dinamiche di trascrizione delle intercettazioni. 316 pagine, divise in 3 volumi, rispettivamente recanti le trascrizioni di intercettazioni ambientali operate nella macchina dell’unico imputato della strage, Luigi Galizia, delle intercettazione telefoniche oltre a quelle avvenute nei locali della stazione dei carabinieri di Spezzano Albanese tra il 30 ottobre e il 1 novembre del 2016.

Le domande poste dal Pubblico Ministero al signor Antonio Toscano, marito di una delle due vittime, erano tutte mirate a capire come il Toscano avesse avuto notizia della morte di sua moglie, se nutrisse dei sospetti verso qualcuno, se avesse elementi per temere, prima del tragico evento, per l’incolumità propria e della sua famiglia.

Antonio Toscano – maresciallo in congedo della Guardia di Finanza – risponde a tutte le domande che gli vengono poste. Racconta di quella mattina del 30 ottobre del 2016 quando alzatosi all’alba si è recato con suo figlio Guido ( anch’egli stamane in aula) in campagna per dare il via alla raccolta delle olive. Racconta di aver salutato sua moglie che, così come stabilito dalla sera prima, sarebbe andata a prendere sua mamma (Edda Costabile) per recarsi al cimitero. Si commuove Toscano quando racconta di aver richiamato una sua amica che l’aveva ripetutamente cercato per comunicargli l’accaduto e di come rivolgendosi a suo figlio Guido gli avesse chiesto: “hai baciato tua mamma stamattina?” prima di comunicargli con disperazione che sua madre non c’era più, era morta, sparata. Racconta poi di non aver temuto più di tanto per la sua famiglia, dopo l’incendio della cappella di famiglia – che proprio secondo sua moglie, Ida Maria, era stato uno sfogo di rabbia della famiglia Galizia -ma ancor più dopo l’omicidio di Damiano Galizia ad opera di suo cognato, Francesco Attanasio, reo confesso, che, secondo Antonio Toscano, era sempre stato un “furbastro“, e che, a suo dire, avrebbe sicuramente potuto combinare qualunque guaio.

Sotto le domande del Pubblico Ministero Toscano racconta ancora di aver sentito da tante persone la notizia che il Galizia sarebbe sfrecciato con la macchina quel giorno del duplice omicidio, e di come i suoi sospetti fossero ricaduti su di lui (che lo stesso Toscano definisce “l’anello debole della famiglia”) considerato che gli altri componenti della sua famiglia avessero condotte diverse dal Luigi, che invece era dedito all’uso e allo spaccio di sostanze stupefacenti e quindi “solo un drogato poteva sparare in faccia ad una donna anziana e alle spalle ad una mamma” – dice Toscano.

Dalla deposizione emerge anche che il Toscano fosse a conoscenza – perché saputo da sua moglie che ne parlava con la cognata Veronica Nardo, moglie di Francesco Attanasio – che un cugino pregiudicato della Nardo, si era recato a parlare con i Galizia per chiedere di lasciar stare Veronica e il suo figlioletto – dopo la morte di Damiano Galizia per mano di Francesco Attanasio – accordandosi su una cifra di denaro che avrebbero fatto avere ai Galizia, che si aggirava intorno ai 25 mila euro.

Le notizie che arrivavano al Toscano all’epoca dei fatti non sembravano riguardare da così vicino la sua famiglia, per questo non aveva mai deciso di spostare la residenza di tutti a Roma, dove hanno un appartamento. Eppure la figlia di Toscano, aveva parlato con lo zio, Francesco, che dopo l’omicidio di Damiano Galizia, temendo una ritorsione, e pertanto avendo paura per l’incolumità dei suoi familiari, si era raccomandato di prestare la massima attenzione e se possibile di non uscire di casa.

E’ stata poi la volta di Guido Toscano, figlio 22 enne della vittima Ida Maria Attanasio. Anch’egli ha raccontato di quella mattina del 30 ottobre 2016, di come ha saputo della morte della mamma, di quando si sono precipitati sul luogo della strage, di come i sospetti ricadessero inevitabilmente su Luigi Galizia, dopo gli eventi che avevano preceduto il duplice omicidio, e sopratutto dopo i fatti che vedevano protagonista sua zio Francesco Attanasio.

La mia famiglia non ha mai avuto inimicizie” – ha dichiarato il ragazzo in aula che ha poi dichiarato di conoscere Luigi Galizia, ma di non aver mai avuto nessun contatto con l’imputato. Ha raccontato di come durante un colloquio in carcere, lo stesso Francesco Attanasio, avesse espresso paura per la loro incolumità e aveva pregato i suoi familiari di stare attenti.

Durante la testimonianza di Guido Toscano, emerge in maniera prepotente – così come era accaduto anche durante la testimonianza di suo padre Antonio – che ci sia più di una persona che sapesse con certezza che a compiere il gesto potesse essere stato Luigi Galizia,  più di qualcuno che l’avesse visto ubriaco quella mattina, ma malgrado sia stato sollecitato dal Pubblico Ministero e dallo stesso avvocato Badolato, Guido Toscano ha scelto di non rivelare alcun nome in merito.

 

E’ una legge sulla vita, che rispetta la vita, che da onore a chi la vita la vive con entusiasmo. Non è una legge sulla morte, ma sulla libera scelta. Oggi, finalmente, il Senato della Repubblica ha approvato in via definitiva la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, il biotestamento, per intenderci.

E’ un giorno in cui si celebra la civiltà, la democrazia, il rispetto dell’uomo e delle sue scelte, e forse da oggi, l’Italia è davvero un paese migliore. in fondo ogni uomo – se ci si sofferma un attimo a riflettere – non è soltanto un essere biologico, ma un’entità con una biografia, con una storia, con una volontà, una identità. Ognuno semplicemente vivendo si fa un’idea di come vuole viverla quella vita che gli è stata data, e per tutta l’esistenza attua scelte, che sono mirate al proprio benessere, alla propria felicità e che in libertà esplica con quel modo di vivere che è l’involucro che sa dare respiro e voce e sentimento a quel che si desidera. Adesso si potrà finalmente scegliere anche circa la propria morte, si potrà dire quello che si vuole ma soprattutto quello che non si vuole. Il testamento biologico, che arriva dopo anni ed anni di battaglie e di esempi di coloro che per morire sono dovuti andare all’estero perché in Italia non era possibile lasciar detto cosa si volesse, in quel momento particolare della vita (ecco, della vita) in cui il buio ti inghiotte e non ti da più possibilità di vedere, di sentire, di provare, di pensare, di vivere…insomma.

E’ una legge questa che schiaccia uno dei tanti pregiudizi che per anni hanno soggiogato il nostro paese, pregiudizi combattuti dalle associazioni, da Marco Cappato, da Beppino Englaro, da Mina Welby, dai radicali, che non si sono mai arresi, e si sono sobbarcati la responsabilità delle loro idee, delle loro scelte e delle loro azioni, perché hanno provato sulla loro pelle le conseguenze dell’assenza di questa legge.  E’una legge che mette a tacere la voce di chi la pensava come una legge sull’eutanasia o sul suicidio assistito. E’ una legge che – va riconosciuto – da una boccata di ossigeno anche alla politica del Partito Democratico, che ha saputo affrontare questa importante questione come una delle più serie sfide di questo secolo.

Da oggi, dunque, il rapporto tra paziente cosciente e medico, diventa il punto cruciale del rispetto umano e del diritto alla salute. Il paziente potrà stabilire a quali trattamenti essere sottoposto, quando non potrà più esprimere liberamente la propria volontà.

E poi non dimentichiamo il ruolo fondamentale della famiglia, e degli amici, che non sono una postilla su un documento, ma parte integrante della vita di ognuno, fino alla fine. Da oggi il paziente potrà decidere di coinvolgere un suo familiare – anche un convivente o un amico – nella scelta medica che lo riguarda. La legge vieta anche ogni forma di accanimento terapeutico.

Sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento non si pagherà nulla, né tassa, né imposta, né tributi. la DAT dovrà essere redatta in forma scritta, essere firmate davanti a un Notaio oppure, più semplicemente, essere consegnate personalmente all’Ufficiale di Stato civile del comune di residenza che le annota in un apposito registro.

E’ un nuovo giorno, oggi…è un buongiorno per questa Italia che si riscatta dopo lunghi anni di incertezze e di mancanza di slancio politico e umano.

Oggi si stabilisce un nuovo e fondamentale equilibrio tra responsabilità dei medici, libertà del singolo e rispetto per la vita.

Perché se l’alba resta il momento più bello, di quell’inizio che spereremmo non avesse mai fine, poi arriva il tramonto, e allora che ognuno possa decidere dove e come si debba consumare l’ultima luce del crepuscolo.

 

Simona Stammelluti

 

Minacce verbali e violenze fisiche nei confronti di bambini dell’asilo ad opera di due donne, ora indagate e interdette dai pubblici uffici

Sono stati i Carabinieri della Compagnia di Corigliano Calabro ad eseguire  la misura interdittiva nei confronti di due insegnanti dell’unica scuola d’infanzia di San Giorgio Albanese, consistente nella sospensione dall’impiego per la durata di sette mesi, emessa dal G.I.P. del Tribunale di Castrovillari.

Tutto ha avuto inizio da una denuncia presentata da alcuni genitori. Da lì è partita l’attività investigativa svolta dai Carabinieri della Stazione di San Giorgio Albanese  e coordinata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari, Dr. Eugenio Facciolla e dal Sost. Proc. della Repubblica, Dr. Valentina Draetta, che ha permesso, in poco tempo, di documentare,  con appositi servizi di osservazione e di video riprese all’interno degli spazi didattici, una consistente serie di maltrattamenti posti in essere dalle due insegnanti, nei confronti di una decina di bambini a loro affidati; tutto questo, nel giro di soli 15 giorni.

Le due donne sottoponevano i bambini a continue minacce verbali e affermazioni quali “…se non fai il bravo ti faccio il pungi-pungi….”, ma anche a violenze fisiche con pizzicotti, schiaffi e tirate d’orecchie, arrivando ad utilizzare, fra l’altro, un righello di plastica, e giungendo anche a lanciare violentemente giocattoli contro il muro, senza alcun apparente motivo.

L’attività d’indagine è riuscita ad accertare un sistematico ricorso alla violenza fisica e psicologica nei confronti dei bambini tra cui alcuni figli di rifugiati politici accolti in Italia e soggiornanti in detto centro.

Una violenza perpetrata ad opera delle due insegnanti, che tra l’altro incoraggiavano i bambini a risolvere le loro piccole controversie ricorrendo alle mani o emulando le loro stesse condotte violente, rimanendo loro indifferenti davanti a tali comportamenti, che ricordiamo riguardano bambini di una scuola per l’infanzia.

 

 

 

Singolare il siparietto che si sta tenendo nella città bruzia dove, da qualche giorno non si fa altro che parlare del fatto che la gente del posto, non sappia chi siano gli Skunk Anansie, gruppo rock che a quanto pare dovrebbe allietare il famoso concertone dell’ultimo dell’anno.

E così tutti coloro che presumibilmente sanno chi siano Skin ed il suo gruppo, ma che con molto probabilità stentano a ricordare anche solo 10 parole della loro più famosa canzone, si stanno indignando e stanno avendo non poco da ridire circa il fatto che il popolo cosentino si stia chiedendo chi siano e perché l’amministrazione comunale non abbia scelto qualcosa di più accessibile alle masse.

Loro, i radical chic, hanno inondato le bacheche Facebook, prendendo le distanze dalla plebe che ignora, che ha la colpa di non sapere, ma che però è stata abituata ormai da decenni a personaggi decisamente più “alla portata”, più popolari, più da canzonetta.

Il problema a mio avviso arriva da più lontano. Il concertone di capodanno che moltissime amministrazioni comunali” somministrano” – è proprio il caso di dirlo – alla popolazione, non può considerarsi cultura e forse, pensandoci bene neanche spettacolo, che di solito prevede una performance artistica con pagamento di biglietto.

Il concertone è da sempre un’opportunità che si da alle persone di uscire di casa, di fare quattro passi e di fermarsi – così come fan tutti – a vedere “chi c’è o cosa fa” questo o quel personaggio, questo o quel cantante, e se è “conosciuto” allora bene, si resta, oppure se lo si sa per tempo, ci si organizza per trascorrere in piazza l’ultimo dell’anno.

Si ha pretesa dunque, che il popolo cosentino gioisca per un artista che non conosce, che ringrazi e si inchini all’amministrazione comunale per il nome internazionale, perché – così come la pensano i radical chic e quelli che tutto sanno e tutto conoscono – sarebbe un grande regalo che viene fatto loro. A parte il fatto che il regalo per essere efficace dovrebbe essere fatto tenendo bene a mente le caratteristiche di chi lo dovrà ricevere, ma poi … per davvero si poteva immaginare che dovo aver portato a Cosenza Gabbani o Fedez, o Martufello o Alvaro Soler, la popolazione potesse gioire per un artista o per un gruppo internazionale di cui probabilmente conosce anche il nome, ma non gradisce perché non inquadrato in quel “senso” che è stato da decenni dato al concertone di fine anno?

Sarebbe il caso di interrogarsi su come possa essere possibile che una popolazione (parlando in generale, si intende) possa conoscere il nome internazionale, possa capire di un particolare genere di musica, se mai nessuno lo ha educato, istruito e incuriosito verso qualcosa che esuli dal loro mondo fatto di popolarità. La cultura in una città dovrebbe comprendere rassegne musicali di vario genere, dovrebbe pian piano includere nomi internazionali promuovendo le iniziative, collaborando con le associazioni del territorio che magari si occupano proprio di musica di settore, dovrebbe educare i giovani alla conoscenza di diversi generi musicali, incuriosirli, creando circuiti in cui gli stessi ragazzi del conservatorio cittadino, possano avere un ruolo organizzativo e partecipativo.

Non voglio sindacare nel lavoro dell’amministrazione comunale di Cosenza, in quello del Sindaco, o dell’assessore alla cultura, anche se mi piacerebbe sapere come siano giunti a quel nome, però pretendere che la cittadina reagisse con slancio ed enfasi a qualcosa che non conosce perché nel tempo non è stato accompagnato nella conoscenza di quel qualcosa, mi sembra un po’ esagerato. Certo, come Occhiuto stesso ha dichiarato “si spera che giunga gente anche da fuori città per assistere al concerto e lo scopo è dare visibilità a Cosenza e possibilità a tutti di festeggiare in piazza”.

Tranquilli…i cosentini vivranno il loro capodanno in piazza, mangeranno le noccioline, berranno la birra, e poi ancora panettone e spumante, faranno festa come sempre, e magari canticchieranno anche il refrain di “Because of you“, perché alla fine sì che lo conosce il pezzo, è la colonna sonora dello spot di una famosa casa automobilistica!