Ha ormai tutti i capelli bianchi il pianista statunitense, ha la nonchalance di chi ha navigato abbastanza per potersi permettere tutto o quasi, ha la postura di chi non ha tante regole da seguire tranne l’estro che nel tempo l’ha reso riconoscibile e apprezzabile come uno dei migliori pianisti della scena jazzistica contemporanea.
Molti hanno azzardato paragoni tra Brad Mehldau e alcuni pianisti del passato. Lui si è sempre scrollato di dosso questo peso ed io, a dire il vero, c’ho provato ma non ci sono riuscita, forse perché quando lo ascolto provo sempre la stessa sensazione – che non mi accade spesso ascoltando concerti – ossia di riconoscere nel suo pianismo una sorta di effetto ipnotico che lui dispensa all’ascoltatore, attraverso quel suo modo di ripetere le note, in controtempo ostinato ed armonico, e si sentono tutte, le variazioni di tempo tipiche di chi è stato influenzato dalla musica classica e sa come allargare e poi stringere nel timing; e poi quella caratteristica di fare domande con la mano sinistra per poi rispondere con la mano destra, cosa che prima di lui (ma in maniera differente) aveva fatto meravigliosamente bene Bill Evans. E se in “piano solo” questo accade abbastanza spesso nelle esecuzioni pianistiche, più o meno bene, in trio diventa un dialogo aperto in cui tutti gli strumenti in gioco, danno una loro risposta che – in questo caso – non é mai sbagliata, anzi, è convincente e appagante.
Brad Mehldau, ospite sabato 12 maggio nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, ha ipnotizzato tutti, con la complicità di due musicisti sopraffini e perfettamente complici di ciò che il pianista aveva da raccontare.
Brani tratti dal suo ultimo lavoro discografico “Seymour Reads the Constitution!” in uscita in questi giorni, realizzato proprio in trio con due eccellenti musicisti – Larry Grenadier, strepitoso al contrabbasso e Jeff Ballard, raffinato e sofisticato alla batteria – che nella serata di sabato mi sono piaciuti tanto quanto il leader.
Alcuni dei brani eseguiti sono originali, ma combinati con alcuni pezzi pop.
C’è grande scorrevolezza, fruibilità e godibilità nelle esecuzioni, come in “Ten Tune”, e poi quel linguaggio personale che non ammicca ai giganti del passato. E la performance è ancor più apprezzabile proprio nella misura in cui la stessa si snoda su reinterpretazioni di brani di altri compositori, con il focus su opere di Cole Porter, o “and I love her” di McCartney.
La rivisitazione di alcuni pezzi noti – come These foolish things”- è originale, si sente tutta la sua originalità stilistica, ma non abbandona quasi mai il tema; Mehldau lo imbastisce in ingresso e poi in un tempo ampio lo ricama, con Grenadier che usa l’archetto e Ballard che spesso si serve delle spazzole; Ballard che anche negli assoli non strafà, non si ostina, ma lascia suonare tanto i tom quando il rullante in maniera calibrata e appassionante, dando al contempo dimostrazione della sua bravura all’interno del trio, che è in perfetta armonia.
Nel jazz una performance in trio può diventare un piano solo e non solo un “assolo” ed e tutto normale, tutto appagante, tutto calibrato. Questo sabato sera è accaduto, ed è stato uno dei momenti più ricchi di pathos. Tutto si ferma, al momento giusto, e lui, quel Pianista che parla poco ma suona tanto, che si lancia in poche parole in italiano e più recupera il suo inglese per piccoli convenevoli, continua a suonare come se avesse da dire qualcosa di importante e sapesse farlo solo così.
Corre sui tasti verso le note acute, si lascia andare al virtuosismo, nuotando con bracciate sicura nelle acque calme di ciò che sa fare bene. L’estetica della sua arte pianistica si riappropria poi del trio, di quell’interplay che resta la chiave di volta di chi si propone in formazione.
I brani corrono lungo il tempo e lo ingoiano facendoti dimenticare che sta “andando” perché tu sei lì, che cerchi di capire cosa faranno un minuto dopo.
Nel jazz un pezzo può durare anche 20 minuti e alla fine dici “già finito?” Perché in alcuni ascolti si perde la dimensione spazio/temporale, si chiudono gli occhi, il tempo non scorre, batte.
Nel jazz quando si è più d’uno conta moltissimo l’affiatamento tra i musicisti, l’Interplay, la sintonia, un po’ come in quelle coppie che lo vedi da subito che si capiscono anche senza parlare.
Nel jazz ci sono tante formazioni eppure il trio così come era strutturato sabato sera resta una delle mie formazioni preferite.
4 bis…l’atmosfera era impregnata di jazz, emozioni e pathos e nessuno voleva finisse. Quel pubblico era caloroso e affamato.
Lo dice Mehldau : “sento una buona energia; è quella che mi da la carica” e allora va avanti, vanno avanti, suonano complici con i loro strumenti e tra di loro, suonano con la tecnica ma anche con l’estro che appartiene a chi non ha paura di osare.
Sono lontani gli anni in cui Mehldau dalla musica classica si converte al jazz, per poi rivoluzionarlo il mondo del pianismo jazz, e dopo anni di sperimentazione armoniche, sembra tutto perfettamente in equilibrio tra lo spunto di genialità e il senso della polifonia.
Simona Stammelluti