Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 6 di 94
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Primavera dei Teatri ritorna in scena nella sua consueta collocazione primaverile.

Il festival diretto da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, presenta oltre 40 eventi di spettacolo dal vivo tra teatro, danza, musica, performance, residenze creative, workshop e reading.

 

Torna in primavera – nel suo periodo originario – dal 27 maggio al 4 giugno a Castrovillari, la XXIII edizione di Primavera dei Teatri, festival dedicato ai nuovi linguaggi della scena contemporanea, organizzato da “Scena Verticale” la compagnia di Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano.

Come da tradizione, sono tanti gli spettacoli di famose compagnie italiane e straniere che nascono da Primavera dei Teatri come autentica anteprima degli eventi futuri del panorama teatrale. Un cartellone ricchissimo. Il festival è oggi un “avamposto” a Sud della drammaturgia contemporanea e della nuova creatività, un laboratorio di incontri e confronti tra artisti di diversa estrazione e generazione. Oltre 40 eventi di spettacolo dal vivo tra teatro, danza, musica, performance accompagnati da residenze creative, workshop, reading, presentazioni di libri e convegni: 16 debutti assoluti, 4 anteprime, 4 coproduzioni e 3 progetti internazionali.

 

Il festival si conferma essere una straordinaria vetrina della cultura nazionale e internazionale. Lo schema della multidisciplinarità, che ha riscosso da sempre il consenso del pubblico e della critica, resta quello degli anni precedenti, ma con una importante novità: il ritorno del festival nella sua collocazione annuale originaria, con tutti gli eventi distribuiti nella consueta cornice di Castrovillari.

 

Tanti sono gli elementi che concorrono a rendere una manifestazione prestigiosa e riconoscibileaffermano i direttori del Festival Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisanoil territorio in cui nasce e attecchisce, la peculiarità del progetto, una direzione rigorosa e coerente nelle scelte, la magia degli spazi utilizzati. Uno di questi elementi è senza dubbio la sua collocazione temporale nell’arco dell’anno. È per questo motivo che abbiamo voluto fortemente che Primavera dei Teatri tornasse alla sua collocazione primaverile, anche prendendoci il rischio di non attendere l’avviso pubblico regionale sugli eventi che da anni sostiene economicamente il festival per 2/3 del suo budget. Primavera dei Teatri, che apre ogni anno la lunga stagione festivaliera in Italia, deve poter assolvere alla funzione di presentare e accompagnare i debutti nazionali, di tante compagini artistiche, in questo preciso momento dell’anno e non può vanificare il lavoro di programmazione di un anno che un evento culturale come questo necessita“.

Si parte il 27 maggio con il seminario di drammaturgia per autori e attori cura di RAFAEL SPREGELBURD. Le residenze artistiche prenderanno il via il 28 maggio e saranno: WHITE ACTS (progetto, coreografia, danza: Roberta Racis), SPOKEN DANCE (Coreografi e Interpreti: Noemi Dalla Vecchia e Matteo Vignali), SMART WORK di Armando Canzonieri, regia Gianluca Vetromilo e LA CONSAGRACION DE NADIE (Drammaturgia, regia e interpreti Gonzalo Quintana e Micaela Fariña).

 

Tra teatro e danza, nazionale ed internazionale, gli spettacoli avranno inizio martedì 30 maggio con la prima nazionale di BIG IN KOREA, drammaturgia Francesco d’Amore e Luciana Maniaci, regia Kronoteatro, con Tommaso Bianco e Maurizio Sguotti e con CANTO ALLE VITE INFINITE, sempre in prima nazionale, drammaturgia, regia e interpretazione di Elena Bucci, progetto in collaborazione con Marco Sgrosso.

 

Mercoledì 31 maggio sarà la volta DONNA DI DOLORI di e con Patrizia Valduga in scena con Daniela Piperno (primo studio di un work in progress guidato da Antonio Calbi) e a seguire lo spettacolo in prima nazionale UMANITÀ NOVA -cronaca di una mancata rivoluzione, con Giuseppe Carullo, regia Cristiana Minasi, drammaturgia Fabio Pisano.

 

Giovedì 1° giugno appuntamento invece con la danza con ALCUNE COREOGRAFIE ideazione, regia e videocoreografia di Jacopo Jenna, collaborazione e danza Ramona Caia. Poi Federica Carruba Toscano sarà PENELOPE, con la regia e drammaturgia di Martina Badiluzzi, mentre in prima nazionale debutterà I GRECI, GENTE SERIA!  COME I DANZATORI con Roberto Scappin e Paola Vannoni.

 

Venerdì 2 giugno tre prime nazionali: i PERSIANI di Eschilo – la tragedia più antica del mondo, con Silvio Castiglioni, canti Marina Moulopulos, spazio scenico e regia I Sacchi di Sabbia; Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari proporranno LIDODISSEA, mentre la Compagnia occhi sul mondo sarà in scena con LA SINDROME DELLE FORMICHE.

 

RE PIPUZZU FATTO A MANU_MELOLOGO CALABRESE PER TRE FINALI di e con Dario De Luca e Gianfranco De Franco sarà in scena sabato 3 giugno, giornata che vedrà esibirsi anche – in prima nazionale – Lisa Ferlazzo Natoli in CITTÀ SOLA di Olivia Laing, riduzione e drammaturgia Fabrizio Sinisi, regia Alessandro Ferroni e Lisa Ferlazzo Natoli. La giornata di sabato vedrà anche in scena Saverio La Ruina protagonista dello spettacolo da lui scritto, VIA DEL POPOLO e a seguire FELICISSIMA JURNATA, uno spettacolo di Putéca Celidònia, drammaturgia e regia Emanuele D’Errico.

 

L’ultima giornata di festival, domenica 4 giugno, sarà la volta di STORIE DI NOI di Beatrice Monroy, regia di Giuseppe Provinzano, BEAT FORWARD di Igor X Moreno X Collettivo Mine e WELCOME TO MY FUNERAL, nuova creazione di Brandon Lagaert (danzatore della Peeping Tom Company) per Equilibrio Dinamico Dance Company.

 

Anche quest’anno il cartellone multidisciplinare propone inoltre importanti reading, presentazioni di libri e convegni: le letture delle opere poetiche di Marica Roberto e Daniel Cundari, la presentazione del libro UNO STRAPPO NELLA RETE articoli di Renato Nicolini per Tuttoteatro.com a cura di Mariateresa Surianello e ancora NOTTURNO SCALDATI progetto a cura di Valentina Valentini, LE POLITICHE PER LO SPETTACOLO DAL VIVO TRA STATO E REGIONI, libro a cura di Marina Caporale, Daniele Donati, Mimma Gallina, Fabrizio Panozzo, la conversazione tra Rossella Menna e Daria Deflorian sul libro QUALCOSA DI SÉ su Daria Deflorian e il suo teatro; per finire i consueti appuntamenti musicali serali tra DJ Set, GLORIOUS4 in concerto, SAMUELE CESTOLA e FABIO NIRTA.

 

Considerato uno degli appuntamenti più importanti del panorama teatrale italiano, Primavera dei Teatri è diventato un punto di riferimento imprescindibile per operatori, critici, artisti e per il pubblico proveniente da tutta Italia e dall’estero. Primavera dei Teatri vuole contribuire al processo di rinnovamento del linguaggio scenico nazionale e internazionale e operare per il ricambio generazionale nel campo delle arti performative. Allo stesso tempo, il festival vuole dare il suo contributo alla crescita democratica, sociale e culturale del suo territorio e di tutto il Mezzogiorno. Il festival fin dalla sua prima edizione è stato sostenuto dal Ministero per i beni e le attività culturali.

 

È sempre così, quando una persona – con tutti i suoi limiti di essere umano – finisce nel fango, trascina con sé anche gli ideali. E questo non va bene mai. Perché gli ideali proteggono il futuro, ci aiutano a pensare ad un mondo migliore, a credere che ce la si possa fare, e che il male prima o poi perirà sotto il peso dell’altruismo, dell’onestà e della gratitudine.
Ed è per questo che prendiamo le distanze dagli eventi che portano le persone a sbagliare, tenendoci stretti gli ideali.
Per noi giornalisti è davvero molto difficile dover tornare sui propri passi come ci è toccato fare nei giorni scorsi, ed è ancora più difficile per noi giornalisti che raccontiamo la terra di Sicilia, la terra di mafia.

E così in questi giorni ci è toccato raccontare una storia, un fatto di cronaca, molto diverso da quello che avevamo raccontato nel 2020, in piena pandemia; era la storia di Daniela Lo Verde, la preside della scuola “Falcone e Borsellino” nel quartiere Zen 2, uno dei più disagiati di Palermo, dove lei si recava ogni mattina per coordinare gli aiuti alle famiglie dei suoi studenti.

Per tutti quella preside era la faccia bella e pulita di una terra messa sotto scacco dalla mafia, veniva intervistata dalle tv di mezzo mondo e nominata Cavaliere del Lavoro dal Presidente Mattarella ed ogni volta ripeteva sempre lo stesso “Slogan”: “noi insegniamo legalità persino durante la ricreazione”.
Tutti abbiamo creduto alle sue parole, anche Bruxelles tanto che ogni volta che la preside Lo Verde partecipava ai bandi europei per avere dei fondi destinati ai suoi ragazzi, li otteneva sempre e nessuno mai aveva dubitato della sua “buona volontà”.

Eppure, malgrado sia stato difficile crederci, la realtà era molto lontana da ciò che lei stessa raccontava, e a sbugiardarla non solo le accuse di peculato e corruzione che l’hanno portata ad essere arrestata, ma proprio le intercettazioni che non lasciano scampo a dubbi e che fanno rabbrividire

“Ci arrivano soldi da tutte le parti – esultava con il suo vicepreside – e tu lo devi dire che io sono quella speciale”.

Ma questo non era un perdonabile sussulto di vanità di una persona che si ritrova al centro dell’attenzione per merito, ma era la malsana euforia di chi si crede onnipotente e quindi in diritto di fare ciò che vuole, anche rubare.

Ma non è vero che vince il male, non sempre.
Non è vero che in terra di mafia sono tutti corrotti e collusi.
Non è vero.
È vero invece che esistono gli ideali di legalità che si nutrono di gesti quotidiani e coraggiosi, come quello di una ex collega della preside Lo Verde, che qualche settimana fa si è presentata dai carabinieri, denunciando (parola sconosciuta a chi pensa che sia meglio la protezione della mafia che della giustizia) perché – come lei stessa dirà – non può più tacere e racconta che “Daniela ruba ai ragazzi”.

I carabinieri piazzano le telecamere e capiscono subito che le parole della donna non sono pettegolezzo o maldicenza, ma la cruda, becera, disgustosa realtà, quella che tenta di distruggere gli ideali di legalità e giustizia.

Le intercettazioni sono agghiaccianti.
Le parole che Daniela proferisce alla figlia fanno davvero cadere le braccia perché la dimostrazione di quanto per davvero lei fosse così bassa ed infima da rubare ai suoi ragazzi:

Questa cosa di origano mettila pure, per casa. Quei gelati puoi prenderli e metterli nei sacchetti. La giardiniera e le patatine per la casa al mare

E poi ancora dice alla figlia:

lo vuoi il computer? ora ce lo grattiamo. 

E poi a tradirla sono anche le telecamere che la riprendono mentre carica tutto il “malloppo” nel bagagliaio della sua auto.

La preside Lo Verde aveva messo le mani su tutto ciò che era destinato ai ragazzi e ai corsi europei che non sono però mai stati realizzati, e dopo aver falsificato anche le firme dei suoi alunni che a quei progetti non hanno mai partecipato.

Questa storia – una come tante, direte – ci fa male, ci fa sentire traditi ed anche un po’ stupidi, soprattutto noi giornalisti che abbiamo raccontato una “faccia pulita” che non esisteva e che in realtà, era completamente accordata ai gesti beceri e disonesti, che sono il distintivo della filosofia mafiosa.

E fa male anche quella chiacchiericcio che si insinua nel racconto di questa storia, la voce di quella parte di Sicilia – dalla quale noi da sempre prendiamo le distanze – che ridicolizza i paladini della giustizia, facendo passare il concetto che tanto la giustizia non vincerà mai, che tanto la legalità in quella terra non esiste e chi vi crede è solo un illuso, perché le cose non cambieranno mai.

Ma ognuno di noi fa le cose che sa fare nel proprio piccolo e noi lo facciamo dalle pagine del nostro giornale, perché può cadere un simbolo (o presunto tale) della giustizia, ma potrà mai cadere un ideale, per il quale in molti ci battiamo, nel silenzio di giorni comuni, raccogliendo sforzi e storie, credendoci ancora, fino in fondo. E non sarà il fallimento di un singolo a toglierci la forza di continuare a raccontare e ad insegnare ai giovani a capire bene da che parte stare.

 

 

 

 

 

Ho aspettato un po’ prima di scrivere questo articolo.
Come mi accade sempre più spesso, alcune cose di getto hanno una sapore troppo amaro; e allora prendo tempo, cerco la complicità del tempo affinché le parole siano quelle giuste, affilate al punto giusto. Perché non devono fare male le parole, devono destarci da un torpore che ci rende sempre più distanti da una realtà che è divenuta drammatica; una realtà che guardiamo ma mai da vicino, che ci interessa ma sempre troppo poco, che non vediamo mai come possibile perché tanto “a noi non capiterà, ma figurati!” e così passiamo oltre. Resettiamo. Quello che è accaduto ieri ormai è notizia vecchia, anzi lo è già dopo poche ore, figuriamoci dopo pochi giorni. Qualcosa ci colpisce, ci dispiaciamo anche, ma alla fine non ci tocca, non è affar nostro. Ed invece è affar nostro. È affare di tutti.
Perché questo perpetuarsi di storie che hanno come protagonisti giovani che trovano libertà dal male di vivere, solo morendo, lanciandosi nel vuoto, mi fa tremare i polsi mentre scrivo, mi fa sentire incapace e fallita non solo nel ruolo di madre e dunque di educatrice, ma anche di cittadina, di persona che ha un ruolo e una montagna di responsabilità. E se non si avverte quel senso di sgomento e di paura, quel senso di colpa accogliendo la notizia che una 18enne – che sarebbe potuta essere figlia di ognuno di noi – si è tolta la vita pur avendo davanti a sé una vita sfolgorante, piena di successi, di amore e di bellezza, se non ci viene da domandarci non tanto perché (perché forse non lo sapremo mai) ma dove si è inceppato l’ingranaggio della comunicazione, della comprensione, del dialogo con questi giovani, abbiamo fallito. Abbiamo fallito tutti.
Analizzando la storia di Julia Ituma la stella della pallavolo italiana, trovata morta a Istanbul in Turchia giovedì mattina, mi è venuta in mente la storia di Antonella Diacono, una giovanissima che si è tolta la vita nel 2017 a soli 13 anni. Mi sono venute in mente le parole di suo papà Domenico, che in una intervista parlava di attenzione, dell’attenzione che spesso non diamo alle cose e alle parole che i giovani ci rivolgono, ai malesseri che sottovalutiamo, a cose che possono sembrare banali ma che in realtà non lo sono mai, non lo sono per quei giovani che sembrano forti e spavaldi, sicuri di sé e capaci di affrontare tutto, ma che nella realtà, nella loro realtà – che dovrebbe essere anche la nostra – si sentono piccoli, indifesi, incapaci di navigare acque in tempesta, perché soli e senza un faro verso il quale puntare la rotta.
Anche le parole che sembrano “buttale lì” e alle quali non si da il giusto peso, possono diventare un salvagente se ce ne si fa carico, se si analizzano, se non le si lasciano cadere. Perché può essere – non sempre ma qualche volta sì – anche dietro un carattere esuberante, estroverso, carico di empatia possono nascondersi delusioni, incertezze, paure e, piaccia o no, spetta a noi adulti, genitori, insegnanti, allenatori, educatori, tirare fuori quel malessere, quella inquietudine, quella fragilità da sotto la parvenza di normalità che i giovani provano a costruirsi, fin quando poi non ce la fanno più.

Le porte chiuse, le parole non dette.
Le richieste di aiuto silenziose, una domanda fatta a bruciapelo che non trova la giusta risposta, un dubbio che diventa poi un vicolo cieco, un’aspettativa delusa, la paura di non farcela, di non essere all’altezza o al contrario quel senso di onnipotenza che non può appartenere ad un adolescente e che quindi è destinato ad infrangersi, la non certezza che chi ci consce ci possa realmente aiutare. Tutto questo a volte pesa così tanto sulle spalle dei giovani, che alla fine anche la mano tesa, non viene vista, non viene percepita come una reale richiesta di aiuto.

Anche Antonella come Julia, prima di morire aveva cercato un contatto telefonico con un’amica, ma senza che quel contatto fosse foriero di una soluzione ad un dubbio che a volte attanaglia fino all’ultimo minuto secondo della propria esistenza.

Gli addii ai giovani non andrebbe mai dati in questo modo, non quando solo loro che vanno via.
Eppure qualcosa resta. Resta il rimpianto del tempo che ruba le vite alla vita, resta la volontà di capire perché, anche se non si riuscirà forse mai a capire, o forse capire è nascosto in un quotidiano che può contenere in sé una via di uscita anche se non sempre la si vede.

E allora non facciamo che guardiamo e passiamo oltre. La cronaca fa il suo, il resto dovremmo farlo tutti noi. Imparando ad ascoltare, e non solo adulti con giovani, ma anche giovani con giovani, educarsi anche da soli, ad ascoltare, a prestare attenzione.

L’inquietudine a volte è sottovalutata, viene considerata capriccio ed invece può essere malessere.
Ci colpiscono le notizie come quelle della morte di Julia o di Antonella, ma poi tutto continua a scorrere, nulla ci tocca davvero nel profondo. Ed invece dovremmo sentire bruciare dentro la domanda circa il ruolo che ognuno di noi ha, e che quasi sempre è complementare alla vita degli altri, di coloro che sembrano estranei, ma potrebbero essere vicini a noi, proprio mentre ci giriamo dall’altra parte.

Quando il dolore ti entra dentro, quando il male oscuro si nasconde dietro un apparente successo che non sai e forse neanche vuoi veramente, quando restano tante domande, allora bisogna ascoltare, rispettare e non giudicare mai.
Voglio terminare questo articolo con le parole che Antonella Diacono scrive in una lettera, qualche tempo prima di morire a soli 13 anni.

Andate contro i pregiudizi, e anche quando si rivelano corretti continuate a scavare, perché quello che gli altri pensano di noi, ci si attacca addosso come una seconda pelle. E allora combattete. Non lo farete, vero? – come pensavo …

Se volete vedere l’intervista a Domenico Diacono, potete farlo qui

 

Non solo gli chiede di succhiargli la lingua, ma mentre esterna le sue perverse richieste ad un bambino, tiene ferma la manina destra in mezzo alle sue gambe. E poi non contento, lo stringe nuovamente a sé tanto che il bambino, avvertito l’enorme disagio (non certo per il solletico) cerca di divincolarsi.

Ditemi cosa dovrebbe farsene la famiglia del bambino delle scuse che l’ufficio stampa del Dalai Lama ha inoltrato attraverso le pagine di Twitter. Lo vogliono far apparire come uno che scherza, che si avvicina al prossimo in modo giocoso, INNOCENTE.

Io di innocente ci vedo davvero molto poco, anzi nulla.

Un comportamento inaudito, oserei dire violento. Perché tale è stato. Una violenza ai danni di un bambino che voleva solo salutarlo.

Ora partendo dal fatto che a me sorprende chi si è sorpreso (scusate l’allitterazione) nel vedere questa condotta, io non posso credere che ci sia chi crede che il Dalai Lama sia per davvero un saggio, spirituale e “casto e puro”.
A parte che si deve sempre dubitare di chi ha “auree di magnificenza celestiale”, la cosa che non sorprende ma disgusta è la pochezza umana incontrollabile. Un finto mistico, capace di gesti che sono molto vicini alla pedofilia condannata da Papa Francesco nella chiesa Cattolica.

È un video choc, ed è giusta la bufera mediatica contro il gesto e il suo autore.
Non si deve aver paura di dire che colui che dovrebbe essere la reincarnazione di Buddha, che non dovrebbe mai cedere ai piaceri terreni, fa il gesto peggiore, proprio con un bambino. Per non parlare della sfrontatezza di farlo pubblicamente e quindi quel senso di onnipotenza e potere che esercita sulle masse.

Mi viene da pensare che sia necessaria una emancipazione sociale urgente, perché la religione è divenuta alienazione religiosa, e dietro finti riti che inneggiano al bene, alla carità, al misticismo, vi è la mistificazione di un ruolo che è molto lontano dal divino e molto più prossimo a tutto il male che l’essere umano è capace di concepire prima e compiere poi.

Non si è al sicuro.
Neanche il buddismo è al riparo da atti molto vicini alla pedofilia.
Travestirsi da monaco, da brava persona, non fa di lui una guida spirituale.
Le immagini divenute virali, diventano al contrario il fulgido esempio di un degrado morale e spirituale che sta imperversando negli ultimi tempi.
Credo che non ci si debba meravigliare, ma indignarsi sì, provare schifo pure. E la repulsione verso questo degrado, deve cambiare le sorti del mondo che vira verso la molestia a danno dei più deboli, dei più piccoli a cui nessuno dovrebbe torcere neanche un capello.

C’è chi ha tirato fuori il rito della cultura tibetana, che risale ad un crudele re del nono secolo con la lingua nera e pertanto tirarla fuori, nella tradizione significava non essere come lui. Ma siamo ben lontani da mostrarla ad un bambino, chiedendo anche di succhiargliela.

E allora domandiamoci cosa faranno mai, fuori dall’occhio delle telecamere, fin dove si possano spingere queste persone, capaci di comprare tutto, anche il silenzio.

Scavare, capire e tirare fuori tutto questo schifo. Questo si deve e si può fare.
Noi abbiamo Papa Francesco che non solo ha confermato le norme anti-insabbiamento, ma le ha estese anche ai laici.

Nuove regole rafforzate dunque, contro gli abusi. Prevenire e contrastare i crimini di abuso sessuale.
Non si può far finta di scandalizzarsi e poi lasciare che sia. Non si può più. Dentro le stanze dei palazzi con le pareti rosso porpora si consumano atrocità che sono state insabbiate troppo a lungo.

E ci sono persone che non possono non sapere. Anche in passato si è parlato di Papi che non potevano non sapere.
E per chi sa o sapeva e non parla, valgono le stesse regole dell’omertà che regola la mafia.
L’omertà è la colpevolezza vestita in abito da sera.
Il coraggio di chi ha voglia di smascherare tutto, di porre fine a quelle che sono vere e proprie molestie, è da ammirare.
Papa Francesco è stato un grande coraggioso in questo.
E lui sa, sa molte, moltissime cose. Forse troppe. Purtroppo per lui, ed anche per noi.

 

 

Una bella storia di amore per la scuola e per i ragazzi. Una storia di buona scuola, di cultura, di rapporti, di speranza e di futuro.

Sono gli anni 80.
Siamo a Milano, la Milano da bere.
Siamo al liceo classico “Parini”.
Sono gli anni in cui va tanto di moda la maglietta nera con su stampato un cuore rosso e la scritta nera “I love New York”

Una intera classe entra in aula con quella maglietta, ma al posto di I love New York, c’è stampato I love Borges, ossia lo scrittore preferito della professoressa di lettere, la professoressa Marisa Marini. Lei minuta nel fisico, ma sempre austera, con quello sguardo severo, distaccato, spesso nascosta dietro degli occhiali dalle lenti oscurate, finge di non provare nessuna emozione, resta immobile davanti ai suoi ragazzi, ma poi si lascia andare ad un sintetico e sobrio “siete dei disgraziati!“.

Poi sorride e mostra la porta del suo cuore che è aperta, spalancata.

Lei non è una donna e una prof di smancerie, non è una donna da voti politici o da finti sorrisi.

Accade che una quindicina di anni dopo, siamo nel 1999, la prof Marini è alla soglia della pensione e la sua classe non vuole che lei vada via; i ragazzi devono assolutamente convincerla a restare per accompagnarli fino alla maturità e dunque a restare altri due anni. Così escogita una cosa che oggi chiamiamo flashmob, ma che all’epoca fu solo un piccolo grande gesto, che ricorda un po’ il film “L’attimo fuggente”.

La prof entra in classe, i ragazzi si alzano in piedi e restano così immobili ed in silenzio per tutta l’ora. Lei passeggia un po’ furiosa un po’ innervosita tra i banchi, sembra stupita ma ha capito quel gesto e si lascia scappare di nuovo quella parolina magica: “disgraziati!” 

Porte del cuore di nuovo spalancate e la voglia di accompagnare quei suoi ragazzi adorati fino al traguardo della maturità.
Così rimanda la pensione di due anni e resta con loro fino alla fine di quel meraviglioso percorso scolastico.

Ieri gli studenti di quelle due classi del liceo Parini, che oggi sono tutti cinquantenni, affermati e con famiglia, si sono ritrovati nel loro liceo a ricordare la Professoressa Marini, che è mancata due anni fa a 86 anni. Molti si sono portati dietro la maglietta dell’epoca, quella con il cuore rosso e la scritta “I love Borges”, altri sono rimasti in piedi, in ricordo di quel tempo andato, tutti nell’aula magna del liceo che da ieri ha una nuova biblioteca messa su proprio con i libri della professoressa Marini; libri anche rovinati ma vissuti, che sua sorella Piera ha donato alla scuola, affinché la prof  in qualche modo possa continuare a parlare a tutti gli alunni di letteratura, di viaggi, di musica e di cinema, proprio come faceva tra i banchi, in maniera anticonformista, onorando una professione, quella dell’insegnante, a volte bistrattata, spesso difficilissima.

 

 

È stata una esperienza fuori dal comune poter intervistare Adolfo Adamo, attore, autore e regista teatrale che in questi mesi sta tenendo dei corsi di teatro presso il Liceo Classico Gioacchino da Fiore di Rende, e che si sta dedicando in maniera primaria proprio ai giovani delle scuole, delle università e delle carceri, insegnando loro quel viaggio nella parola che è parte fondamentale dell’arte teatrale.

Incontrarlo e finire nel suo mondo, è stato un motivo di arricchimento, di riflessioni su ciò che il teatro rappresenta ma anche su ciò di cui il teatro necessita.

La sua immensa cultura, le sue esperienze sia come attore che come regista, il suo modo di concepire la dinamica del teatro, quella capacità di indagare nell’interiorità umana, e poi di insegnare ai giovani a fare spazio alle proprie attitudini, rinunciando al superfluo, immergendosi nella suggestione, nella parola, nei sentimenti e nelle emozioni, allenando l’autostima e la capacità di essere altro da sé. E poi ancora l’importanza dello studio, della curiosità, del sapere.

In attesa del progetto di fine corso che seguiremo con piacere, di seguito l’intervista realizzata.

Buona visione

 

 

Figlio amato di questa Italia, Enrico Olivanti vive e lavora ormai da diversi anni in Germania, dove la sua arte è stata ospitata e dove lui stesso ha trovato un luogo che potesse accogliere non solo il suo talento indiscusso ma anche il suo modo unico di fare musica.
Un tutt’uno con la sua chitarra, che utilizza per creare musica, dando vita ad innumerevoli progetti artistici che nel corso del tempo gli  hanno permesso di avere un suo tratto distintivo, in un mondo di musica spesso tutta uguale. Enrico Olivanti non è uguale a nessun altro, è un “pezzo unico” come il suo nuovo album “Love letters beneath the doric tomb“, scritto e realizzato in un periodo in cui era tutto fermo, immobile.

Ma i periodi di stasi possono essere per gli artisti proficui tanto quanto i periodi pieni di stimoli, ed è così che uno degli artisti più eclettici e più raffinati del panorama jazzistico e non, ha realizzato uno dei lavori più suggestivi che si possano trovare in questo periodo in circolazione.

Un disco, questo, uscito lo scorso 22 ottobre, che si può ascoltare su tutte le piattaforme digitali e che si trova in versione fisica anche in tutti gli store di musica, e che è stato scritto durante la pandemia. Un disco “letteralmente” ricamato intorno alle sensazioni vissute e sulle mancanze alle quali si è stati costretti ad abituarsi.

I gesti ripetuti, una finta normalità, la morte all’improvviso, una ciclicità di intenti, la paura.

Così nasce il disco, che prende in prestito le emozioni e le sensazioni provate e si trasforma in una esperienza sensoriale pazzesca.
Una suggestione che ti rapisce, che ti ipnotizza e ti conduce dentro un mondo fatto di suoni che non sono a caso, come non sono a caso i titoli del brani. In ognuno di essi si ritrova una parte sé, di ciò che è stato, di ciò che si è perduto. Ma anche la speranza che ci attendeva “oltre la curva”, attraverso “lo sguardo introverso” di chi c’era anche dentro una lettera d’amore, quando con impazienza  si godeva dell’incanto di parole attese, provando una immensa gratitudine verso un dono che non solo potesse rendere più dolce un sacrificio, ma che alla fine risultava essere una vera e propria benedizione.

Ho trovato questa idea geniale, ricercata, originale che segue questa nuova necessità di scavare nel mondo della musica che ricerca suoni e da loro un senso. E in questo Enrico Olivanti è un vero mestro. Questo disco è una dimensione che ricorda una sorta di rito meditativo, e in alcuni pezzi la chitarra ti conduce, ti tiene per mano mentre si attraversano atmosfere ancestrali.
Un disco che a tratti ti scuote e a tratti ti ipnotizza e tu che ascolti devi per forza assecondare le note e i suoni. Devi “sentire” e goderne.
Voci, suoni, sensazioni, un mix incredibile, che esce dal range canonico di fare musica e consegna una dimensione che incanta.
Alcune note che a loop fanno da tappeto sono come un gancio, che ti tiene saldo, mentre ti lasci andare al richiamo del tema di alcuni pezzi.
È un disco con un carattere, e con delle caratteristiche affascinanti; il linguaggio della chitarra è il mezzo per comprendere.
I suoni orientali rivelano il senso di tutto, e nel finale la risoluzione, la rivincita, la rinascita dopo il sacrificio.
E come sempre quando si ascolta un disco e se ne cerca un senso, proprio dentro una sensazione provata, ci si affeziona ad un brano in particolare. Anche questa volta mi è successo; il brano che più ho amato dell’album è “Abbraccio”, nel quale Enrico Olivanti allunga le sue mani che oltre le corde, che vibrano e suonano sotto il suo tocco, avvolgono l’ascoltatore. È un pezzo puro, nel quale la musica scritta è piena di armonia, di spazi nei quali nascondersi per sentirsi al sicuro.

“Love letters beneath the doric tomb” è un disco per ricordare, amare, sentirsi grati.
Un disco per immergersi in una dimensione altra, accogliente e appagante.
Ed Enrico Olivanti non è solo un virtuoso della chitarra, ma è colui che è capace di trasformare una indiscussa abilità tecnica in finezza e raffinatezza. L’opera è stata interamente composta, realizzata e prodotta da Enrico Olivanti che ha suonato chitarre elettriche, classiche, slide, bouzouki, sintetizzatori, piano, percussioni, campane tibetane oltre alla sua voce.

In attesa che Enrico Olivanti arrivi in Italia con i suoi concerti, potete godere del suo album e di un assaggio nel video qui sotto

 

 

 

 

La notizia è di pochi minuti fa.
Un uomo di 49 anni, Vincenzo Re, figlio dell’avvocato Salvatore e fratello dell’avvocato Daniele, è morto poco fa, a bordo di una ambulanza che lo stava trasportando all’ospedale San Giovanni di Dio di Agrigento.

Stava giocando una partita di calcetto, nel campo del villaggio Peruzzo, allorquando si è sentito male; i compagni di gioco, si sono resi subito conto della gravità della situazione ed hanno provveduto a chiamare tempestivamente l’ambulanza del 118.

Un infarto fulminante gli ha tolto la vita durante il tragitto verso il nosocomio agrigentino.

Il mondo forense della città è stato colpito da questo tragico evento luttuoso.

Il padre Salvatore Re e il fratello Daniele sono tra gli avvocati più rappresentativi e conosciuti della provincia di Agrigento.

 

Siamo stati tacciati di essere fuori dalla grazia di Dio quando sottolineavamo che questo governo avrebbe letteralmente calpestato i diritti civili. Ed invece avevamo ragione noi giornalisti e analisti politici ed esperti di diritti, quando dicevamo che questo governo sarebbe andato avanti a frasi fatte, dosi di demagogia, ma al contempo a colpi di spugna circa i diritti civili, che per loro “non hanno ragione di esistere”.

Come sempre se non sei bianco, etero e se non hai messo su una famiglia tradizionale, non hai diritto a niente.
E ad oggi, dopo il provvedimento di questo governo che blocca la registrazione all’anagrafe dei figli di coppie onogenitoriali a Milano, dopo che il prefetto è intervenuto su spinta del ministero dell’interno per interrompere il diritto che ormai era riconosciuto dal comune, dopo che i minori di una famiglia omogenitoriale sono esclusi da tutta una serie di diritti civili, sociali, patrimoniali ancora non è chiaro che vi è un serio problema circa il limite enorme ai diritti civili?

Questo primo provvedimento è un abominio.
E siamo solo all’inizio.

Il blocco alle trascrizioni dei certificati di nascita esteri dei figli delle famiglie omosex, con impossibilità di formare atti di nascita italiani, si allinea al no già opposto alla proposta di introdurre in Italia il certificato europeo di filiazione: una sorta di carta di identità europea del minore che gli garantisca l’accesso ai diritti civili e sociali anche in quegli Stati dove non risulti il suo status di figlio.
E così in tutto Europa, tranne che l’Italia insieme alla Polinia e all’Ungheria, i figli di coppie omogenitoriali sono riconosciuti fin dalla nascita, senza dover affrontare lunghe battaglie per ottenere la trascrizione di certificati esteri o la stepchild adoption cioè l’adozione del figlio del partner.

Questo significa che per i figli di coppie omosessuali si allontana sempre di più la possibilità di acquisire un diritto.
Questo Governo ha bocciato il Certificato Europeo di filiazione.
Io non mi meraviglio, ma mi indigno.
E l’indignazione dovrebbe interessare tutti, anche le coppie etero. Perché la negazione di un diritto per un bambino di coppie omogenitoriali, che è uguale al figlio di coppie etero, è il fallimento della società cosiddetta civile, e l’Europa questo governo se la fa piacere a giorni alterni, in base ai propri interessi e alle proprie vedute. E questo si sapeva. Si sapeva che avrebbero messo le mani sui diritti civili. Eppure li abbiamo lasciati fare. Li stiamo lasciando fare.

Quindi in Europa i bambini nati in famiglie omogenitoriali in qualsiasi stato europeo sarebbero automaticamente riconosciuti come figli di entrambi i genitori anche nel proprio paese grazie al certificato.

In Italia no. In Italia serve il riconoscimenti dei figli da parte del genitore non biologico attraverso un percorso di adozione. E le trascrizioni di alcuni sindaci meritevoli di aver effettuato quella scelta, è stata bloccata da una sentenza della cassazione.

Per questo governo, sarebbe una intromissione in questioni di competenza dell’Italia, temendo che approvare la proposta implicherebbe legittimare forme di procreazione vietate in Italia.
Lo sappiamo, non vogliono la maternità surrogata, non vogliono la gestazione per altri. Ma che fastidio da, riconoscere ad un bambino un certificato che tuteli il suo diritto di essere figlio di entrambi i suoi genitori? Parliamo di bambini già nati, che già che vivono in maniera serena e stabile presso la loro famiglia formata da due genitori. 

La risoluzione approvata in Senato dice che questo certificato violerebbe il principio di sussidiarietà, sarebbe un’intromissione delle istituzioni europee in questioni di competenza dell’Italia, e c’è nella maggioranza il timore che approvare la proposta di regolamento implicherebbe legittimare forme di procreazione che sono vietate in Italia, come la gestazione per altri, anche se in fase di audizione ci sono stati interventi come quello del Garante per l’Infanzia che avrebbero escluso conseguenze di questo genere.

I diritti dei minori non si toccano.

A molte famiglie così viene tolta la possibilità di essere legittimate giuridicamente, considerando anche quanto lungo e costoso sia il percorso di adozione e al contempo i minori sono deficitari di diritti che spettano loro.

La questione è molto importante. Perché questi bambini vedono riconosciuto solo uno dei due genitori sui documenti e questo implica delle rinunce in questioni amministrative, di eredità ed anche dal punto di vista della salute ed in molti altri campi.
Ma chi potrà impedirlo?
Bisogna stare all’erta.

Inoltre se si crea un precedente così grave che sarà sempre più difficile andare a Bruxelles a chiedere aperture su altre vicende.

 

 

Una grande sottovalutazione del rischio?
A poche ora dall’ennesima sciagura nelle nostre acque territoriali incominciano ad emergere le problematiche, oggettive, che riguardano il salvataggio. Perché o si è sottovalutato il rischio, o non si sono volute impiegare risorse o non si sono voluti inviare i soccorsi.
Ma andiamo per ordine.
La sottovalutazione del rischio è molto probabile, considerato che l’avvistamento da parte di Frontex, è avvenuto quando l’imbarcazione era già discretamente vicina alla costa, pertanto si sarà pensato che ce l’avrebbero comunque potuta fare (da soli) e che, al massimo, si sarebbero “bagnati un po’”. Perché comunque la vita degli altri, chissà perché, vale sempre meno della propria o dei propri cari.
Ma la verità è che non solo i soccorsi in mare anche con quelle condizioni sono previste dal SAR (guardia costiera e vigili del fuoco) e basta farsi un giro in rete per scoprire quanti e quali siano stati i recuperi in mare, ma che l’addestramento degli uomini che fanno parte di questa categoria di soccorsi è mirato proprio al salvataggio estremo. È vero che le condizione del mare non prevedevano un avvicinamento con altra imbarcazione ma esistono, ad esempio, elicotteri adatti allo scopo e soccorritori capaci di calarsi tra le onde alte anche svariati metri e di recuperare i dispersi in mare, persino con “raffiche di vento oltre i 100 km/h”. Difficile quindi ma non impossibile e dunque, anche se si sarebbero dovuti tirare su uno alla volta, sarebbe stato comunque un tentativo che andava fatto; anche se fosse stato possibile salvarne uno solo, sarebbe stata cosa buona e giusta. Perché la vita è sacra, sempre. La vita di tutti, è sacra, sempre.
E allora sorge un altro dubbio, quello che si insinua non appena si allenta la molla del dispiacere per quelle vite disperse che presto saranno dimenticate, come tutte le altre che si sono susseguite nel corso degli anni.
Che forse non si siano volute impiegare risorse (leggasi soldi) per salvare migranti che vengono qui a “rubarci sempre qualcosa”?
Il dubbio mi sembra sacrosanto e a quanto pare non sono la sola alla quale è sorto.
Anzi, c’è chi – specializzato nel settore – giura che quel soccorso si sarebbe potuto fare.
E la cosa che più sconvolge è la risposta di Piantedosi, la risposta di questo governo che come sempre minaccia provvedimenti, perché “mettere a tacere”, togliere la parola, zittire, è ciò che riesce loro meglio.
Ieri a La 7 il medico ed ex dirigente della Polizia di Stato Orlando Amodeo, ha dichiarato che ci sono imbarcazioni capaci di affrontare il mare anche in condizioni estreme e che lui stesso vi è salito di sopra per fare dei salvataggi.
E di tutta risposta il Viminale ha minacciato querela per difendere “l’onorabilità del Governo”.
Perché minacciare sempre, signor ministro? Non fate altro da giorni a questa parte.
Perché signor ministro Piantedosi non smentisce quelle parole anziché minacciare sempre?
Forse perché smentire sarebbe pressoché impossibile?
Forse perché bisognerebbe ammettere una superficialità o peggio ancora un dolo?
I soccorritori sono formati per questo genere di operazioni che se non via mare, possono farlo via aria.
E questo non lo dico io, ma le immagini facilmente reperibile dove si vedono quegli uomini di cui lei parla, sfidare con competenza e lucidità le avversità del mare, traendo in salvo i pericolanti.
Però bisogna prima di tutto volerlo.
Voi, lo volete, signor ministro?
O forse pensate solo che il problema si risolve non facendoli partire?
Ma lei sa, si è mai soffermato a pensare da cosa scappa chi sapendo di poter morire mette su una barca un neonato, perché non ha davvero più nulla da perdere? C’è tanto, troppo, dietro queste morti.
Esiste un problema più grande, ma il nostro è quello impedire che corpi senza vita, si arenino sulle nostre spiagge che si colorano di morte.
Attendo di vedere le immagini che saranno rese pubbliche questa sera durante la trasmissione di Rai 3 “Il Cavallo e La torre,” quando il collega Marco Da Milano mostrerà un loro reportage realizzato davanti alle coste libiche, proprio per riprendere le parole di Piantedosi: “non devono partire”.
Per inciso non è che se muoiono davanti alle coste di altri stati e non davanti alle nostre, noi siamo meno responsabili.