Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 57 di 90
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Quante volte abbiamo tirato su un muro, dietro il quale ci siamo nascosti difendendoci da qualcosa o da qualcuno, o semplicemente per non vedere quel che era troppo scomodo, in una vita spesso già scomoda di suo. 

Un muro da tirare su in una notte, un muro che separa la realtà dai sogni, l’illecito dallo sfruttamento, l’avidità dal bisogno; un abuso edilizio, da consumare a discapito dell’arte e a favore dell’ennesima attività commerciale, che non fa sconti, se non sugli scaffali. 

A tirare su quel muro due Muratori, Fiore e Germano, squattrinati, in cerca di un riscatto sociale, amici ancora per un po’, divisi – così come fa quel muro – da una visione un po’ diversa della vita. Uno realista, sposato, con figli, l’altro scapolone incallito, ancora alla ricerca di cosa fare da grande, un sognatore che gira con l’Ape; eppure scoprono di avere più di qualcosa in comune, senza saperlo. 

Accettano un lavoro in nero, per racimolare una somma che gli permetta di aprire un’impresa di spurgo. Germano ha paura del buio e dei topi (la materia prima delle fogne) e Fiore, che teme che quello che stanno per compiere, sia una fatica immane, per poi continuare ad essere nessuno “con tanti sogni e senza speranze”. 

Germano difende il ruolo del destino, Fiore sostiene che “il destino è diventare grandi e si diventa grandi mettendo un mattone alla volta, ma messo bene”. 

E di mattoni in scena se ne mettono su tanti e per davvero. Un muro di 4 metri si erge sul palcoscenico, ed è una piéce faticosa, in manualità ed intenti. Carriole da trasportare, cemento da preparare e foratini da sistemane. Tutto in scena, dal vivo, sotto gli occhi di un pubblico che ride, tanto, perché il romanesco è spiccato, le battute geniali. 

Ma la genialità di Edoardo Erba – che ha scritto 16 anni fa il testo teatrale –  è quella di imbastire attraverso i dialoghi, una storia che è attuale più che mai, che si regge sull’impalcatura – è proprio il caso di dirlo – delle problematiche del lavoro, sulle aspettative puntualmente deluse, sulle amarezze che restano in tasca insieme a pochi spicci. E poi ancora sulla questione dei favoritismi, degli imbrogli autorizzati nel mondo dell’imprenditoria, del come si diventa esperti di truffa, per poter “fottere il mondo”.

I protagonisti bravi fino alla lacrime – che non sono solo di risate ma anche di commozione  – sono Nicola Pistoia e Paolo Triestino, che diretti da Massimo Venturiello, interpretano con maestria, veracità ma anche delicatezza il ruolo della disillusione, e di come alla fine non si guarda in faccia a nessuno, per un minuto di felicità o anche solo per una dose di illusione, che è così forte da sembrare vera.   

Lo spettacolo non è solo un ritratto di come il potente mondo imprenditoriale stia facendo scivolare la società nel simultaneo degrado culturale, nella deriva che sembra spettare ai posteri, ma è anche un poetico esperimento sociale ed antropologico; è un testo che racconta molto bene di un amore per il teatro. Quel teatro che entra esso stesso nel testo teatrale, oltre che nelle mura del teatro. 

Il “metateatro” che si affaccia alla “meta realtà”, è una delle parti degne di nota del testo di Erba. La signorina Giulia, protagonista di uno spettacolo teatrale – interpretata in maniera affascinante e deliziosa da Lydia Giordano – piomba nella vita dei due muratori, in tempi diversi, dividendoli in più di un momento; quando Fiore prova a convincere Germano che quell’incontro è solo frutto di una allucinazione e quando lo stesso Fiore, subisce il fascino di quella creatura che credeva non potesse esistere se non in un’opera teatrale [In fondo il lavoro a nero, era in un teatro in disuso da un po’]. 

L’ipotetica donna dei sogni in un sogno, forse ad occhi aperti. Che di alcuni sogni si ha bisogno, in fondo, ogni tanto, per sopravvivere. Il fatto è che la realtà è così dura, a volte, che quell’attimo di Incanto, non lo vuoi lasciare neanche al tuo miglior amico. 

Mai noioso lo spettacolo, pregno di capacità e di successi e di talento, che talvolta è collettivo, proprio come in questo caso. 

Edoardo Erba sa scrivere, il suo testo è finito in scena e lì è restato meritatamente (perché il riscontro del pubblico lo ha tenuto in vita) per 16 lunghi anni.  Partito il 20 novembre del 2002 con centinaia e centinaia di repliche in tutta Italia da Bolzano a Palermo; ha viaggiato per tanto tempo e si è fermato ieri sera, per l’ultima replica in assoluto, al Teatro Ghione di Roma. 

Il testo di Erba è la risposta a tutti coloro che in questi anni hanno pensato che il teatro si fosse affiacchito, che la drammaturgia contemporanea fosse in sordina. La scelta del dialetto romano ha creato il giusto spessore all’opera, ha reso il senso, ha suggerito riflessioni, così come il napoletano fa nelle commedie di De Filippo. 

Il testo di Erba è finito in teatro passando nelle mani di un ottimo Venturiello alla regia, e di due fuoriclasse, Pistoia e Triestino, che hanno reso tutto così vero, così appassionato, fino allo stremo delle forze, (anche fisiche) come quel destino che a volte ti fa restare “un muratore della vita”, per tutta la vita. 

E allora il destino di quest’opera è quella di restare nella storia del teatro contemporaneo, con il pregio di aver raccontato le fragilità dell’essere umano e di quella società che si è spostata troppo in là, si è spostata dove i muri che crollano sono quelli che seppelliscono l’arte sotto un mucchio di macerie e da esse non risorge un domani che può essere cambiato, e lui, Edoardo Erba profeticamente lo sapeva già 16 anni fa. 

Applausi a scena aperta ieri sera, al Teatro Ghione, commozione pulsante e ringraziamenti doverosi per chi ha lavorato alacremente a che questo progetto avesse lunga vita, e a chi con amore gestisce il teatro e protegge la cultura. 

 

Simona Stammelluti

Ha ormai tutti i capelli bianchi il pianista statunitense, ha la nonchalance di chi ha navigato abbastanza per potersi permettere tutto o quasi, ha la postura di chi non ha tante regole da seguire tranne l’estro che nel tempo l’ha reso riconoscibile e apprezzabile come uno dei migliori pianisti della scena jazzistica contemporanea. 

Molti hanno azzardato paragoni tra Brad Mehldau e alcuni pianisti del passato. Lui si è sempre scrollato di dosso questo peso ed io, a dire il vero, c’ho provato ma non ci sono riuscita, forse perché quando lo ascolto provo sempre la stessa sensazione – che non mi accade spesso ascoltando concerti – ossia di riconoscere nel suo pianismo una sorta di effetto ipnotico che lui dispensa all’ascoltatore, attraverso quel suo modo di ripetere le note, in controtempo ostinato ed armonico, e si sentono tutte, le variazioni di tempo tipiche di chi è stato influenzato dalla musica classica e sa come allargare e poi stringere nel timing; e poi quella caratteristica di fare domande con la mano sinistra per poi rispondere con la mano destra, cosa che prima di lui (ma in maniera differente) aveva fatto meravigliosamente bene Bill Evans. E se in “piano solo” questo accade abbastanza spesso nelle esecuzioni pianistiche, più o meno bene, in trio diventa un dialogo aperto in cui tutti gli strumenti in gioco, danno una loro risposta che – in questo caso – non é mai sbagliata, anzi, è convincente e appagante. 

Brad Mehldau, ospite sabato 12 maggio nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, ha ipnotizzato tutti, con la complicità di due musicisti sopraffini e  perfettamente complici di ciò che il pianista aveva da raccontare. 

Brani tratti dal suo ultimo lavoro discografico “Seymour Reads the Constitution!” in uscita in questi giorni, realizzato proprio in trio con due eccellenti musicisti  Larry Grenadier, strepitoso al contrabbasso e Jeff Ballard, raffinato e sofisticato alla batteria – che nella serata di sabato mi sono piaciuti tanto quanto il leader. 

Alcuni dei brani eseguiti sono originali, ma combinati con alcuni pezzi pop. 

C’è grande scorrevolezza, fruibilità e godibilità nelle esecuzioni, come in “Ten Tune”, e poi quel linguaggio personale che non ammicca ai giganti del passato. E la performance è ancor più apprezzabile proprio nella misura in cui la stessa si snoda su reinterpretazioni di brani di altri compositori, con il focus su opere di Cole Porter, o “and I love her” di McCartney. 

La rivisitazione di alcuni pezzi noti – come These foolish things”-  è originale, si sente tutta la sua  originalità stilistica, ma non abbandona quasi mai il tema; Mehldau lo imbastisce in ingresso e poi in un tempo ampio lo ricama, con Grenadier che usa l’archetto e  Ballard che spesso si serve delle spazzole; Ballard che anche negli assoli non strafà, non si ostina, ma lascia suonare tanto i tom quando il rullante in maniera calibrata e appassionante, dando al contempo dimostrazione della sua bravura all’interno del trio, che è in perfetta armonia. 

Nel jazz una performance in trio può diventare un piano solo e non solo un “assolo” ed e tutto normale, tutto appagante, tutto calibrato. Questo sabato sera è accaduto, ed è stato uno dei momenti più ricchi di pathos. Tutto si ferma, al momento giusto, e lui, quel Pianista che parla poco ma suona tanto, che si lancia in poche parole in italiano e più recupera il suo inglese per piccoli convenevoli, continua a suonare come se avesse da dire qualcosa di importante e sapesse farlo solo così. 

Corre sui tasti verso le note acute, si lascia andare al virtuosismo, nuotando con bracciate sicura nelle acque calme di ciò che sa fare bene. L’estetica della sua arte pianistica si riappropria poi del trio, di quell’interplay che resta la chiave di volta di chi si propone in formazione. 

I brani corrono lungo il tempo e lo ingoiano facendoti dimenticare che sta “andando” perché tu sei lì, che cerchi di capire cosa faranno un minuto dopo. 

Nel jazz un pezzo può durare anche 20 minuti e alla fine dici “già finito?” Perché in alcuni ascolti si perde la dimensione spazio/temporale, si chiudono gli occhi, il tempo non scorre, batte.

Nel jazz quando si è più d’uno conta moltissimo l’affiatamento tra i musicisti, l’Interplay, la sintonia, un po’ come in quelle coppie che lo vedi da subito che si capiscono anche senza parlare.

Nel jazz ci sono tante formazioni eppure il trio così come era strutturato sabato sera resta una delle mie formazioni preferite. 

4 bis…l’atmosfera era impregnata di jazz, emozioni e pathos e nessuno voleva finisse. Quel pubblico era caloroso e affamato. 

Lo dice Mehldau : “sento una buona energia; è quella che mi da la carica” e allora va avanti, vanno avanti, suonano complici con i loro strumenti e tra di loro, suonano con la tecnica ma anche con l’estro che appartiene a chi non ha paura di osare. 

Sono lontani gli anni in cui Mehldau dalla musica classica si converte al jazz, per poi rivoluzionarlo il mondo del pianismo jazz, e dopo anni di sperimentazione armoniche, sembra tutto perfettamente in equilibrio tra lo spunto di genialità e il senso della polifonia. 

Simona Stammelluti 

Ma in quanti siete? 

Solo in due. O forse avrebbero dovuto rispondere “in 4” perché ci sono anche “una voce e una chitarra”, il meglio degli effetti speciali che si possano desiderare, in serate come quella consumatasi sulle tavole del Teatro dell’Acquario di Cosenza (sold out)  che ha ospitato lo scorso venerdì 11 maggio il duo londinese formato da Kevin Dempsey e Jacqui McShee. 

C’è da fare un plauso al direttore artistico della rassegna “La nave dei folli” Carlo Fanelli, che con quel pizzico di geniale follia ha scovato oltre la manica due artisti che – così come hanno spiegato loro stessi durante la serata – era la prima volta (inteso come prima esperienza) che suonavano insieme, dopo essersi incontrati per caso e piaciuti reciprocamente (musicalmente parlando), mettendo pertanto insieme tutto quello che si era consumato in decenni di personali carriere, accomunati dal folk britannico, e poi dal blues, contaminato dalla musica che arriva dall’est dell’Europa, dalla Bulgaria, dalla Russia.  

Le ballate inglesi sono un meraviglioso mondo sonoro che i due artisti hanno imbastito e raccontato, senza sovrastrutture, con la forza della voce sottile, raffinata, quasi cristallina di Jacqui McShee (che se chiudi gli occhi mai diresti che è una deliziosa signora di 70 anni) e dal carisma, dall’energia di Kevin Dempsey, chitarrista acustico sopraffino, compositore e intrattenitore. 

Sobri, a loro agio, appaganti. 

Sono saliti su di un aereo e raccogliendo l’invito di Carlo Fanelli sono volati in Calabria, abbandonando per qualche giorno la loro tournée nel Regno Unito, intenzionati a raccontare in musica, il mondo fatto di dettagli di musica britannica, all’interno del tessuto blues e jazz. Non dimentichiamo che la grande Jacqui McShee è stata la cantante dei Pentangle, innovativo gruppo Folk rock degli anni 70. 

Le tradizioni folkloristiche si vestono per l’occasione, in una dimensione intima, acustica, in un viaggio musicale vario, con sonorità affascinanti. 

Lei, vestita con un semplice vestitino a fiori, bionda, come un tempo, semplice – perché non ha bisogno di null’altro se non la sua voce che ricorda Joni Mitchell – una voce sottile, rotonda, da mezzo soprano, che si vela appena di malinconia, nelle ballate, sempre in equilibrio tra la trasparenza vocale e il vissuto che si porta dentro. 

Dempsey accompagna nei controcanti, suona in accompagnamento e poi ricama, con virtuosismi calibrati. Parla con il pubblico, è simpatico ed accattivante. 

“Come to me baby”, “Song to Molly” ed è subito atmosfera. Gli lascia il palco Jacqui durante la serata e Dempsey sfrutta quel tempo per deliziare il pubblico con il suo blues e con la musica inglese datata 1965. 

È un duo che sembra avere ancora  tante cose da dire, e malgrado qualche piccola imperfezione, che si perdonerà a due artisti di quella portata che ancora a 70 anni reggono magnificamente il palco, io c’ho visto una ruota panoramica in quel concerto, che girando e salendo verso l’alto raccoglie dettagli sonori fuori dal tempo, e poi il jazz in velata suggestione, oltre a quel sapere frizzante del folk e quando quel suono, girando arriva giù, vicino al pubblico, giunge appagante. 

Un bel concerto, un mondo lontano a portata di mano, storie di amore in musica, di canzoni dedicate e di voglia di fare ritorno da qualche parte, fosse anche una nostalgia. 

Simona Stammelluti 

In data odierna, I Carabinieri del Comando Provinciale di Cosenza – Nucleo Investigativo, coadiuvati da Personale della Sezione Tributaria della Guardia di Finanza di Cosenza, ha dato esecuzione a provvedimenti di sequestro beni a carico di Nella Serpa – capo dell’omonimo clan del cosentino, condannata all’ergastolo nel 2016 (leggi qui la notizia) –  e suoi congiunti, per un valore di oltre 2 milioni di euro, beni consistenti in 11 immobili, alcuni veicoli, 3 società e 40 rapporti finanziari.

Il decreto è stato emesso dalla Corte D’assise d’Appello di Catanzaro, nell’ambito della sentenza di condanna della stessa Serpa Nella, a seguito dell’indagine “Tela del ragno”. Si tratta nello specifico di un sequestro preventivo art. 321 cpp, che in sostanza, prevede il blocco di tutti i beni comunque riconducibili alla sfera personale della condannata, preservandoli da possibili alienazioni sino alla eventuale sentenza definitiva.

L’art. 321 cpp combinato con quanto disposto dell’art. 240 bis cp che, appunto, prevede in caso di condanna definitiva, la consequenziale confisca degli stessi beni.

Sì pensi che tuttavia l’accusa a Nella Serpa, ha sinora retto sino in Corte D’Appello dove ha subìto un’ulteriore condanna, la più grave della quale si ricorda, per i due omicidi di Martello Luciano e Siciliano Rolando.

Nella Serpa per tali reati, si trova ancora ristretta a regime 41 bis O.P.

Tra le motivazioni del provvedimento nei confronti di Nella Serpa, oltre alle sentenze già subite, anche le approfondire indagini patrimoniali effettuate dal personale del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Cosenza, che hanno dimostrato una notevole sproporzione tra i redditi dichiarati e i beni posseduti.

Tra gli altri elementi evidenziati dalle indagini patrimoniali, soprattutto la sopraggiunta e sospetta interposizione fittizia di detto patrimonio, a favore di prossimi congiunti.

Ma se esisteva già un provvedimento di confisca sugli stessi beni come misura di prevenzione, come mai la Procura è dovuto intervenire nuovamente sullo stesso patrimonio?

 

Simona Stammelluti

L’ho conosciuta qualche anno fa, viveva e lavorava a Gerusalemme…Vive e lavora ancora a Gerusalemme Pina Belmonte, una giovane donna che vede cambiare pian piano quei luoghi in terra santa, che respira speranza e che sembra vivere una sorta di missione, come se l’amore che nutre per quella terra, le venga restituito in gocce quotidiane di accoglienza che arriva, malgrado tutto.

L’ho rincontrata in Italia, qualche mese fa, prima che ripartisse per Gerusalemme; era piena di vita, di sorrisi per tutti, di capacità e di dedizione verso gli altri, verso gli ultimi. Ho provato a domandarle in questi giorni, come vanno le cose in quei luoghi che spesso sembrano dimenticati, come se tutti ne conoscessero le difficoltà, ma al contempo nessuno se ne interessasse alla fine, più di tanto, fin quando alcuni accadimenti non saltano alle cronache.

E siccome alcuni squarci di mondo e le loro storie non vanno dimenticati, sono qui a raccontarle quelle storie, aiutata dalla voce e dall’esperienza di chi alcune vicissitudini le conosce perché le vive ogni giorno, anche sulla propria pelle.

SS: Pina, da quanto tempo “vivi la città” di Gerusalemme e non certo da quanto”ci vivi
PB: Vivo la città di Gerusalemme e la Palestina da circa cinque anni anche se in cuor mio la vivo da sempre. Fin da piccola leggevo cosa accadeva in questo angolo di mondo.

SS: Cosa hai visto cambiare negli anni – se qualche cambiamento vi è stato – che potesse lasciare intravedere una piccola speranza per quella terra?
PB: Questa terra mi ha insegnato proprio la speranza. Si, nonostante tutto questa terra insegna a sperare. E’ una terra che non ha visto mai la pace, ma aspetta ancora la pace. Più che dai politici, i piccoli cambiamenti, arrivano da singole persone unite dalla vera voglia di pace. Penso al gruppo di donne coraggiose che guidano il movimento di Women Wage Peace (Le donne portano la pace).
Il loro obiettivo è quello di far sentire la voce di decine di migliaia di donne israeliane, ebree, arabe, di destra, di centro e di sinistra. Da cristiana, non possono non ricordare anche la presenza dei Francescani che da ben ottocento anni, sono presenti in questa terra, e sono numerose le attività formative e e sociali che portano avanti.

SS: Ci racconti una delle scene che i tuoi occhi vedono ogni giorno, mentre vivi e lavori in quei luoghi?
PB: Vedo due popoli che soffrono ma a farne maggiormente le spese, sono sicuramente i palestinesi, i cui diritti spesso vengono violati. Ma accanto a queste cose, vedo anche tante piccole scene, segni che fanno pensare che la pace è possibile.

SS: Ieri è terminato il giro d’Italia – prestigiosa gara ciclistica – che è iniziata a Gerusalemme ed è terminata a Tel Aviv. Sembra esserci stato un silenzio mediatico su alcuni dettagli di questo evento. Ci dici cosa ne pensi e cosa hai potuto vivere in merito?
PB: A riguardo ho letto un’interessante analisi di Alberto Nigri che descrive il Giro d’Italia come un’operazione politica e propagandistica a favore di decisioni legali e non, accettate dalla stessa Unione Europea, oltre che dalle risoluzioni dell’Onu. Ho visto in prima persona però, questo evento, perché la tappa includeva la zona dove lavoro e vivo.

SS: Il dipartimento di Stato degli Stati Uniti, ha annunciato che aprirà l’ambasciata statunitense a Gerusalemme in questo  Maggio 2018, in concomitanza con il settantesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza di Israele. Cosa cambierà nell’assetto dell’ordine, delle scelte e della vita di Gerusalemme?
PB: Ormai è ufficiale lo spostamento. Penso ci sarà una risposta molto dura qui nei territori, da parte della gente. Credo che questa decisione degli Stati Uniti, sia una violazione del diritto internazionale.

 SS: Cosa manca a quella terra, da dove bisognerebbe incominciare per ristabilire un equilibrio? Due stati, uno stato solo. Sembra tutto possibile ed inattuabile al tempo stesso.
PB: La gente vuole solo la pace, ma chi decide le sorti di questa terra, realmente la pace non la vuole, perché gli interessi economici e di potere, sono più alti di tutto il resto. A farne le spese, in ogni conflitto, non sono i potenti, ma la povera gente che ogni giorno vive e affronta con difficoltà la quotidianità.

SS: Perché resti lì? Mai ti è venuto il desiderio di andar via, di lasciarti alle spalle quella terra ma anche quella vita, che lì sembra diversa da qualunque altro posto al mondo?
PB: Ormai questa terra fa parte di me, pur non dimenticando mai le mie origini. Qui lavoro solo alcuni periodi all’anno, ma ormai mi sento parte di questa quotidianità. Devo tanto a questa terra e a questa gente, perché mi hanno insegnato tanto, mi hanno accolta fin dal primo giorno con amore e riconoscenza gratuita.

SS: Quanto difficile è vivere il quotidiano?
PB: E’ molto difficile il quotidiano, qui. E’ difficile anche vivere un’amicizia con le donne palestinesi. Se Ci spostiamo da Gerusalemme, ai checkpoint è uno strazio al cuore. Il regolamento prendere che i palestinesi scendano dal pullman mentre i turisti e chi non è palestinese resti sul pullman. Loro, dunque, devono scendere dal pullman, mettersi in fila, mostrare il documento. Uno strazio vedere le mie amiche lì in fila, come se venisse tolta loro la dignità di essere umano, mentre poi chi resta sul pullman viene controllato da due soldati che salgono sul mezzo.
La scorsa volta nel vedere le mie amiche lì in fila, appena sono risalite sul pullman mi è scesa una lacrima. Una donna musulmana di fronte a me vedendomi dispiaciuta, con aria sicura e piena di forza mi ha detto: “tranquilla, io prego”; mente la ragazza di fianco alla donna musulmana, cattolica (aveva una croce al collo) mi ha dato un fazzoletto per asciugare la lacrime. Ho ritenuto fosse giusto raccontarla, questa cosa, perché alcune cose che da noi in Italia non sono così normali, qui rappresentano la normalità. Convivo ogni giorno con queste situazioni e questi stati d’animo,  ma spesso il senso di impotenza e di tristezza mi assale.

SS: Vuoi dire qualcosa ai lettori del Sicilia24h e a tutti coloro che si imbatteranno in questa intervista?
PB: Invito tutti a venire in Terra Santa. I cristiani qui sono una minoranza. Con i pellegrinaggi, si da’ un sostegno economico e si mantengono anche vivi questi luoghi.

 

Simona Stammelluti

 

I fatti si sono svolti durante i festeggiamenti del 1 maggio, in onore di S.Francesco sul lungomare di Paola dove un bambino di pochi mesi era in sofferenza respiratoria

Gli Assistenti Capo della Polizia di Stato Maurizio De Seta e Stefano Vocaturo, mentre erano di pattuglia, venivano contattati intorno alle 20.40 dai colleghi Sov. C. Federico Scarpino e Giorgio Tripicchio, che chiedevano loro un intervento urgente poiché un bambino di poco più di un anno,  aveva ingerito un corpo estraneo che gli ostruiva le vie aeree. La mamma del piccolo era in evidente stato di agitazione.

De Seta e Vocaturo, si portavano pertanto prontamente sul posto, con non poca difficoltà, considerato che in quel giorno festivo, vi era nei luoghi, una moltitudine di gente oltre al traffico bloccato nel centro cittadino. Attivando sistemi di emergenza visivi e sonori, sono così riusciti a giungere sul posto, anche spostando personalmente – ove necessario – le vetture di quegli utenti che presi dal panico, non riuscivano a dare spazio ai poliziotti impedendo loro di passare.

Giunti sul posto, i due poliziotti, hanno trovato il posto adibito ai soccorsi non più presidiato, considerato che gli addetti allo stesso, terminavano il loro turno alle ore 20. Il 118 era stato allertato, ma vista la gravità delle condizioni del piccolo Alessandro, De Seta e Vocaturo, hanno deciso nell’immediatezza di caricare il bimbo e la sua mamma sull’autovettura di servizio e di correre verso il locale nosocomio dove i sanitari del Pronto Soccorso dell’Ospedale Civile di Paola, hanno provveduto a rianimare il bambino.

La tempestività dell’intervento dei poliziotti, è stata dunque fondamentale per la sopravvivenza del piccolo Alessandro, che è stato poi trasferito presso l’Ospedale dell’Annunziata di Cosenza, dove è rimasto per tutta la notte in osservazione.

I genitori una volta capito che il loro piccolo era fuori pericolo sono scoppiati in un pianto liberatorio, ringraziando gli operatori intervenuti, per aver salvato il loro bambino.

 

Simona Stammelluti

 

Paola (Cs) – E’ l’alba, quando i pellegrini raggiungono il santuario. Sono in migliaia coloro che hanno scelto di festeggiare il 1 maggio partendo a piedi, da molte località della provincia, per giungere in mattinata presso il santuario dedicato a San Francesco, il Santo eremita, che visse una vita piena di prodigi

 

E’ da poco passata la mezzanotte del 30 aprile, quando a piedi, zaini in spalla, i pellegrini – più o meno devoti al Santo – si incamminano per poi addentrarsi nella notte e nel fitto bosco, per attraversare la montagna oltre la quale c’è la meta, quel luogo così suggestivo, a tratti mistico, che si affaccia sul mare, che riconcilia con il mondo, che mette a tacere alcune paure e che regala il sollievo per l’anima.

Che di paure, ad attraversare una montagna in piena notte, ce n’è più d’una. Alcuni questo pellegrinaggio lo fanno per voto, lo fanno a piedi scalzi, incontrando sul proprio cammino anche il dolore fisico, oltre che la stanchezza. Ci sono intere comitive, tanti ragazzi, che quasi ci si domanda cosa muova una massa umana così corposa, verso un luogo di culto. Ci siamo fatti raccontare da alcuni di loro, se fosse la prima volta in quell’esperienza, il perché si fossero incamminati e cosa si aspettassero realmente appena giunti a destinazione.

C’è chi questa esperienza la fa ogni anno, e ogni anno vive una notte diversa; c’è che ci va per ringraziare il Santo e chi per chiedergli qualcosa che gli sta particolarmente a cuore. Ci sono ragazzi che vogliono passare un 1 maggio differente e chi, come Fabio, sceglie di recarsi in quei luoghi per la prima volta perché, pur essendo buddista, è rimasto affascinato dal carisma di quel Santo e quindi vuole fare quell’esperienza per “sentire” alcune cose; e quale dimensione migliore per avere qualche risposta, se non scrutando il buio, il silenzio e alcune difficoltà oggettive. Sì, perché quel percorso prima tutto in salita per raggiungere la cima della montagna, e poi tutta in discesa, incontra difficoltà reali come alcuni sentieri impervi, un fiume da guadare, animali selvatici, e poi ancora il freddo, la stanchezza e la paura di non farcela, di non riuscire a ultimare quel percorso.

Come tutti gli anni, qualcuno lungo il cammino si sente poco bene, viene soccorso e riportato indietro. C’è chi piange, perché ha un peso sul cuore e si commuove in un abbraccio di consolazione. C’è chi canta – perché come si dice “chi canta, prega due volte” – e chi si tiene silenziosamente per mano, almeno fin quando il sentiero lo permette. C’è qualcuno che resta indietro, che si accoda al gruppo successivo e poi mette a disposizione quel che ha: un po’ di cibo, una merenda, un po’ d’acqua.

La notte scorre lenta, ma a tratti sa accogliere i pellegrini con una luna meravigliosa e un cielo pieno di stelle. All’alba, migliaia di persone, in più tranche, arrivano a Paola, al santuario di San Francesco. Si è tutti stanchi, privi di forze, ma magicamente felici, come se quel posto fosse un premio per averci creduto fino in fondo.

Una volta arrivati, ognuno sceglie come disporre di quel nuovo giorno; C’è chi fa visita al Santo, chi segue la celebrazione della Messa, chi si butta sulla prima panchina disponibile per riposare per qualche minuto. E’ un colpo d’occhio incredibile, vedere tutte quelle persone che, arrivate in massa, poi si dividono, come se in comune avessero avuto solo la notte appena trascorsa.

A Paola si festeggia il Santo fino a domenica 6 maggio, con un programma di eventi sia sacri che profani, ma il pellegrinaggio a piedi, attraverso la montagna, resta il momento più suggestivo, che mostra la forza di tanti pellegrini che sono capaci di mettersi in cammino.

 

Simona Stammelluti – Claudia Badalamenti

 

E’ bello quando un musicista si alza in piedi, ti parla, ti racconta a voce prima ancora che in musica, il perché ha intrapreso quel preciso viaggio, e dove vuole provare a condurti. Poi, quel che si nasconde “dentro” un progetto musicale, lo scopri chiudendo gli occhi ed ascoltando, anche se quando sul palco c’è una elegante electroharp blu, è difficile non restarne visibilmente incantati. Non si vedono spesso arpe sui palchi nei quali si consuma la musica, (a meno che non si tratti di orchestre) ma il concerto di ieri sera, tenutosi al Teatro dell’Acquario di Cosenza, nell’ambito della rassegna “La Nave dei Folli” diretta da Carlo Fanelli, è stata un’esperienza rara ed appagante.

Sul palco ieri sera 4 musicisti siciliani – Rosellina Guzzo (arpa elettrica), Vincenzo Mancuso (Chitarre), Giuseppe Viola (fiati) e Matteo Mancuso (chitarra elettrica) – con una grande esperienza musicale alle spalle, che hanno deciso di dedicarsi ad un progetto che è un vero e proprio viaggio; un viaggio sonoro e di storia della musica, che parte da molto lontano, dall’Irlanda, che prima sfiora e poi si fonde alle sonorità e alle influenze mediterranee, mentre sul più bello decide di saltare l’oceano e arrivare sin sulle sponde del nuovo continente.

 

E’ stato come viaggiare stando comodamente seduti nella poltrona di un teatro, godendosi un concerto di grande atmosfera, che ti conduce per mano mentre cammini su quel ponte che unisce culture musicali così distanti, ben connotate, eppur così compatibili.

Un concerto che asseconda la musica celtica, le ballate irlandesi, una musica tradizionalmente acustica, con arpa che disegna la melodia, con le chitarre che fanno anche da base ritmica e con i fiati che impreziosiscono, che fanno da controcanto, da bilanciamento acustico, oltre che fare da risposta alle note prodotte da un’arpista che al suo strumento, sembra poter chiedere qualunque cosa.

Le musiche prodotte durante il concerto di ieri sera, hanno la straordinaria caratteristica di essere complesse ma non troppo, armonicamente orecchiabili e rifinite a tal punto che ogni nota trova il suo spazio come nella costruzione di un puzzle perfetto.

Il concerto è senza troppi vincoli, ed è questo che lo rende particolarmente interessante. I brani –  “Granelli di sabbia” e  “The secret garden” – hanno nomi che disegnano paesaggi e invitano a tuffarsi dal punto di alto di una collina irlandese, come se la musica di quell’arpa che interroga e fa domande semplici e appassionate, possa trovare risposte nelle emozioni che trasmigrano inevitabilmente da quel palco, in platea. E quanto più l’arpa suona note acute, tanto più la chitarra detta il tempo e introduce il suono dei fiati, che ieri sera sono stati più d’uno nelle mani di Giuseppe Viola. Chalumeau, kaval, speciali flauti di canna, caratteristici proprio della musica tradizionale, folkloristica mediterranea, per poi passare in maniera versatile al sax soprano.

Non so quanti anni abbia Vincenzo Mancuso, ma porta con se, nel suonare le chitarre, tutta la sua sicilianità oltre che l’esperienza ultradecennale di musicista della Rai, di collaboratore di Francesco De Gregori e di molti altri artisti noti. La rivelazione della serata lo “Special guest” è lui, il giovanissimo Matteo Mancuso, poco più che ventenne, ex enfant prodige, in partenza per la Berklee School, che suona la chitarra elettrica senza plettro (come i più bravi), che è capace di veri e propri virtuosismi, che è capace di incastonare le note del suo strumento nell’atmosfera della musica celtica, nelle sonorità che nascono tradizionalmente acustiche e pizzicate, e riesce a far scivolare la pioggia di note ritmicamente perfette, nelle trame dell’armonia dell’arpa.

I musicisti fanno poi un salto nella musica del Mississippi, musica dalle caratteristiche del tutto singolari. Molto bello il momento della serata in cui i due Mancuso, restano soli sul palco, per un omaggio a Django Reinhardt, chitarrista fuoriclasse, gitano, che del suo handicap (non aveva più due dita alla mano sinistra dopo essere stato vittima di un incendio) ne fece una virtù, diventando uno dei più virtuosi chitarristi, che nulla di convenzionale aveva nel suo modo di fare musica, tra il gitano e lo swing; lui che aprì la strada al solismo chitarristico.

Ieri sera in suo onore, Vincenzo e Matteo Mancuso hanno regalato al loro pubblico, un viaggio che parte dal mondo rom per arrivare agli Stati Uniti, eseguendo Nuages, Cherokee e Hungaria.

Tornati tutti sul palco, i musicisti riprendono il loro viaggio da una ballata irlandese, quelle che in quei luoghi vengono suonate per la gente, tra la gente e non solo come simbolo di folklore.

Bello quando Rosellina Guzzo racconta i brani, prima di intonarli con la sua arpa, prima di ricamarli con quell’arte di pizzicare le oltre 40 corde della sua strumento, che produce un suono rotondo che scorre lungo note acute e chiare, eleganti e incantevoli … è proprio il caso di dirlo. E così, “Down by the sunny garden” che parla d’amore, diventa un vero e proprio inno al rimpianto, con note che sono appassionate, e non tristi.

Molto buona la performance in “She Moved Through the Fair“, che come l’arpista racconta prima dell’esecuzione, parla di una donna che si allontana dal suo uomo, che però la rivede ogni notte in sogno. Avvolgente il suono del sax di Giuseppe Viola.

Resta impresso il suono del flauto e dell’arpa che suonano all’unisono, mentre la chitarra fa da tappeto, nel pezzo dedicato alle colline delle fate.

Ottimo l’interplay tra i musicisti. Sanno come dosare gli accenti, trovando ognuno il giusto spazio e sono così collaudati che suonano, senza guardarsi.

Sono passate le 23.00 quando il concerto si avvia al termine, anche se i musicisti non vogliono andar via e il pubblico non vuol lasciarli andare. Dopo due ore di concerto, arriva l’omaggio a Giuseppe Leopizzi, anima celtica, chritarrista siciliano prematuramente scomparso, che amava il suono di quelle terre lontane, che le corde della sua chitarra le accarezzava più che pizzicarle e che fu il primo a concepire quanto potessero essere compatibili i suoni mediterranei con quelli del nord Europa. Nell’82 fondò gli Aes Dana (“gente d’arte” in gaelico) – gruppo di cui la stessa Rossellina Guzzo ha fatto parte –  e diede vita al suo personalissimo folk celtico. In suo onore ieri sera è stato eseguito il brano Frontiera, un pezzo dal titolo emblematico e che nel 2000 vinse il prestigioso premio “Jhon Lennon Songwriting contest” attribuitogli da Elton John, Liza Minnelli, Carlos Santana.

Ringrazia i suoi genitori per essere giunti sin da Palermo per sentirla suonare, Rossellina Guzzo, e dopo aver raccontato la storia – che per molto tempo apparve solo come leggenda – di Lord Franklin, esploratore che sparì tra i ghiacci del mare del nord, si siede per l’ultima volta sul suo sgabello, accordando, coccolando e suonando quell’arpa che ha disegnato le tappe di un viaggio appassionato ed entusiasmante, che ha preso con se i due flauti suonati contemporaneamente nell’ultimo pezzo in scaletta, le chitarre dei Mancuso e ha fatto viaggiare gli spettatori lungo una linea invisibile che ha sorvolato culture e paesaggi, traducendo in musica le storie, le tante storie che fanno della musica, una continua leggenda.

 

Simona Stammelluti

Finalmente (ed era ora) il presidente del Consorzio Universitario di Agrigento, prof. Pietro Busetta esce allo scoperto e parla del futuro del Cua, alla luce delle ultime recenti notizie (ma in realtà durano ormai da almeno 4 anni) che danno il Polo Universitario della Città dei Templi in procinto di chiudere i battenti.

Il presidente Busetta, ovviamente, guarda lontano e ci mette anche un pizzico di ottimismo. Sostiene che “le voci di una imminente chiusura di certo non agevolano il prezioso lavoro che stiamo portando avanti. Il 2019 – continua Busetta – sarà l’anno della massima crisi ma nello stesso tempo stiamo lavorando per il rilancio sostanziale del Consorzio universitario di Agrigento”.

Si spera. Si spera anche perché la presenza del Magnifico Rettore in Consiglio comunale ad Agrigento, per riferire sulle sorti del Cua, non è stata assolutamente confortante. Di questo parleremo più avanti.

Busetta continua: “La crisi del Cua nasce da una volontà della Università di Palermo di volerne avere la governance, come peraltro è avvenuto a Trapani. Il ricorso al decreto Baccei del CUA, sotto la presidenza di Armao e la successiva presa di posizione del Governo regionale, hanno stoppato le mire di governo della Università di Palermo ed ora si è in attesa di un nuovo decreto , concordato tra Regione, Università e territorio che dovrebbe sciogliere tutti i problemi derivanti da un contrasto , ampliato dalle recenti elezioni regionali che hanno visto il rettore Micari candidato per il centro sinistra e quindi in una posizione contemporanea di parte politica e di parte tecnica.

In realtà l’università di Palermo con motivazioni relative  al contenzioso in atto con il Consorzio, ha deciso di tirare i remi in barca per quanto attiene al corso di Architettura, Giurisprudenza e incredibilmente di Archeologia, con la motivazione relative al credito , peraltro in contenzioso, vantato dalla stessa.

Un’altra tegola di un certo rilievo  – continua il presidente Busetta – è stata la pseudo abolizione delle Province , che hanno fatto venire meno importanti risorse.

A breve si avranno notizie molto interessanti sulle nuove iniziative del CUA, che è un organismo vivo e vegeto , in piena attività, che sta lavorando alacremente per incassare i crediti, per pagare i debiti, per avere nuove iniziative di formazione che interessino gli studenti agrigentini.  Tra l’altro – conclude Busetta – abbiamo promosso una riunione di tutti i Consorzi siciliani con Lagalla e Armao che hanno assicurato una certezza economica a favore degli stessi Consorzi per poter programmare serenamente il proprio lavoro”.

Ovviamente non siamo d’accordo quando sia il Magnifico Rettore Micari che il presidente Busetta sostengono che la chiusura delle Provincie regionali ha dato il colpo di grazia ai Consorzi.

Una giustificazione, questa, che serve solo a colpire le menti meno intelligenti. Cosa vuol dire “i soldi prima passavano dalla Provincia”? E quindi? Chiude la Provincia e muore tutto? Chiudono i Consorzi, non si rifanno le strade provinciali, non si mettono in sicurezza tutte le scuole del territorio?

Quando il nostro direttore Lelio Castaldo è intervenuto in Consiglio comunale rivolgendo al Magnifico Rettore queste domande, il numero uno dell’Ateneo palermitano è rimasto alquanto perplesso (oltre che zittito). E’ un passaggio obbligatorio il denaro a favore dei Consorzi attraverso le ex Provincie? Perfetto, facciamolo passare attraverso il Comune, la Camera di Commercio, un qualsiasi Ente, una qualsiasi Associazione Culturale!

Oppure, meglio ancora, se davvero c’è la volontà di salvare il diritto allo studio (e la dignità) a migliaia di studenti agrigentini, quei soldi destinati al Polo Universitario si potranno versare direttamente nelle loro casse. Il passaggio “obbligato” attraverso le ex Provincie sembra un pretesto tanto pericoloso quanto di infimo gusto, per negare, invece, una volontà evidente che non vogliamo né pensare né scrivere.

Il Rettore Micari, ad Agrigento, ha anche detto: “Avevamo soltanto 12 iscritti nel corso di Archeologia, così non si poteva andare avanti”.

Per forza che non si poteva andare avanti! Anche in questo caso l’intervento in Consiglio comunale del nostro direttore Castaldo è stato incisivo; Castaldo rivolgendosi a Micari ha detto: “Come si può pretendere che i giovani della provincia di Agrigento vengano ad iscriversi al Cua dopo che sono almeno cinque anni che si fa terrorismo politico – mediatico sulla imminente morte del Consorzio di Agrigento? E poi – ha continuato Castaldo – ha ricordato al Magnifico Rettore che proprio recentemente aveva definito il Polo di Agrigento come un cadavere…”. Di gusto assai discutibile.

Anche in questo caso il Magnifico Rettore non ha espresso alcuna parola.

Il problema serio è un altro; occorre solo la volontà di portare avanti una delle pochissime realtà positive esistenti in provincia di Agrigento. Tutto ciò è nelle mani del vice presidente della Regione Gaetano Armao, dell’assessore Roberto Lagalla e del Magnifico Rettore Fabrizio Micari.

Quest’ultimo non faccia tesoro con la storia del contenzioso e guardi avanti. Lagalla, invece, deve solo trovare i soldi. Il che non è assolutamente difficile.

Del resto, come gli assessori regionali riescono a trovare (in un periodo di profonda crisi) i soldi per i propri viaggi istituzionali (triplicandone le somme rispetto a prima), non dovrebbe essere così difficile reperire le somme che hanno il fine di ridare dignità a migliaia di giovani della provincia di Agrigento.

Per favore, smettetela. Anche voi non siete stanchi?

Fare un omaggio ad una grande attrice non è mai cosa semplice. Almeno non lo è nella misura in cui il carattere artistico è talmente spiccato e riconoscibile che si rischia di sbagliare il registro, esasperando alcune sfumature, puntando tutto sulle caratteristiche riconoscibili dell’artista stesso.

Ed invece in questo caso, l’omaggio che Max Mazzotta realizza e porta in scena per ricordare quella donna che tanto ha fatto ridere – da sola quanto in trio – avviene in punta di piedi, con garbo e maestria. Max Mazzotta è un attore e regista con una immensa conoscenza della materia teatrale, dei meccanismi e dei tempi che il teatro impone. E poi sa sempre come scovare l’attore giusto per quella “precisa parte” e mi va di puntualizzarlo perché diciamolo…spesso cose belle, finiscono per essere attribuite alle persone sbagliate che alla fine non rendono per come si dovrebbe, né il testo, né le intenzioni del regista.

Mazzotta firma la regia di “Tre tentativi per un sogno” che ieri sera si è consumato sulle tavole del palcoscenico del Teatro dell’Acquario di Cosenza (nell’ambito della rassegna Milf realizzata da “Il filo di Sophia”) calcato da una ispirata e talentuosa Graziella Spadafora, che ha incarnato non tanto le movenze di Anna Marchesini, quanto i sentimenti. E questo perché lo spettacolo non è un’insieme di gag note, ma un excursus gentile nel tempo che fu, in quella strada che pian piano si aprì nella vita di Anna Marchesini, dalla passione acerba per il teatro, scoperta in seguito alla visione di uno spettacolo, e poi quei “tre tentativi” per raggiungere un sogno, divenuto così tanto vero, reale, appagante, da trasformarla, “trasformandosi” in una serie di altre vite, esasperate nei caratteri tanto da far ridere.

Ed è come se la biografia della Marchesini fosse caduta, planata nelle idee e nella genialità di Max Mazzotta che la immagina lì, seduta al centro del palcoscenico, mentre racconta quel che fu, dall’inizio fino alla fine, a quella fine che nella vita dell’artista fu una specie di colpo di scena, imprevisto e spietato.

Graziella Spadafora, interpreta in maniera minuziosa e carismatica le intenzioni del regista e l’essenza del vivere di Anna Marchesini; la incarna, non la imita, le ruba la verve, non la copia, la disegna, non la duplica. Ci mette del suo, la Spadafora, ci mette il suo modo di concepire la comicità, quella capacità di far ridere che però in alcuni momenti cruciali, mentre cambiano le atmosfere e le realtà artistiche, sa anche far commuovere. Si veste, si sveste e si mostra al suo pubblico, mostrando le emozioni della Marchesini che furono essenziali, in quel vissuto di persona e non solo di personaggio pubblico. Graziella Spadafora sa bene come raccontare le ansie dell’attrice, le speranze a volte deluse, le paure, perché anche quelle fanno parte di quella donna che si trasformò in tanti personaggi, che poi sono sopravvissuti a lei e che ieri sera, sono arrivati al grande pubblico attraverso la bravissima attrice scelta da Mazzotta. Graziella Spadafora è stata Anna Marchesini che parla di sé,  e poi ancora “la Signorina Carlo-la cecata“, “la sessuologa“, e “la cameriera secca dei signori Montagné“. Li ha fatti suoi i personaggi della Marchesini e li ha riproposti al pubblico senza ostentare, ma raccontandoli come se in quel pubblico ci fosse lei, la Marchesini che – a mio avviso – avrebbe riso, si sarebbe commossa e avrebbe applaudito così come il pubblico in sala ha fatto, a scena aperta.

Mazzotta è riuscito a raccontare un’attrice completa, ironica ma anche sensibile, che si innamora del teatro dopo aver visto “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello, e che poi parla con le sue piante e poi scrive. Racconta una donna che con compostezza e dignità ha affrontato una malattia invalidante, che poi l’ha strappata al mondo, ai suoi affetti, alle sue passioni.

Ottimo l’abbinamento delle musiche con i vari step in scena, come se ogni brano potesse essere il filo conduttore tra quei “tre tentativi per un sogno” e quelle domande che spesso finiscono per archiviarsi senza ricevere per forza la risposta giusta.

Che malattia è?” – si domanda la Marchesini nell’interpretazione della Spadafora. “E’ una strada stretta” – risponde il testo di “Sei nell’anima” di Gianna Nannini.

E poi conclude: “Ebbi cura di spostarlo, il silenzio, senza muoverlo”.

La comicità, la spontaneità e la schiettezza delle due attrici, che erano presenti entrambe ieri sera su quel palco, sono state le caratteristiche che hanno permesso ad un omaggio, di diventare magia.

 

Simona Stammelluti