Seconda serata con qualche dettaglio degno di nota, ma anche tante “note stonate”. Si ostinano a far cantare la Hunziker che proprio non ce la fa, mentre Baglioni si autocelebra, mettendo i suoi pezzi – che per l’amor del cielo sono un pezzo importante della musica italiana – in ogni blocco di trasmissione.
Serata di ingresso per 4 nuove proposte, ma non sono certo i tempi della Pausini, di Zucchero, di Vasco o di Giorgia e tutto scorre via in poco più di mezz’ora, tra il “congiuntivo” di Lorenzo Baglioni (beato lui che ci scherza su), il “come stai” di Giulia Casieri, lo “stiamo tutti bene” di Mirkoeilcane e “gli specchi rotti” di Alice Caioli.
Tornano in gara sullo storico palco dell’Ariston 10 big, e dal secondo ascolto incominciano a delinearsi quelle che con molta probabilità saranno i pezzi che si guadagneranno il podio. Ancora degno di nota il pezzo scritto da Lucio Dalla “Almeno pensami” cantata magistralmente da Ron, che come sempre intonatissimo e appassionato, sembra possedere le dinamiche giuste per far rivivere Dalla in quel pezzo. Penso che andrà a lui il premio della sala stampa.
Anche la Vanoni, sul palco insieme a Bungaro e Pacifico e la loro “Imparare ad amarsi” rappresenta un ottimo momento di musica e di interpretazione. Decibel con “Lettera dal duca” (omaggio a David Bowie), anche il pole position, e tra le meno veterane Annalisa con la sua ballad “Il mondo prima di te” resta la più credibile, almeno in fatto di intonazione.
E poi ancora in gara ieri sera, Diodato con Roy Paci, Red Canzian, Renzo Rubino, le Vibrazioni e la Zilli che cerca in qualche modo di uscire dal suo cliché.
La serata si dipana tra cantanti in gara ed ospiti. Piacciono i tre ragazzi de “Il volo” ai quali il pubblico dell’Ariston riserva una standing ovation e con i quali Baglioni fa un omaggio a Sergio Endrigo in inizio di puntata, ma la star, la stella indiscussa della seconda serata resta Sting, che riesce a mettere in ombra tutto il resto. Canta – in italiano per omaggiare il Festival – “mad about you“, riadattata da Zucchero e che diventa “muoio per te“. Quella che a mio avviso è la peggior regia degli ultimi 15 anni di Festival di Sanremo, si riscatta proprio mentre canta la star inglese. Personalità da vendere, capacità espressiva, intonazione e fascino tutto insieme che si consuma sul palco dell’Ariston di Sanremo e poi quella performance insieme a Shaggy, alla fine della quale Sting scappa quasi via. Tra le due esibizioni qualche battuta con Favino, che ieri sera si è lanciato anche nel ballo.
Non c’è Fiorello, ma arriva Pippo Baudo, che racconta per sommi capi la sua esperienza sanremese; 13 edizioni, tanti talenti scoperti, tanti ospiti stranieri invitati ed incontrati, da Armstrong a Whitney Huston, a Springsteen. A Baglioni invece come ospite tocca Biagio Antonacci, che non dispiace se non fosse che si affossa da solo, provando a cantare con Baglioni – che continua ad autocelebrarsi – “mille giorni di te e di me”.
Sul finale – siamo quasi in ore piccole – un gradevole Roberto Vecchioni che racconta come nacque la canzone Samarcanda e cosa narra e con lui sul palco, un bravissimo (come sempre) Lucio Fabbri al violino.
Insomma…alla fine è sempre così; le trasmissioni collaudate nel tempo, finiscono per diventare un grande calderone, dal quale ognuno tira fuori quel sente più affine, il testo più sentito e quella musica che – come spesso accade – si insinua e finisce per ricordarti qualcosa che viene da lontano, come una nostalgia.
Puntuale come ogni festività che si rispetti, è arrivato Sanremo e come tutti gli anni ha portato con se le polemiche che alla fine, sono solo della prima serata; poi tutto sembra viaggiare su binari che si riscaldano e portano in circolo la musica che – piaccia o no – accompagna per un bel po’ di tempo, riempie le radio, e quando è possibile diventa il tormentone dell’estate.
È inutile dire che non è più il Festival di Luigi Tenco, di Claudio Villa, di Bindi e di Lauzi, come non é più quel Sanremo che aveva il ritmo e la leggiadria di chi quel palco sapeva come calcarlo, di chi di mestiere faceva il presentatore e che ha per molto tempo sostenuto il binomio “Sanremo-Pippo Baudo”.
Perché lui, con a fianco mannequin o soubrette, ha sempre saputo come portare avanti per sere e sere uno degli spettacoli più antichi della televisione italiana ed anche tra i più conosciuti fuori dai confini. Canzoni, ospiti stranieri, qualche gag e poi la musica protagonista.
Che però piaccia o meno, ieri sera la prima puntata del festival ha tenuto incollati oltre 11 milioni di telespettatori, che nell’era del digitale ha poi utilizzato i social network per dire la propria con il famoso hashtag.
Nel tempo le cose sono cambiate e alla conduzione oggi c’è un Claudio Baglioni rimesso a nuovo per l’occasione, impacciato e “fuori tempo”, che sembrava più in crisi per il papillon che non stava al suo posto, che per l’impaccio che ha mostrato. La Hunziker, che qualcuno pensa adatta a tutto, è sembrata forzata nelle battute, oltre che stonata ed improponibile come cantante. La triade alla conduzione si chiude con Pierfrancesco Favino, che impeccabile nel suo smoking e da bravo attore che piace a tutti, ha provato a fare del suo meglio, ma forse ci vuole ancora un po’ per padroneggiare sul famoso palco dell’Ariston che per quanto facile, resta una istituzione con tutto quello che si consuma su di esso.
La gaffe della Hunziker che sottolinea come “i pezzi a Sanremo siano tutti inediti”, non passa inosservato tanto quando i suoi begli abiti.
Per riempire un tempo morto le scappa anche un “ti amo, amore” diretto al marito in platea (ma a noi poco importa).
Sul palco, imprevista anche l’irruzione di un disturbatore ma a quello, gli spettatori di Sanremo sono abituati, considerato che ai tempi di Baudo, anche quel momento faceva audience.
Mattatore della serata Fiorello, show man a tutto tondo, versatile e simpatico come sempre, ironico al punto giusto, oltre che capace di ridare un ritmo alla trasmissione che alla fine è fatta di tante cose oltre alla musica, come ogni show che si rispetti.
La musica a Sanremo ha un grande privilegio, quello di essere suonata dai grandi maestri dell’Orchestra, che probabilmente non riceveranno in compenso cifre astronomiche come quelle di presentatori ed ospiti vari, ma sono l’emblema di come l’arte sia un dato oggettivo e al contempo appagante.
Ottima orchestra – sempre protagonista – ed anche ottimi direttori, come Antonio Fresa che quest’anno ha diretto l’orchestra sul pezzo cantato dalla Vanoni insieme a Bungaro e Pacifico, entrambi autori del pezzo “imparare ad amarsi”.
Molti cantautori sul palco di Sanremo quest’anno; Gazzè (discreto), Ron con “almeno pensami”, un pezzo delicato e appagante scritto da Lucio Dalla, e poi ancora Barbarossa, Avitabile con Servillo.
Mi è sembrato già tutto sentito nel pezzo di Elio e le Storie Tese, non mi sembra riuscito il duetto Meta-Moro e boccio Noemi e la Zilli che a parte il look improponibile, abbandona il suo stile, il suo sound e si dà alla canzone melodica che le toglie ogni caratteristica costruita nel tempo.
Le canzoni – tranne qualche raro caso – come sempre meritano un ascolto più approfondito, ed abbiamo ancora diverse serate per allenare l’orecchio e farci un’idea sui probabili vincitori.
Non mi sembra particolarmente azzeccata la giuria di qualità che influenzerà il verdetto finale, ma ormai ci hanno abituati ad accontentarci, e allora lasceremo che Scanzi, Allevi e Muccino dicano la loro.
Mi stringo nelle spalle e penso che forse a questo giro farà meglio il televoto.
Non è un film realizzato solo per celebrare la regia di chi i film li sa fare, e pure bene e neanche per mostrare l’immensa bravura di due attori come Maryl Streep e Tom Hanks che di riconoscimenti prestigiosi ne hanno vinti a vagonate. E’un film girato con la voglia e la fierezza di raccontare il ruolo del giornalismo nella storia, oltre a mostrare come si affrontano i poteri forti, come si resiste alla tentazione di “non rischiare”.
“La stampa è al servizio di chi è governato, non di chi governa“. E’questa la frase cardine di un film forte, che pianta le sue fondamenta nella difficoltà delle scelte, e punta l’attenzione su quanto quelle scelte pesino sul lavoro, in termini di credibilità e di correttezza.
È tutto questo mentre amicizie strette, sodalizi, interessi più o meno spiccati, vengono utilizzati come sottili ricatti affinché alcune verità non vengano rivelate. Poteri forti da difendere, così come sono da difendere gli investitori e poi il popolo americano, il lettore, l’unico al quale la stampa dovrebbe sempre dare conto.
Seppur i fatti raccontati siano noti a tutti, il film di Spielberg, con il suo ritmo incessante e i dettagli storici, tiene lo spettatore in uno stato di eccitazione e di attesa.
Il film narra di una donna, titolare del Washington Post, che tira fuori tutto il coraggio e la convinzione che ha per ignorare la minaccia del governo americano guidato da Nixon – siamo nel 1971 – decidendo di pubblicare un articolo frutto di un’inchiesta stracolma di dettagli circa la guerra in Vientam, dettagli che spiegavano come mentre si continuavano a mandare a morire migliaia di soldati pur sapendo che non si sarebbe mai potuto vincere, i presidenti degli Stati Uniti si continuavano a passare il testimone di quelle scelte scellerate, solo per non ammettere la verità davanti al mondo intero.
Il film narra di come si fa il giornalismo d’azione, di come si consumano fumo ed ore in una redazione ai tempi nei quali le informazioni dovevi sapere dove trovarle e come. Il salto nel passato Steven Spielberg lo sa fare, portandoti dentro a quel luogo fatto di gente che lavora alacremente, mentre prepara le macchine per stampare a ciclostile, e poi ancora i camion che partono all’alba e buttano i giornali per strada mentre sono ancora in corsa. Racconta di un reporter che raccoglie la verità sul posto e che decide di trafugare i documenti Top Secret per poi passarli al New York Time che però dopo aver pubblicato, viene fermato dalla Casa Bianca. Sarà allora il Washington Post a dover continuare la battaglia affinché il popolo americano sappia.
Il sodalizio e il coraggio di colei che detiene la proprietà del giornale, ma che per una vita intera ha dovuto piegarsi al fatto di essere una donna, di essere spesso invisibile rispetto ad alcuni meccanismi, che sceglie però di mettere a repentaglio anche la sua amicizia con il Primo Ministro – colui che quelle indagini le aveva richieste – pur di dare un senso al suo ruolo e al ruolo della stampa. Il suo gesto ispira le altre testate che sull’esempio del Washington Post decidono anch’esse di pubblicare parti di quel fascicolo fino ad allora secretato, innescando a catena la forza della stampa libera, quella che non si lascia intimidire, che va fino in fondo, con tutti i rischi del caso. E’ un film che tutti i giornalisti dovrebbero vedere perché descrive il coraggio di chi deve decidere, della passione che si deve necessariamente mettere in questo lavoro, di come si lavora in squadra, di come si reagisce davanti a delle scelte da prendere con lucidità e mettendo da parte ogni interesse, di come si tiene testa a chi è più forte e a chi quella forza sa sempre come usarla.
Molto bello il ruolo di Tom Hanks, che interpreta il direttore Ben Bradlee, che vive la sua vita in attesa che arrivi il momento propizio affinché il giornale possa diventare un quotidiano di grido; entusiasmante quel modo di convincere, di motivare, di non mollare. Appassionato il rapporto con Katharine Graham (Maryl Streep) editore, donna di grande fascino, che si trova a dover gestire il quotidiano alla morte di suo marito, morto suicida, che aveva ricevuto l’incarico di dirigere il giornale dal padre di Katharine. Degna di nota anche l’interpretazione di Bob Odenkirk, che nella pellicola fa Ben Bagdikian che insegue il suo vecchio amico Dan fino in una sperduta camera di un Motel per prendere in consegna i fascicoli incriminati e che, quella sua voglia di poter essere parte di una piccola rivoluzione la vive quando, all’indomani dell’uscita dell’articolo sul W.P. scopre che tutti gli altri giornali hanno seguito quell’esempio.
Un film dinamico, con molti primi piani, con la cinepresa che segue i personaggi nei loro passi, non sfrutta il campo controcampo nei dialoghi, ma si mette come terzo interlocutore, a fianco e poi gira intorno per scorgere ogni dettaglio di quello scambio di parole, di sguardi e di emozioni. E sono quelle che pulsano nel film e che dalla pellicola vengono fuori travolgenti. Emozioni come amore per un lavoro, passione per quel che si deve fare e coraggio, quello che spesso cambia per sempre il corso della storia.
Vincente la trovata di Spielberg che decide di utilizzare sul finale la vera voce di Nixon mentre si ribellava e sputava odio verso la stampa che raccontava i suoi misfatti.
Un film fin troppo attuale, che ricorda qualcuno che ancora oggi si comporta nella medesima maniera, ma resta da chiedersi se il coraggio della stampa di allora, sarebbe replicabile oggi.
Il film c’ha provato a porre questo interrogativo, chissà se gli avvenimenti e le scelte che verranno, sapranno regalare questa risposta, senza deludere.
Continua la raccolta delle testimonianze nell’ambito della strage avvenuta a San Lorenzo del Vallo il 30 ottobre del 2016
In aula oggi per il processo che vede imputato Luigi Galizia come esecutore materiale del duplice omicidio di Edda Costabile ed Ida Maria Attanasio, i tre uomini della squadra mobile – il commissario Falcone, il sovrintendente capo Palermo, l’ispettore Funaro – e il dottor Barbaro, il perito incaricato di effettuare l’esame autoptico sulle vittime nonché numerose perizie su luoghi, auto, indumenti.
I tre uomini della mobile, intervennero quando fu individuata grazie al sistema Gps l’auto del Galizia, oltre ad occuparsi della consegna della stessa ai familiari di Luigi Galizia – padre Domenico Galizia, Salvatore Galizia il fratello e l’omonimo zio – hanno spiegato come si fossero mossi nel momento del ritrovamento dell’auto, di come la stessa mostrasse chiavi inserite nel quadro e finestrino lato giuda completamente abbassato e poi di come siano riusciti furtivamente a fotografare gli indumenti presenti sul sedile posteriore dell’auto.
Le domande del Pm e della difesa miravano a capire come mai nelle foto realizzate dai poliziotti, l’immagine delle scarpe nuove che il padre di Luigi aveva rivelato appartenere a suo figlio, fossero state ritratte in diverse posizioni.
Si è ritenuto dunque necessario chiarire se le stesse – come anche il giubbino e il cappellino con visiera – anch’essi presenti all’interno dell’auto – fossero stati spostati e da chi.
Concordi i poliziotti nel dichiarare che gli indumenti erano stati maneggiati e spostati dal Domenico Galizia, padre di Luigi, mentre spiegava che quelle scarpe erano state acquistate da poco e mani messe.
Le domande del Pm hanno portato i teste a rispondere circa il periodo in cui gli stessi avessero sparato al poligono in sede di esercitazione.
Tutti hanno risposto che tali esercitazioni non si svolgono tanto spesso, circa una volta ogni 3 mesi e che sicuramente nessuno di loro aveva sparato a ridosso di quel 31 ottobre del 2016, data in cui i poliziotti sono intervenuti in quella piazza di Spezzano Albanese dove era stata intercettata l’auto del Galizia.
Si capisce poco dopo il perché di quella domanda, considerato che è durante la testimonianza del dott Barbaro, medico legale e perito della procura, che vien fuori che in una delle perizie svolte, ossia quelle all’interno dell’Alfa 156 di proprietà di Luigi Galizia, erano state rinvenute delle particelle di materiale che compongono la polvere da sparo. Il perito parlava proprio di antimonio, stagno, bario e piombo. Anche dalla perizia svolta presso la Questura di Cosenza, mirata ad analizzare del materiale balistico, il perito Barbaro ha potuto verificare che le cartucce sottoposte ad esame, erano identiche a quelle esplose dall’arma con la quale era stato commesso il duplice omicidio, ossia una Beretta calibro 9 corto.
Il materiale balistico era tra quello sequestrato nei locali di Rende in merito all’inchiesta della Dda.
Ma lo stesso perito ha tenuto a specificare che quel genere di proiettile è molto comune, e attualmente utilizzato anche dalla Guardia di Finanza.
Le perizie mirate a rintracciare tracce di polvere da sparo svolte sulle altre due autovetture di proprietà del padre di Luigi Galizia e di suo fratello Salvatore, ossia una Grande Punto e una Citroen, avevano dato esito negativo.
Il perito Barbaro ha poi illustratori in maniera approfondita le dinamiche della perizia svolta sul luogo del duplice omicidio (il cimitero di San Lorenzo del Vallo) oltre che in sede di esame autoptico, e poi, rispondendo al Pm Giuliana Rana, ha delucidato circa i 10 bossoli rinvenuti, di cui 2 inesplosi, 4 diretti all’Attanasio e i restanti verso la Costabile.
Molti dei dettagli del Dott. Barbaro erano già stati resocontati in aula dirante la prima udienza, dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Cosenza, che avevano effettuato i rilievi nell’immediatezza del crimine.
L’imputato, Luigi Galizia, anche quest’oggi in aula.
Le aspettative erano molto alte; perché quando si parla, si scrive, si sceneggia circa la vita di colui che da sempre è considerato il più grande cantautore italiano – quello più amato ma anche a tratti discusso per alcune sue sfaccettature caratteriali, di personalità e di scelte di vita che hanno influenzato non poco il suo modo di fare musica – viene da domandarsi se ci si stupirà circa qualche dettaglio, o se la conoscenza che in molti ci si è costruiti nel tempo circa Fabrizio De Andrè, reggerà rispetto a quello che spesso i film cercano di raccontare.
E’ una discreta fiction, ed in realtà è quella la destinazione che avrà in Tv sulla Rai divisa in due puntate, i prossimi 14 e 15 febbraio. Due giorni nei cinema di tutta Italia, con i suoi pesanti ma non troppo 200 minuti, “Fabrizio De Andrè – il principe libero” di Luca Fiacchini, resta un ottimo motivo per recuperare emozioni che vengono da lontano, rispolverare le motivazioni per le quali si è amato e si continua ad amare il grande cantautore e godere di alcuni momenti di commozione. Perché c’è da dare atto al regista, di essere riuscito a spingere per bene, su alcuni aspetti prettamente emotivi della vita del cantautore inquieto, che tanto aveva da dire per quanto aveva vissuto, al netto di ciò che riuscì tardi a far emergere dalle sue volontà, dai suoi tormenti, dai suoi bisogni.
Le attrici femminili sono Elena Radonicich e Valentina Bellè che interpretano i grandi amori del cantautore genovese, rispettivamente la moglie, Enrica Rignon, detta Puny, e Dori Ghezzi, la donna che con lui ha condivise anche i 4 mesi di prigionia durante il sequestro del ’79, in Sardegna.
Mi è sembrato che il film – a sfondo biografico, che mirava a raccontare abbastanza fedelmente la vita e le vicissitudini di Fabrizio De Andrè – non volesse scontentare nessuno, né Chiesa, né ambienti politici, né chi lo ha amato solo per alcune delle sue tante, ma proprio tante caratteristiche distintive non solo di un pensiero, ma anche di quell’epoca che il cantautore genovese vivendo, ha attraversato. E’ un prodotto che va bene per tutti, per chi è appassionato, per chi lo conosce per i grandi successi ma che magari non si è mai adentrato più di tanto nella sua vita, per chi gli riconosce una bravura ed una sorta di vena profetica ma non si è mai confrontato con quella potente carica comunicativa che Faber ha avuto fino all’ultimo giorno di vita.
Ho pensato a quanti video di repertorio e a quanto materiale abbia dovuto analizzare e studiare Luca Marinelli ( che per qualche tratto somatico un po’ ricorda De Andrè) prima di cimentarsi in quel ruolo così difficile, riuscendo in diversi passaggi del film ad incarnare non solo le movenze e le espressioni del cantautore, ma anche alcune paure, le angosce, i tormenti, le prese di posizione, il coraggio. Fabrizio De Andrè divenne Faber quando il suo amico fraterno, Paolo Villaggio gli diede quel soprannome ispirandosi alle mille sfumature dei colori da disegno. La figura di Villaggio è molto sentita nel film, così come il legale tra i due amici che fu un filo conduttore e un punto di riferimento per quel giovane uomo che mentre approcciava all’età adulta e alle scelte, aveva bisogno costantemente di chi gli ricordasse chi fosse, che lo strappasse alle angosce che derivavano da quel mix di timidezza e frustrazione, di voglia e ritrosia che spesso lo tormentavano; ed era proprio Paolo a riuscire a ripristinare il giusto equilibrio lì dove spesso fallivano gli stessi familiari di De Andrè.
Segnati a fuoco nel film, che scandiscono proprio il ritmo, i tre argomenti fondamentali dell’esistenza di De Andrè: Il rapporto con suo padre, che riesce ad evolversi nel corso del tempo fino a diventare un legame di grande tenerezza, l’amore straordinario, unico e totalizzante per Dori Ghezzi e quella voglia di non lasciarsi ingabbiare dagli schemi, dagli obblighi e dalle credenze.
Quel violino proprio non lo voleva suonare perché gli faceva male al mento e così suo padre gli regala una chitarra. “L’investimento migliore che ho fatto” – dice in una battuta Giuseppe De Andrè interpretato da uno dei migliori attori del panorama italiano che è Ennio Fantastichini, impeccabile nei cambi di registro, nella espressività del vissuto di chi vorrebbe per il figlio una vita più sicura, magari vissuta nella sua ombra, piuttosto che una vita improvvisata, incerta, come spesso è quella dei musicisti.
Era un irrequieto, Fabrizio e in questo dal film viene fuori. Da adolescente già aveva guardato da vicino il mondo della prostituzione e quel mondo gli rimarrà sempre caro tanto che attraverso la sua musica gli ridonò una dignità sgualcita o forse semplicemente perduta. Figlio, fratello, amico, marito, padre, amante…i tanti ruoli di quell’uomo che sapeva bene quanto spiccato fosse il suo carisma, quell’appeal che lo rendeva irresistibile non solo con le donne ma con tutti coloro che entravano nel suo mondo, agiato, fatto di musica e di quella libertà che a volte sembrava perdere colpi perché nutrita di responsabilità, di incertezze e di momenti di rinuncia. Scriveva canzoni, De Andrè, era quello che sapeva fare e qualche volta ha dovuto piegarsi al meccanismo della censura, ha dovuto cambiare parole, affinché la sua musica potesse arrivare e non restare chiusa dietro la sbarra di una stazione nella quale passa il treno che spetta ai grandi poeti.
Cantante, cantastorie, poeta tutto insieme, mentre viveva una vita spesso in luce, ma che quando scendeva quel particolare buio, sembrava inghiottirlo e l’alcool e il fumo sono stati una sorta di rifugio silenzioso e fedele. Una vita in cui quel successo che si concretizzò, forse non lo aveva mai veramente desiderato, ma che diventò quasi inevitabile, perché quello è il destino che spetta a coloro che nascono talenti, fuoriclasse e a tratti profeti, che raccontano quella vita che in molti sfiorano e fanno finta di non vedere, che mettono a tacere per paura e alla quale De Andrè ha dato un senso di eterno.
Canta Marinelli nel film e lo fa anche abbastanza bene, ma nei concerti che vengono raccontati, la voce che fa venire i brividi e fa affacciare le lacrime agli occhi è quella del grande cantautore.
Il film parte dal rapimento e poi fa un tuffo indietro nel tempo, torna all’adolescenza e poi da lì tutta la vita – o quasi – del cantautore. Non si è dato a mio avviso nel film, la giusta rilevanza ad alcune situazioni, ad alcune idee, ad alcune prese di posizione che De Andrè ha invece invocato per tutta la sua vita. Un breve accenno all’amicizia con Tenco, la cui morte destabilizzò tanto Fabrizio; pochissimo vien detto sul De Andrè anarchico, sulla sua idea di Cristo, o sull’influenza che il cantautore e poeta francese George Brassens ebbe sul suo stile e sulle sue idee, e che Faber stesso definì il suo “maître à penser”. Un De Andrè più tenero, quello che vien fuori, un uomo che ama la natura, che i cambiamenti li imbocca, che si innamora perdutamente. Un De Andrè al quale si è quasi voluto cancellare una buona dose di quei peccati che a lui tanto piacevano, perché erano parte del suo modo di essere.
Bello il dettaglio di quando De Andrè scopre il rock di Elvis Presley rubando un disco, lo stesso che regalerà a Tenco, per farsi perdonare di aver usato le parole di “Quando”, spacciandole per sue.
Come non notare però quanto si sia sviato sulla reazione di De Andrè davanti alla interpretazione di Mina di “La canzone di Marinella”, che poi fu il punto di snodo della sua carriera, ma che a Fabrizio non piacque affatto.
Mi sarei aspettata che nel repertorio che viene affidato al De Andrè del film ci fossero riferimenti a quello che lo stesso De Andrè definì il suo miglior lavoro ossia “La buona novella“, mi serei aspettata “Testamento di Tito”, o “Il testamento” scritta per esorcizzare quella morte che tanto gli faceva paura, e poi per innalzare l’amore verso quell’unica donna alla quale alla fine interessa davvero della morte di quell’uomo; il tutto con quell’ironia che faceva il paio con quella capacità di evidenziare gli aspetti contraddittori della realtà spogliandola completamente dal perbenismo e dall’ipocrisia.
Ma va bene così…va bene “Il pescatore”, va bene “La canzone di Marinella”, “La canzone dell’amore perduto”, “canzone del Maggio”, va benissimo “L’hotel Supramonte”…e poi quelle immagini di repertorio sul finale tratto dall’ultimo concerto, con tutto quello che ha scatenato in termini di ricordi che sono difficili sicuramente da sceneggiare, perché sono la parte di Fabrizio De Andrè che solo ognuno di noi potrebbe intimamente scrivere.
Giovane ma non troppo, carisma da vendere, con una vita spesa per amare, suonare, incoraggiare e onorare il jazz. Qualche rinuncia, come accade a tutti, ma un eterno entusiasmo verso quello che da sempre ama fare. Incontro Massimo Nunzi – musicista, compositore, arrangiatore, musicologo, direttore d’orchestra – nel cuore di Roma, in mezzo al caos che poi alle mie orecchie scompare quando lui inizia a parlare, a rispondere alle mie domande, a raccontare. Perché i suoi racconti non sono solo il marchio distintivo della sua straordinaria cultura musicale, ma anche di quello che ha fatto nel corso degli anni, raggiungendo traguardi prestigiosi, ma mantenendo intatta la sua voglia di libertà e quella leggerezza che appartiene a chi conosce bene le proprie qualità, eppure lascia che siano gli altri a riconoscerle, mentre accarezza sogni in divenire e quella vita che ancora gli riserverà tante sorprese. Non è un’intervista per testare la sua cultura musicale, né per farmi dire tutte le cose che ha fatto, che poi sono note. Pezzi di vita, progetti e qualche aneddoto, in questa lunga intervista che però divorerete, appassionandovi, proprio come è accaduto a me.
SS: Gradisci più essere riconosciuto come un bravo musicista o un bravo direttore d’orchestra?
MN: Io sono un musicista, che fa con la musica quello che più ama fare in piena libertà e senza schemi. Ho composto per il cinema, ho fatto il direttore d’orchestra in Italiae in Francia, ma sono un musicista e sono orgoglioso di esserlo.
SS: Come e quando nasce il tuo rapporto con la musica?
MN: Mio nonno mi diede una trombetta che girava per casa, ho iniziato così. Poi ho fatto una breve esperienza tragica in conservatorio, perché il mio maestro di tromba non amava Armstrong, così durò poco, perché io sapevo che volevo fare il jazz, quella era la musica che mi interessava, che era libera e che aderiva meglio a quello che io sono come natura…uno spirito libero, fondamentalmente.
SS: Com’è nata l’idea dell’Orchestra Operaia?
MN: L’Orchestra Operaia è stato un gioco che ho creato per dare l’opportunità ai giovani musicisti di “pilotare una Ferrari”, che è questa orchestra, formata da supermusicisti (la metà di loro sta a Sanremo, adesso) tecnicamente molto bravi, grandi lettori, leggono la musica benissimo e subito. Poi l’ho messa su l’orchestra, anche per creare nuovi repertori, e per dare una opportunità a questi ragazzi, che fanno composizione e direzione d’orchestra ma che non hanno la possibilità di avere un’orchestra di serie A. Devo dire che l’Orchestra Operaia in questo momento sta soffrendo parecchio perché in Italia non c’è una tradizione di orchestre e quindi appena tu dici che hai un’orchestra, tutti si terrorizzano. E’ difficile farla suonare in giro, perché sono 12 elementi. Questa cosa in Francia non esiste, perché lì c’è un’associazione che si chiama “grandi formati – grands formats” che occupa proprio uno spazio importante nella programmazione dei Festival e impone di mettervi all’interno anche musica orchestrale, che è fondamentale e soprattutto dà molto lavoro ai giovani musicisti.
SS: Quindi c’è qualcosa che in Italia manca, sostanzialmente
MN: In Italia manca tutto, non qualcosa; manca fondamentalmente di un concetto. In una nazione come la nostra, che possiede il 75 % delle opere d’arte, ci sono moltissimi luoghi in tutte le regioni che sono abbandonati. Potrebbero essere rivalutati e con una buona direzione artistica, portati anche a esprimere tendenze nuove musicali, oltre che quelle tradizionali. Si potrebbe lavorare su tanti livelli diversi, ed invece ci sono luoghi abbandonati per davvero a loro stessi. Si potrebbe fare una commissione su come usare l’enorme quantità di gente che esce dai conservatori e che a mio avviso è destinata alla povertà, perché uno che si diploma in jazz, oggi, se non ha l’orchestra che è il primo viatico per avere una visibilità nazionale ed internazionale, non può fare niente. Lo dico perché io da ragazzo ho militato in varie orchestre e da lì che sono diventato un trombettista professionista chiamato da De Piscopo, Chet Baker, Dizzy Gillespie, Umberto Bindi, Domenico Modugno, Dave Liebman, Don Cherry, Daniele Luttazzi, Corrado Guzzanti, Enrico Rava, con i quali ho suonato e per i quali ho arrangiato e da lì sono nate tutte le cose importanti, che nella mia vita sono arrivate proprio dall’orchestra. Suonavo in orchestra, poi mi alzavo, facevo l’assolo, mi notavano e mi facevano fare anche lo step successivo. Ci sono tanti talenti in giro, come Nicola Tariello, che io amo tantissimo, un trombettista spaziale, che è giovane, non ha la possibilità di far sentire la sua musica, che non è veicolato da una forza maggiore quale può essere l’orchestra di Massimo Nunzi; io sono più conosciuto, lo porto con l’Orchestra Operaia a suonare al Festival jazz di Milano, lo vede un grande musicista locale, lo chiama e lo fa suonare in un altro contesto. L’orchestra non l’abbiamo inventata perché vogliamo mettere in difficoltà i Festival, l’orchestra esiste perché è un sistema per far lavorare i giovani musicisti e farli conoscere.
SS: Perché in Italia abbiamo tanti giovani talenti e non abbiamo nulla da invidiare ad altre parti del mondo
MN: Certo, non abbiamo niente da invidiare a nessuno perché abbiamo probabilmente alcuni strepitosi musicisti. Ma abbiamo anche tantissimi altri musicisti meno strepitosi ma che meritano di fare questo mestiere. Los Angeles per esempio è strapieno di supermusicisti che però poi non fanno i solisti, ma si occupano di musica da film, per esempio, e vivono facendo musica; non sono tutti Miles Davis o Clifford Brown o Max Roach. Joe Lovano, mi viene in mente lui, ha avuto una lunga gavetta, poi è emerso ed è diventanto quello che tutti conosciamo.
SS: E’uscito questo nuovo lavoro discografico “GiocaJAzz” che hai realizzato con i bambini, insegnando loro a giocare un po’ con il jazz. com’è nato questo progetto e come ci sei riuscito? Che esperienza è stata?
MN: E’ una esperienza in continuo sviluppo perché sta crescendo sempre di più, è un’operazione mia creata apposta per dare ai bambini la possibilità di scelta, direi; perché non ascoltano niente di buono attraverso i normali media, e basta sentire le musiche per bambini che vengono realizzate con dei computer orripilanti, con dei suoni agghiaccianti. Ormai è rarissimo che tu senta dei suoni reali in quelle musiche, o che vengano scritte appositamente per i bambini e questa è una cosa diseducativa perché quando vengono ai concerti, si innamorano perdutamente degli strumenti, che sono meravigliosi. E poi le melodie che io ho scritto per Giocajazz sono melodie che richiedono uno sforzo superiore rispetto alla canzoncina lamentosa. Io da piccolo amavo cantare le canzoni dei grandi, perché non riscontravo interesse in quelle per bambini, non erano particolarmente interessanti, figuriamoci oggi. Queste canzoni che ho scritto, tecnicamente attraggono i bambini perché sono musiche che riguardano dinosauri, supereroi, gatti, personaggi di fantasia ma li porto anche ad intonare dei salti più difficili, a lavorare su percorsi musicali meno prevedibili e in qualche modo – essendo io uno che lavora molto sull’intelligenza emotiva – assomiglia al gioco dei bambini, che è spontaneo e spesso anche irrazionale, però apparentemente, perché poi ci sono delle leggi molto forti, come le relazioni che esistono tra i musicisti di jazz. Quando noi suoniamo, lavoriamo molto su un livello intuitivo, che è lo stesso livello del gioco del bambini.
SS: Siamo nell’epoca del digitale, di internet, della possibilità di fare tutto e subito, di arrivare dappertutto, di avere tutto immediatamente fruibile. Qual è a tuo avviso il lato negativo di tutto questo, cos’è che nuoce alla musica?
MN: Io faccio parte, facciamo parte, di una generazione che non ha avuto niente. Io ricordo che il primo disco che mi sono comprato è stato “Europa” di Santana e me lo sarò sentito 12 milioni di volte. All’epoca non c’era niente e in qualche modo quando tu compravi un disco, lo consumavi, ma in tutti i sensi. I miei amici avevano sentito Rimmel 5 milioni di volte, De Gregori, Battisti … i dischi venivano letteralmente consumati. C’era una mia amica che a furia di metter su Battisti aveva distrutto il disco. Poi alla radio non c’erano tantissime cose, bisognava aspettare, cercarsele le canzoni che piacevano; non si poteva registrare moltissimo, quando ero piccolo io. In realtà questa sorta di tsunami di informazioni rischia di avere un effetto negativo, considerato che avere un eccesso di informazione è come non averne affatto, e quindi di base ti trovi a portata di mano qualsiasi cosa. Per me vedere Miles Davis in un video degli anni 60, poteva assomigliare all’esperienza più pazzesca della mia vita. Io ricordo che a Roma venne al Music Inn un signore che portò dei filmini di Monk, di Gillespie degli anni 50 e 60 ed io ricordo che eravamo tutti in estasi. Ora qualunque cosa è raggiungibile e se vuoi studiare il pianoforte con Chick Corea lo puoi fare, o con Herbie Hancock. Ti arriva il tutorial, ti metti lì e studi. Con tutte queste informazioni rischi di non riuscire a focalizzarti su nulla e quindi finisci per accontentarti delle cose più semplici.
SS: Qual è il disco che possiedi al quale tieni di più e qual è il disco che secondo te un appassionato di jazz dovrebbe aver ascoltato almeno una volta nella vita?
MN: Io credo che quello che mi ha cambiato la vita in senso generalesia stato un disco che poi era una collezione, “Armstrong & The Mills Brothers” e in particolare un brano che si chiama “Flat Floot Foogie”; lì ho capito cosa fosse lo swing, ho capito questo movimento diverso, ma che era così vicino al mio battito. Per la musica classica invece, fu un concerto per pianoforte in Fa di Mozart, che mi colpì molto. La bellezza e la semplicità di Mozart mi scioccò, come anche quella di Armstrong. Non ci trovo una grande differenza tra questi artisti e Picasso, Mirò, Michelangelo, Giovanni Pierluigi da Palestrina. Tutti hanno utilizzato quel che facevano per esprimere il loro geniale segno distintivo.
SS: Massimo Nunzi va a vedere i concerti?
MN: Mi sa che sono l’unico musicista che va a vedere i concerti, vado tantissimo perché nella mia carriera ho avuto l’onore di dare il “La”, a tantissimi musicisti (che poi hanno fatto un’ottima carriera), da quando fondai l’orchestra Trombe Rosse nel 1997. Tantissimi musicisti hanno debuttato con quella mia orchestra. Insieme – così come anche con l’Orchestra Operaia – abbiamo fatto molte cose, estremamente prestigiose, che sono state molto importanti per i loro curriculum.
SS: A cosa ti dedichi quando non fai musica?
MN: Di base sono interessato moltissimo a tutte le arti; vado a teatro, vado a vedere il balletto, ho molti amici poeti e scrittori, lavoro con grandi scrittori; sto collaborando adesso proprio con una grandissima poetessa, lei è Doris Kareva, una delle più grandi poetesse del mondo, che è stata candidata al Nobel. Stiamo facendo un lavoro su 4 donne, si chiama “Four voice for a voyager” dedicato ad Ulisse, alle 4 donne che lui incontra durante il suo viaggio e per me, lavorare con la poesia è una cosa straordinaria. Mi piace anche la spiritualità, la meditazione, mangiare bene…mi piacciono le cose belle della vita, insomma.
SS: Da qualche giorno al Macro c’è la mostra dei Pink Floyd. La vedrai? Si, no…perché
Bah, ci andrei, ma…guarda, ti racconto una cosa, una delle gaff più eclatanti della mia vita. Dopo la morte di mio padre, che mi procurò un grande dolore perché morì molto giovane, decisi di partire e di andare nelle isole greche, con lo scopo di arrivare a Lindos dove c’era il padre della mia fidanzata d’allora. Feci tutto questo giro, mantenendomi suonando, visto che ero giovane e potevo farlo. Arrivato a Lindos, sono andato a casa di questo signore simpaticissimo (gli scappa una risata) grande artista tra l’altro, suonava l’ukulele, e passavamo interi pomeriggi in questa bellissima casa a suonare. Un giorno mi dice: “c’è un mio amico qui vicino, un musicista che ti vorrei presentare”. Avevo notato che c’era un po’ di movimento lì. Entriamo da una porta laterale e mi presenta questo signore biondo, simpatico e mi fa: “lui è David”. Insomma siamo stati due ore e mezzo a casa di questo qua ed io insistevo dicendo, “ma perché non ci facciamo una suonata” e lui mi fa “sai, io il jazz non lo suono, faccio cose più di effetti” e allora gli faccio “vabbé fammi dei pedali” e lui “no, no”. Poi ci siamo messi a chiacchierare e tra le varie cose noto questa casa pazzesca che era stata costruita sul modello tipo ziggurat e aveva un tetto bucato. Ma poi alla fine domandai “ma questo chi è?” ed era David Gilmour ma io non lo conoscevo, perché da ragazzino ero andato in fissa con il jazz, non mi ero dedicato a nessun altro genere e manco i miei amici. Avevo un amico psicopatico che sentiva solo musiche estreme, rock satanico (ridiamo). Sono nato con una cultura musicale diversa, e forse mi sono perso anche molto.
SS: Allora andrai a vedere la mostra e magari ti rimetti un po’ in pari (ridiamo)
MN: beh in realtà ho sentito i Pink Floyd dopo e ho scoperto che mi piacciono abbastanza. Certo, posso rispondere a qualunque domanda sul jazz, conosco tutte le formazioni, e so cose che anche alcuni musicisti che le hanno fatte non ricordano più. Mi è capitato di incontrare grandi musicisti che non ricordavano più molto, delle loro lunghe carriere. La mia sete di conoscenza si è saziata di jazz, meno di altro e non me ne dispiace, tutto sommato.
SS: Se ti invitassero a scrivere un’altra colonna sonora per un film?
MN: Mi piacerebbe moltissimo fare un film con i fratelli Coen, così giusto per sognare in grande, ma penso che potrei fare un buon lavoro. La mia capacità di scrittura dipende dalla mia formazione che è stata totalmente diversa da quella di molti miei colleghi. Quando io parlo con Paolo Silvestri o con Roberto Spadoni mi trovo davanti a dei grandi didatti, a persona che hanno fatto un percorso di studi molto seri. Io ho incominciato suonando, e non avendo avuto una guida, ho creato gli elementi che mi servivano sul campo. Io a 25 anni ho diretto l’orchestra della Rai, perché avevo fatto delle orchestrine che erano piaciute molto. All’epoca c’era Paolo Giaccio, che faceva “Mister Fantasy”, faceva delle trasmissioni straordinarie, mi prese sotto la sua ala protettrice e mi disse “devi dirigere l’orchestra della Rai”. Era il massimo, in quel momento per me. Credo che quella sia stata una delle ultime volte, poi l’orchestra si sciolse perché erano tutti anziani. Mi sono dovuto costruire le mie cose da solo, e se sei costretto a fare delle cose per vivere e a fare un lavoro che è una cosa importante, allora ti devi ingegnare. Quando ho scritto per “Sirene“, mi sono ispirato alla “ambient” per quanto riguardava le scene sott’acqua. Devi saper scrivere per sinfonico, in tanti stili diversi. Non ho fatto studi accademici ma mi sono costruito i tools strada facendo. Inventarsi sempre un sistema per risolvere un problema, per passare dall’altra parte.
Un monologo di due ore, ma non solo.
Tanti personaggi per la bravura sfacciata e coerente di Michela Andreozzi.
Si dice essere più difficile far ridere che far commuovere e allora potremmo aggiungere che c’è chi ti fa ridere di gusto e fino alle lacrime, perché gli appartiene una comicità che non solo viaggia di pari passo con il testo, ma sa anche come incarnare ogni sentimento che quel preciso personaggio prova, con tutte le sue manie, con le contraddizioni, con le riflessioni ancorate ad una realtà che è fin troppo sfacciata, a volte.
Michela Andreozzi mostra quelle che sono le capacità molteplici di un’artista che ha presenza scenica, che ha consapevolezza della sua bravura, che ha un “umore teatrale” che non nasconde, anzi, lo lascia andare con maestria, lo condivide con il pubblico sicura di un feedback convincente e sentito.
È quel che accade e che accadrà fino al prossimo 28 gennaio sul palco del Teatro la Cometa a Roma dove è stato allestito lo spettacolo “Maledetto Peter Pan” la cui regia è curata da Massimiliano Vado.
Già da dieci giorni in cartellone, anche ieri sera vi era il “tutto esaurito” ed è quello il destino che spetta ad uno spettacolo ben diretto, che veste le giuste intenzioni e che é affidato ad un’attrice che mette anche la sua bellezza a disposizione dell’arte teatrale ma soprattutto non si risparmia, pur di far giungere al pubblico – con il quale dialoga – il senso del suo parlare.
Il monologo esilarante, che in alcuni momenti diventa una “stand up commedy” affidato alla Andreozzi, debutta in Italia dopo la fortuna spettata a “Le demon de Midi”, rifacimento del fumetto di Florence Cestac, diventato poi spettacolo teatrale ed anche un film.
Tanti personaggi affidati a Michela Andreozzi che con leggiadria e la giusta sfacciataggine racconta in maniera assai credibile le vicissitudini di una donna che scopre di essere stata tradita da un marito di scarsa personalità, che come molti uomini diventa vittima della crisi di mezza età, della “sindrome di Peter Pan”, del voler tornante giovani per un po’, pur di non sentire quel tempo che inesorabilmente incalza. Gioca con i simboli espressivi il testo tradotto e riadattato, e la regia di Massimiliano Vado mira a tenere alto il ritmo della narrazione, senza orpelli scenici, ma con quell’essenziale che mette lo spettatore nella condizione di riscontrare in quel testo tutta la veracità di una condizione che è spesso tragicomica, perché fuori da ogni logica.
Le corna, gli stereotipi, i luoghi comuni che vedono le amanti dei propri mariti sempre un gradino più in basso, e poi le problematiche inconsistenti che portano alla rottura, “l’inizio della fine”, la gestione dei figli, gli amici che sanno e tacciono, i consigli disastrosi, i commenti dei familiari circa la condizione di “donna separata e quindi finita”, le strategie, le ansie, i ritorni, la voglia di riscatto, ma anche quella di voler ristabilire un equilibrio…a qualunque costo.
Tutto questo nella performance di Michela Andreozzi, che sembra parlare ad ognuno dei presenti e spesso questo lo fa per davvero, con quel far sentire la sua presenza viva, lì in piedi sul palco, a pochi metri da un pubblico che applaude a scena aperta più e più volte durante la serata.
Basta a se stessa e allo spettacolo, La Andreozzi, non ha bisogno di chissà quale orpello, o scenografia o costume. Lei che fa la donna tradita, la “fatina troia” con cui suo marito la tradisce, mima le movenze e la personalità di quel marito poco più che insignificante, porta in scena le manie delle sue amiche, e poi in maniera impeccabile tutti i dialetti dello stivale, dal calabrese al bergamasco.
Le battute sono scritte ad arte, è proprio il caso di dirlo, cosa non facile nel momento in cui si va a tradurre un testo e dunque necessita risistemarne il senso ed anche il ritmo. Sembra azzerare tutte le difficoltà che stanno dietro ad un monologo, Michela Andreozzi; le appartiene una bravura fuori dal comune, come anche quella completa assenza di inibizione che ogni attore dovrebbe possedere.
“Chi crede alla coppia perfetta?”, domanda la protagonista dello spettacolo al suo pubblico, che fino ad allora ha collaborato a che si potesse consumare quel monologo “condiviso”.
Lei sì, ci crede, è innamorata e quel legame di vita con Massimiliano Vado che ha saputo anche divenire sodalizio artistico, racconta di come si può essere felici condividendo quello che si sa fare, stando vicini e apprezzando appieno le doti dell’altro.
“Peter Pan, quello verde, quello del colore di merda che sbatte a tutti” – dice quella bella signora quarantenne che deve affrontare in maniera rocambolesca un tradimento in piena regola.
“Morire per un uomo proprio no” – comincia così “Maledetto Peter Pan”.
Se volete sapere come finisce, andate a vivere una bella esperienza e a godere di un teatro fatto bene, nel quale chi recita sa cosa lasciare, anche in termini di riflessione e non solo di divertimento, dopo un applauso che sembra non dover finire mai.
Nella notte gli uomini dell’Arma dei Carabinieri, sono stati impegnati in una vasta operazione contro la ‘ndrangheta calabrese con diramazioni nel centro e nord Italia (Veneto, Emilia Romagna, Lombardia e Lazio) nonché in Germania.
Sono ben 169 i provvedimenti cautelari emessi dalla DDA di Catanzaro diretta dal Procuratore Nicola Gratteri.
L’ operazione denominata “Stige” condotta dal ROS e dal Comando Provinciale Carabinieri di Crotone.
Agli indagati – ritenuti partecipi della cosca “Farao-Marincola” – viene contestata l’associazione di tipo mafioso e altri reati aggravati dal metodo mafioso.
Gli inquirenti parlano di una vera e propria “holding criminale” capace di gestire affari per milioni di euro.
Nella mattinata di oggi, la conferenza stampa presso la DDA di Catanzaro.
Era ricercato da quasi due anni ed è stato catturato nella notte mentre tentava di scappare in Germania. Epifania amara per un agrigentino. Arrestato anche un favoreggiatore.
I carabinieri della Tenenza di Favara, dinnanzi ad una fermata dell’autobus, hanno messo le manette ai polsi a Dario Micalizio, 35 anni di Agrigento, già noto alle forze dell’ordine per i suoi precedenti per droga. Gli investigatori gli stavano col fiato sul collo già dal giugno 2016, quando si era sottratto ad un ordine di carcerazione per scontare la pena di quasi un anno di reclusione per droga. Da quel momento era sotto la lente di ingrandimento delle forze dell’ordine.
I primi sospetti della presenza sul territorio del fuggitivo, i Carabinieri li avevano avuti già prima delle vacanze di Natale, quando alcuni movimenti sospetti dei suoi familiari avevano portato a ritenere che il Micalizio potesse voler trascorrere in famiglia le feste di Natale. I sospetti si sono rivelati realtà questa notte, quando, intorno alle tre, è scattato il blitz dei Carabinieri di Favara.
Una decina di militari in borghese hanno si sono messi di nascosto sulle tracce di un’utilitaria di colore nero, con a bordo due uomini, uno dei quali fortemente rispondente alla descrizione in possesso dei militari. Dopo pochi minuti, la decisione di far intervenire una pattuglia che sorprendeva gli occupanti nei pressi di una fermata degli autobus di lunga percorrenza, uno dei quali diretto in Germania. Il Micalizio, vistosi braccato, non ha opposto resistenza ed ha ammesso la sua reale identità, confessando di essere in partenza per la Germania, dove, con tutta probabilità, aveva già trascorso, prima di Natale, tutto il periodo di irreperibilità. A lui è stato subito notificato un ordine di carcerazione, che era stato emesso nel giugno del 2016 dalla Procura Generale della Repubblica, a seguito di una condanna della Corte di Appello di Palermo, con l’accusa di spaccio continuato di sostanze stupefacenti.
Gli accertamenti approfonditi sul suo accompagnatore, hanno portato al convincimento che questi stesse favorendo l’elusione della pena del Micalizio. Pertanto, anche per Antonio Prinzivalli, 47enne di Agrigento, anch’egli noto per i suoi precedenti, è scattato l’arresto con l’accusa di favoreggiamento personale.
Il Micalizio è stato subito portato al carcere Petrusa del Capoluogo, mentre il complice è stato trattenuto dai Carabinieri in attesa del rito direttissimo.
Al secolo Marina Elide Punturieri, era nata a Reggio Calabria. Aveva 76 anni Marina Ripa di Meana e da 16 lottava contro un tumore al rene, che però non le aveva mai impedito di continuare a vivere la sua vita e di frequentare i salotti che aveva sempre frequentato, anche quelli televisivi dove, negli ultimi tempi, si presentava con un velo che le copriva il volto rovinato dalle tante terapie subite. Si è spenta nella casa romana. Aveva confidato ai suoi amici, forse perché sentiva giungere la fine, che questo trascorso, sarebbe stato il suo ultimo Natale…e così è stato. Non voleva un funerale e il suo desiderio sarà esaudito.
Fu amica di Alberto Moravia, sposò il Duca Alberto Lante della Rovere da cui ebbe la figlia Lucrezia, poi sposò il Marchese Carlo Ripa di Meana.
Una donna intelligente, ironica, che nel tempo aveva dettato la moda, che appariva sempre impeccabile. E’ stata eccentrica, intraprendente, anticonformista, amante degli animali. Famose le sue battaglie in difesa delle foche, contro l’uso delle pellicce nella moda ed anche contro le corride. Aveva anche posato completamente nuda proprio per promuovere la campagna contro l’uccisione degli animali da pelliccia. Quelle foto divennero manifesti che finirono sui muri di Milano e della Capitale.
Ma tutti ricordano la Marina opinionista, stilista, ma soprattutto scrittrice. Il suo libro autobiografico “I miei primi 40 anni” ebbe così tanto successo che nel 1987 diventò anche un film. Scrisse anche “La più bella del reame” e nel 2012 “Invecchierò con calma“.
Non si è fatta mancare nulla, Marina Ripa di Meana, neanche la partecipazione agli ormai famosi Reality Show. Prese parte a “La Fattoria” nel 2009, anno in cui fece una piccola parte nella famosa serie “I Cesaroni” nella quale con facilità interpretò se stessa.
Famosa anche la querelle con Vittorio Sgarbi durante un famoso vernissage, ma alla fine tra i due tornò il sereno e spesso, dopo quell’episodio, andarono insieme ospiti nello show del loro comune amico Maurizio Costanzo, mostrando una singolare sintonia.
In una intervista, mentre raccontava la sua storia da donna che lottava contro il cancro, diceva: “in un momento come questo che è molto duro e nel quale non sappiamo come andrà a finire il mondo, l’unica cosa che sta andando molto bene è la scienza, sono le terapie che curano o che se anche non possono curare completamente, aiutano a sopravvivere ed io ne sono un esempio“.