Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 54 di 90
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Tragedia dopo la piena del Torrente Raganello, all’altezza della gola “ponte del diavolo”, a causa del maltempo

 

L’unico gruppo censito nella zona che fa parte del Parco Nazionale del Pollino, nel Comune di Civita (Cs),  era uno composto da 17 persone inclusa la guida del posto. 

I  corpi recuperati al momento sono 10, 4 donne di cui una ragazza giovane e 6 uomini, ma Il numero è destinato a salire considerato che c’era un numero imprecisato di escursionisti “fai da te” di cui si disconosce il numero esatto, tra cui tanti turisti giunti da tutta Italia.
Pertanto anche il numero esatto dei dispersi è ancora approssimativo. 

L’ondata di piena dovrebbe averli travolti nel primo pomeriggio.

I corpi recuperati giacciono adesso in una palestra messa a disposizione dal comune di Civita. La scena è raccapricciante e i familiari delle vittime, sono in condizioni di grande sgomento e dolore.

Sul posto un gruppo di lavoro incessante, uomini della Protezione Civile, Vigili del Fuoco, sommozzatori e Soccorso Alpino.

A coordinare i lavori, la Procura di Castrovillari, guidata dal dott.  Eugenio Facciolla.

Aggiornamento ore 00:30 – i Carabinieri del nucleo Operativo di Cosenza, intenti nell’identificazione delle vittime. Nulla di invariato circa il numero degli altri dispersi.

Simona Stammelluti 

Aretha Franklin non c’è più, ha detto addio al mondo, oggi, 16 agosto 2018 dopo una lunga malattia.
 
La sua voce era unica e come tale sarà ricordata.
 
La cosa rara di Aretha Franklin, è che era “semplicemente” una grande cantante, una cantante che con la sua voce, poteva fare qualsiasi cosa.
Cantava il Rhythm & Blues, il jazz, poteva cantare l’opera e se avesse voluto avrebbe potuto cantare anche il country.
Hanno cominciato a chiamarla la “Regina del Soul” negli anni ’60 quando lei aveva appena che 20 anni e nessuno ha mai provato a toglierle quel prezioso soprannome.
Chiunque la sentisse cantare, ne veniva ispirato. Era un’ispirazione che lei canalizzava dal gospel nella musica soul, e in quella sua musica che parlava della vita delle persone, la vita di tutti i gioni.
Si pensi a canzoni come “Think” che è stato uno dei suoi messaggi più forti, un grande inno alla libertà di pensiero, ed è una delle poche canzoni che ha scritto.
Lei era la cantante che aveva 100 canzoni nelle classifiche Billboard R & B e 17 singoli pop nelle Hits, ma la cosa più importante fu il modo in cui lei inculcò la libertà di espressione anche negli altri cantanti, il modo in cui mostrava agli altri cantanti come con la voce si potesse anche volare.
Si può sentire un po’ di Aretha Franklin nella voce di Whitney Huston, o in Chaka Khan; ma si può avvertire l’anima di Aretha Franklin anche nella voce di alcuni uomini, che a lei si sono ispirati, come Luther Vandross; si può sentire Aretha Franklin nell’R & B tanto quanto nella musica americana tutta.
 
Eppure non è stata sempre nelle classifiche; ci sono stati dei periodi negli anni ‘70 o ‘80 in cui non riusciva ad avere una canzone di successo.
Coloro che le passavano il materiale, in quel periodo, la deludevano. Alla fine della sua carriera, si poteva sentire Aretha cantare la canzone di Adele e allora viene da pensare a cosa sarebbe successo alla sua carriera, se avesse avuto degli scrittori migliori…probabilmente avrebbe avuto molti più singoli di quei 100 in classifica.
Non c’è forse nessuno al mondo che non ami “Respect” e fu lei stessa in una intervista a dire che “mai avrebbe immaginato che le associazioni di tutela dei diritti civili l’avrebbero adottata come un mantra”. Suo padre era stato coinvolto nella battaglia dei diritti civili, lei fu vicina a Martin Luter king, cantò anche davanti al primo presidente afroamericano in America e questo fu per lei un momento clou.
Era la regina indiscussa del soul e lei riusciva a mettere tutta l’improvvisazione del gospel, nelle canzoni che parlavano di amore, e canalizzava lo spirito del gospel anche in situazioni cosiddette mondane.
Il gospel è costantemente con me, ovunque io vada, qualcuna cosa faccia”- diceva.
“Amazing Grace” è lo “standard” gospel che tutti conoscono; è una canzone bellissima e struggente, e quando senti Aretha Franklin cantare quella canzone è una condizione di trascendenza, una sensazione che ti porta al di là.
In lei c’era sempre quel sentimento che le permetteva di canalizzare qualcosa di più grande, di eccelso, dentro quel suo personalissimo ed inimitabile modo di cantare.
 
Simona Stammelluti

Ci sono tanti dischi in giro; altrettanti me ne giungono affinché io dica la mia, in merito a ciò che ascolto. Li ascolto tutti, molti una volta sola e poi mai più, altri più di una volta perché prima di dire se mi è piaciuto o meno,  oltre che il perché, ho bisogno di più di un ascolto.  E poi ci sono i dischi come quello di Francesco Bragagnini, che oramai posso dire di conoscere a memoria, perché ascoltarlo è stato un vero piacere. Ormai conosco tutte le parti, potrei riscriverne alcune ed eseguire il tema dei pezzi, al piano, perché l’ho fatto mio, dopo averlo ascoltato e riascoltato in loop per giorni.

È un bel disco jazz L’Heure Bleue”, come ce ne sono un po’ in giro, ma non tantissimi.

E un bel progetto; è un progetto amabile nel senso che è un disco che si può ascoltare più e più volte, senza che lo si abbia a noia, ma che al contrario, crea dipendenza alle cellule ciliate e ai recettori sensoriali.

È un disco che finalmente ha un titolo che ha un senso, rispetto a quello che viene suonato. O meglio, è capace di ripercorrere il significato del titolo; E’ un disco che racconta, che parla di quell’ora del giorno in cui il sole va giù, di quel momento chiamato crepuscolo, in cui le cose cambiano, perché la luce cambia da un attimo all’altro, da un momento all’altro; Ecco, il disco è capace di fotografare quel momento preciso, è capace di cambiare le sonorità anche all’interno dello stesso pezzo ma con logica musicale, non in maniera astratta.

Mi piace l’idea di ospitare un’altra chitarra – che poi è quella di Russ Spiegel – e poi della batteria che accompagna, ma che sa anche prendersi il suo spazio quando necessario.

E’ un lavoro particolarmente creativo, i pezzi sanno diventare dolcemente malinconici, trasformando un’armonia maggiore in un’armonia minore, ma mai in maniera scontata e questo significa che Francesco Bragagnini che ha immaginato e poi realizzato gli arrangiamenti, conosce molto bene le dinamiche armoniche, cosa non sempre riscontrabile in molti musicisti jazz. Ci sono musicisti che se gli chiedi di cambiare una tonalità di mezzo tono,  hanno difficoltà.

I fiati – tromba e flicorno di Flavio Davanzo e i sassofoni contralto e soprano di Giovanni Cigui  –  sono ben incastonati nella dinamica acustica.

La chitarra di Bragagnini è morbida e non ostinata, ha un tono caldo, come i colori del cielo nell’Heure Bleue, e questo significa che è capace di richiamare ogni nota, per come viene concepita.

L’evoluzione al piano con la mano destra di Nicola Bottos  in alcuni pezzi è pulsante, e  ricorda la “fuga”.

Esiste un prima e un dopo in questo disco:

Le due parti sono divise da un pezzo che si chiama “Fotografia in bianco e nero” che segna proprio un passaggio tra due momenti sonori,  proprio come nel passaggio da quella fase in cui la luce debole del giorno scivola nel buio, e un attimo dopo il buio è pesto, è notte e tutto diventa senza colore, diventa in bianco e nero e questo “scolorimento” in musica, è stato descritto benissimo perché i fiati suonano nelle note lunghe, senza evoluzioni, e la batteria di Luca Colussi mette a punto un tempo in quattro quarti.

“Memorie sospese” è il titolo della prima traccia e già l’idea della bellezza del disco prorompe nel suono della chitarra che apre il pezzo in maniera felpata e del piano che le risponde con dinamiche adornate di forme scattanti.

In “Tempo Indefinito” il tempo è portato dalla batteria di Luca Colussi tutto in levale, ed è quello lo spazio ideale per la chitarra, per raccontare il suo di tempo, tra improvvisazione e la voce raffinata del contrabbasso di Alessandro Turchet. Improvvisazione dinamica, quella della chitarra di Bragagnini, che si ferma su alcune tranche per poi lasciare spazio al piano.

Parole immaginate che inizia con una sonorità che ricorda un richiamo: pàpa unpa-pa, poi entra la chitarra di Russ Spiegel con un fraseggio molto stretto, e la melodia si inchina alle armonizzazioni, tema e contrappunto del piano a cui risponde il contrabbasso, e l’ultimo tocco è dei piatti.

C’è grande interplay tra i musicisti.
C’è energia e sintonia.
C’è conoscenza reciproca e intesa.

“Nuovo giorno” – pezzo scritto in memoria del maestro Andrea Allione – è un vero capolavoro e forse il mio pezzo preferito, di quest’album. Condotto da una tromba dal suono limpido, appassionato, che porge la melodia al piano, che esegue note a terzine;  ma poi torna protagonista la tromba che finisce per suonare note altissime, tuffandosi in un accordo maggiore, con un solo stupendo.

Hai mai provato a lasciarti traghettare dall’altra parte del giorno?
Beh, questo disco è capace di portarti dall’altra parte, lì dove tutto si annulla e poi rinasce.

Non c’è nulla di musicalmente ostinato in questo disco, tranne il talento di chi suona, che si nutre di un pianismo sofisticato e leggero. Nulla di scontato, anzi…di grande gratificazione uditiva. E’ un album jazz, con dinamiche jazz e la giusta intensità tra note singole e passaggio armonico.

Le Note blu minori sono le note di passaggio, mentre la notte scivola, nel blu.

È un racconto in musica;  ascolti questo disco e vedi le immagini scorrere davanti ai tuoi occhi.

Anche la copertina del disco è particolarmente suggestiva; mostra l’Heure Bleue sulla città, su una strada a tre corsie, che corre lontano, mentre tu scegli che pezzo veste meglio le tue emozioni.

Nel disco la chitarra di Bragagnini disegna il tema con quel suono ovattato e caldo, come se il suo intento fosse accarezzare, conciliare, ispirare. Coordinazione perfetta tra suono e ritmo e allora alla fine di questa recensione mi viene da dire che non solo questo è un disco per intenditori ma anche per chi vuole approcciare al jazz. Mi viene anche da sottolineare come  questo progetto meriti fortemente di essere proposto in rassegne, in festival e in manifestazioni di spicco. Perché non sempre è vero che a suonare sono indiscutibilmente i più bravi; ci sono tantissimi bravi musicisti che hanno idee interessanti, che sanno comporre ed arrangiare e hanno tanto da dire, così come è accaduto al fortunato album “L’Heure Bleue” che vi consiglio di ascoltare e poi magari regalare, se volete fare un dono di qualità.

 

Simona Stammelluti

 

 

Non avrebbero potuto fare scelta migliore, Andrea Pontedoro e Francesco Pignataro – Maestri liutai, rispettivamente Presidente e Vice Presidente dell’Associazione Liuteria Bisignanese – insieme a Luca Gencarelli, responsabile ai rapporti con gli enti, nell’invitare Beatrice Valente giovane e talentuosa contrabbassista nonché cantante, come ospite insieme al chitarrista Ivan Ciavarella, per il concerto tenutosi ieri sera 11 agosto, nella splendida cornice del Duomo di Bisignano dove ieri in mattinata si è tenuto un convegno dei Liutai di Calabria, e nel pomeriggio è stata aperta una mostra di liuteria classica, durante la quale liutai professionisti e semplici amatori hanno avuto modo di incontrarsi, mostrando le proprie creazioni senza pregiudizi, condividendo esperienze in una forma di apertura e di crescita reciproca.

l’evento “Liuteria tra Arte&Cultura“, è stato un successo, merito anche della performance della musicista partenopea Beatrice Valente che in duo con il chitarrista Ivan Ciavarella, hanno letteralmente incantato tutti i presenti intervenuti puntuali per il concerto in serata. Presente tra il pubblico, anche il sindaco di Bisignano, Francesco Lo Giudice, musicista e appassionato di musica ed arte, testimonianza di come la competenza non è solo un valore aggiunto, quando si vuole e si deve gestire la cosa pubblica.

Beatrice Valente, classe 1993, figlia di musicisti – in famiglia lo sono tutti, i suoi genitori, i suoi zii, suo fratello – è una creatura straordinaria. Nessun compromesso tra la sua bellezza e la sua bravura, che è prorompente, mentre la sua bellezza è semplice seppur difficile da ignorare.

Mi viene da dire che Beatrice Valente è una musicista che malgrado la sua giovane età – ha una grande padronanza del suo strumento, oltre che del mezzo vocale, che ha sicuramente allenato in concomitanza allo studio del contrabbasso. Spesso fa con la voce quel che il suo strumento le suggerisce e questo è la dimostrazione di come la conoscenza approfondita della tecnica musicale, del tempo, del controtempo e della dinamica, le permettono una sicurezza nel cantato che poche altre cantanti hanno o hanno avuto, alla sua età. Ha una estensione vocale notevole, la sua voce sa essere limpida e cristallina, tanto quanto roca e calda, a seconda del repertorio che regala, con strumento e voce. La conoscenza dei generi musicali è ampissima, conosce benissimo il jazz, gli standard, la musica italiana, quella partenopea, la musica sudamericana, samba, bossa nova. E’ un caleidoscopio di colori e toni, di armonie sofisticate, di mood accattivanti e di un talento travolgente.

Ieri sera, insieme al chitarrista Ivan Ciavarella con il quale ha un ottimo affiatamento musicale, ha proposto un repertorio vario, da Pino Daniele a keith Jarrett, da Diane Schuur a Jobim.

Non è difficile notare come la bossa nova sia il vestito musicale che meglio delinea la sua personalità. Eppure nei blues per esempio, io ho sentito delle dinamiche che sono appropriate al suo stile.  Meno semplice è invece seguire – per chi ha un orecchio tecnico – i dettagli del suo cantato e del suo modo di suonare il contrabbasso, che suona anche ad occhi chiusi, come i più navigati dei musicisti. I dettagli del suo contrabbasso, che non fa solo da base ritmica ma che ricama le melodie, le intesse per renderle, insieme alla chitarra, ricche di groove e di fantasia. Non mancano nella performance le parti di improvvisazione, che sono un gioco di idioma su struttura jazzistica, capace di creare un’atmosfera che spesso, da i brividi. Le mani di Beatrice Valente volano sulle corde, disegnano sempre nuove geometrie sonore, senza mai trascurare il tempo, fondamentale per un contrabbassista.

Non legge le partiture Beatrice; suona pizzicando le corde del suo contrabbasso, che fa quel che lei vuole. Non legge le partiture perché le conosce bene, le ha fatte sue, il suo tocco sa essere energico e poi felpato, e nel duo, spesso lascia alla chitarra di Ivan Ciavarella la possibilità di esecuzioni che diventano la pista di decollo del cantato della Valente.

E’ disarmante, mentre parla con il suo pubblico. La sua voce, che nel cantato sa raggiungere una potenza non indifferente, diventa discreta, sottile e soffice, nel parlato, ed incanta, sempre.

Tanti gli applausi per loro, tutti meritatissimi.

Difficile dire cosa mi sia piaciuto di più della performance di ieri sera, considerato che il repertorio era davvero per tutti i gusti. Ho molto apprezzato il duo nella fase bossa nova. “Corcovado”, di Jobim, pietra miliare della musica brasiliana, che Beatrice ha cantato con una padronanza sia della parte musicale che della lingua, cantata. E poi ancora, “Insensatez”, che inizia chitarra e voce, che quasi vorresti che non finisse mai quel suonare, così accorato e così pieno di phatos e poi ancora “Falsa Baiana”, che fu di Joao Gilberto, che lei canta e suona con una verve e con tutte le sfumature brasiliane tanto che se chiudi gli occhi, sei altrove. E come non ricordare “Alfonsina y El Mar“,  cantata e interpretata con il filtro della “gioventù”.

Eppure la Valente è così versatile che riesce a passare da “Estate” di Bruno Martino a “Memories For Tomorrow” di keith Jarret con la padronanza che appartiene a chi è dotato di talento ma che ha speso tempo – tanto tempo –  nello studio, perché la Valente è la dimostrazione di come quando capisci di avere un dono, inevitabilmente devi accudirlo quel dono, con studio, dedizione e fatica. Lei lo fa e continuerà a farlo, perché è quella la sua strada, quella che porterà all’olimpo. Ci sono dei dettagli che Beatrice avrà modo e tempo di mettere a punto, di approfondire, di forgiare, trovando sempre meglio lo stile nel quale dare mostra del suo talento. Ha solo 25 anni, verrebbe da dire, sentendola suonare e cantare così bene. So però che quegli anni li ha spesi bene, imbracciando ed abbracciando quello strumento con una cassa poco più piccola dello standard – così come lei stessa spiegava ieri sera ai liutai – dedicando alla musica quella energia che cammina di pari passo con la volontà di diventare un numero uno. Diverse le formazioni nella quale si esibisce Beatrice Valente, e dunque vale la pena ascoltarla ancora.

Nessuno dei presenti voleva lasciarli andar via, ieri sera e allora un bis lo hanno concesso. Chitarra e voce, l’anima di Pino Daniele nella voce di Beatrice Valente e nella chitarra di Ivan Ciavarella – molto bravo nel calibrare il suono della chitarra alla voce di Beatrice –  un pizzico di malinconia e un’atmosfera che i presenti non dimenticheranno: “Che ore so” è il pezzo. Forse è tardi per tante cose, ma è presto per Beatrice Valente che ha tutto il tempo che vuole per raccontare la sua arte. E la sua bellezza? Un dettaglio in più.

Arte e cultura, diceva il titolo dell’evento.

C’era tutto, ieri sera.

Avanti così, affinché questa terra di Calabria, possa ospitare ancora il talento, alimentando curiosità e voglia di risorgere.

 

Simona Stammelluti

 

 

 

Ieri 4 agosto 2018, si è chiuso in bellezza il Beat Onto Jazz Festival nella splendida cornice di Piazza Cattedrale in Bitonto, dopo 4 giorni di grande musica.  La manifestazione, giunta alla sua 18esima edizione – festeggiata ieri sera con una bella torta – è stata, anche quest’anno, la dimostrazione di come la cultura (anche musicale) per dare i suoi frutti deve nutrirsi di curiosità e perseveranza, di passione e di competenza e tutto questo, in questi 18 anni a Bitonto si è consumato, grazie all’Avvocato Emanuele Dimundo, direttore artistico della Kermesse, che ha fatto dono di sé e della sua passione alla comunità, all’ Associazione InJazz, agli sponsor che anno dopo anno hanno creduto al progetto, all’amministrazione comunale che ha sposato l’iniziativa e che ha sostenuto economicamente buona parte delle spese necessarie alla realizzazione del festival, permettendo così non solo la gratuità dell’evento, ma dimostrando di sostenere con forza la volontà e l’impegno di educare pian piano la popolazione al bello, al nuovo, riuscendo così a cambiare le sorti di un luogo, dell’attenzione che si da ad esso ed anche a valorizzare con un contesto culturale, quel che fino a pochi anni fa sembrava impresa difficile.

Le serate – mi sembra doveroso dirlo – hanno avuto il loro successo, oltre che per la caratura dei musicisti che sono intervenuti sera dopo sera al festival jazz, anche per la competenza e la padronanza con cui Alceste Ayroldi – critico musicale, docente ed esperto di jazz – ha condotto le serate, introducendo gli artisti, intervistandoli e accogliendo non solo i musicisti, ma tutti coloro che sono intervenuti alla pregevole manifestazione e vi assicuro che sera dopo sera, la piazza è sempre stata gremita.

A chiudere l’edizione 2018 del Beat Onto Jazz Fest ieri sera nel primo set, il sassofonista inglese Stan Sulzmann e il suo Italian Quartet che ha portato sul palco Massimo Colombo al pianoforte, Maurizio Quintavalle al basso, Enzo Zirilli alla batteria. La cosa che salta all’orecchio, in una performance come quella di ieri sera è che i musicisti, tutti bravi con una possente esperienza alle spalle, hanno dato dimostrazione non solo di agilità tecnica ma anche mentale; basti pensare alla difficoltà oggettiva che c’è nel dialogo pianoforte-sassofono, che però ieri sera tra Colombo e Sulzmann è stato accattivante. Le velocità nelle scale, è una caratteristica comune ai due musicisti, le evoluzioni al sax sovrapposte sapientemente ai virtuosismi pianistici. Il supporto della base ritmica è ben calibrato e il controtempo è ricco e pulsante.

Un concerto poco mainstream – inteso come convenzionale – e molto radicato nella tradizione jazzistica (il concerto è stato proprio per gli appassionati) che conserva l’originalità che appartiene a chi sa come smontare una convenzione, per reinterpretarla a proprio gusto.

Ottima la performance sullo standard di Gershwin “My man’s goes now“, una ballata che a me è venuta in mente nella versione di Bill Evans in trio con LaFaro e Motian o in quella cantata da Nina Simone. La versione dell’Italian Quartet, ha lasciato che fosse il sassofono ad essere protagonista, ma il tessuto imbastito è stato adeguato allo stile di Sulzmann, e le improvvisazioni sono state di gran fascino. Nella performance anche pezzi originali scritti dal maestro Colombo e sul finale un omaggio a  Ornette Coleman con il pezzo “Humpy Dumpy“, un vero e proprio racconto, e si sa, quando si racconta ognuno lo fa a modo proprio. E allora Stan Sulzmann e il suo quartetto lo fanno a modo loro, fingendo di cercare la nota giusta, in partenza di pezzo e poi prorompendo in bellezza ed espressività, nella libertà delle forme, con il tema affidato all’ispirazione del solista.

E se di solito ci si domanda, mentre si assiste a questo genere di connubio artistico come si siano formate alcune sinergie musicali, alcuni incontri, ieri sera è stato Enzo Zirilli a raccontare di aver conosciuto Mr. Sulzmann a Londra, città dove il batterista viva da anni, e di avergli poi proposto questo sodalizio già in piedi tra Zirilli, Colombo e Quintavalle con il progetto musicale “Powell to the People”. E non si fa fatica a capire che l’affiatamento tra i musicisti italiani è spiccato, ma il quartetto è senza dubbio arricchito dal grande talento inglese.

Erano da poco passate le 22,30 quando sul palco è salito il gruppo che tutti attendevano sin dal giorno di apertura, il gruppo più grande e longevo del genere fusion dal 1977 e che ha delle caratteristiche così spiccate che non si può non farsi travolgere. A chiudere il Beat Onto Jazz Fest, nel secondo set ieri sera, gli YellowJackets, per l’unica data in Puglia, già in tour lungo lo stivale per il piacere degli appassionati del genere.

Will Kennedy alla batteria, Dan Anderson al basso,  Russell Ferrante al pianoforte e Bob Mintser ai sassofoni. La formazione non è quella originale, alcuni elementi si sono avvicendati negli anni, ma sentendo Mintser ai sassofoni, nella formazione dal ’90 e il giovanissimo Anderson che quel basso l’ha fatto suonare con virtuosisimi sentiti poche altre volte in vita mia,  viene da dire “che gruppo!Una tavolozza di suoni e sfumature, pure gioia in musica, capaci di coniugare il jazz  ad altri generi come l’R&B, genere dal quale sono partiti, ad accenni di musica afro-americana, a nuance pop. Che poi con quel William Kennedy alla batteria c’è da riconoscere che se la base ritmica è in equilibrio e sa confezionare il tempo con tempra e verve l’atmosfera è assicurata. Rullante e cassa hanno risuonato in quella piazza con un “battito” travolgente. E va bene che questo gruppo stratosferico abbia fatto il buono e il cattivo tempo, per oltre un trentennio, considerato che la loro è musica strumentale ad altissimo livello.

Interplay, mood funky ma con spiccata impronta jazzistica, gli Jellowjackets sono diventati il paradigma di questo genere. Il sassofono (anche elettrico usato ieri sera da Mintser) non ha limiti sonori e il pianoforte di Russell Ferrante sa come correre nell’armonia senza tralasciare le sfumature del piano e del forte. E l’australiano Dan Anderson mi ha particolarmente colpito. Perché se la line-up consolidata di Ferrante-Kennedy-Mintser, viaggia come un treno, non fa nessuna fatica il giovane bassista a restituire in feedback un sound compatto e coerente, con virtuosismi, timbrica ed effetti che  ricordano la genialità di  Pastorius. Non è certo un concerto in cui puoi avere un passaggio da canticchiare, questo è certo, come è certo che non è un genere per tutti. Bisogna essere avvezzi al ricerca della sonorità oltre l’armonia, ma poi alla fine non serve…perché si è talmente travolti da una musica complessa che si può togliere lo sfizio di rimanere sempre giovane, attuale, accattivante.

Che dire, un plauso a chi questa manifestazione l’ha voluta, a chi l’ha realizzata, a chi c’ha creduto e a chi negli anni ha dato conferma di come mettendosi insieme, facendo gruppo e sfidando il luogo comune circa i concertoni a grandi cifre, si possono realizzare manifestazioni di grande caratura e di grande fascino.

Al prossimo anno

Enjoy

 

Simona Stammelluti

 

 

 

 

La consegna del prestigioso riconoscimento all’attore e regista cosentino, Lunedì 6 agosto a Rizziconi

COSENZA – Dopo il Premio Internazionale “Silvana Luppino” arriva anche il “Premio Elmo” per l’attore e regista cosentino Max Mazzotta.

La consegna dell’importante riconoscimento giunto alla settima edizione e istituito dall’Associazione culturale “Piazza Dalì”, è prevista per lunedì 6 agosto alle 20,30 nella suggestiva scalinata della Chiesa di San Teodoro Martire a Rizziconi.

Il Premio ispirato all’elmo di San Teodoro, patrono della stessa città e che ha come slogan “storie di ordinaria cultura”, dà spazio all’innovazione e alla ricerca con artisti affermati in arte sperimentale e contemporanea, impegnati concretamente a valorizzare il concetto di cultura nel Sud Italia e non solo.

Tra questi anche Max Mazzotta, già allievo di Strehler, fondatore della storica compagnia teatrale “Libero Teatro” e volto noto del cinema italiano.

Max Mazzotta è il primo attore a ricevere il Premio Speciale Elmo – spiega il presidente dell’Associazione “Piazza Dalì” Gianmarco Pulimeni –Nella rosa dei candidati c’erano diversi artisti ma la giuria, coordinata in qualità di presidente dal giornalista e autore tv per Mediaset Domenico Naso, ha scelto Max all’unanimità perché è uno di quegli attori che più rappresenta la Calabria. Tutti abbiamo visto i suoi film e ammirato il suo talento. Per noi averlo tra i premiati quest’anno significa coronare un sogno

“Mi fa molto piacere ricevere questo premio e ringrazio i giovani soci dell’associazione Piazza Dalì per quello che fanno. Resistere e insistere in una piccola e difficile realtà del Sud, organizzare cose che abbiano un valore sociale e culturale nel nostro territorio calabrese” – commenta infine Max Mazzotta che proprio di recente ha ricevuto un altro prestigioso riconoscimento.

Lo scorso 21 luglio infatti l’attore ha ritirato il “Silvana Luppino” che premia le eccellenze italiane anche nel campo dell’arte sul palco del Castello Aragonese di Crotone per la quarta edizione della manifestazione organizzata dall’associazione culturale SoDaLe di Cassano allo Jonio in memoria di Silvana Luppino, direttrice del Museo Nazionale Archeologico della Sibaritide fino al 2014 e patrocinata tra gli altri dal Ministero dei Beni Culturali, la Regione Calabria e la Regione Campania.

 

 

 

 

Ancora due set, per la seconda entusiasmante serata del Beat Onto Jazz Festival (la prima serata qui) che si è aperto il 1 agosto e che andrà avanti fino a domani, 4 agosto, serata di chiusura nella quale si attendono con trepidazione, nel secondo set, gli Yellowjackets.

Nella serata di ieri  2 agosto,  due performance completamente diverse l’una dall’altra ma che hanno lasciato il segno, per motivi e caratteristiche differenti.

Nel primo set il quartetto jazz italo-francese Zeppetella-Laurent-Bex-Ariano che ha presentato il progetto nato un anno fa,  “Chansons!“, che declina in chiave jazzistica la canzone italiana ed anche quella francese, e così l’animo musicale all’italiana si fonde con passione a quello d’oltralpe. Un po’ come accade in America con i pezzi che nati per i Musical, nati per Bradway, sono poi finiti nelle mani dei jazzisti che se ne sono impossessati facendoli divenire standard. E seppur la canzone italiana, tanto quella francese può avere qualche limite, in questa trasposizione, il risultato del progetto è molto ben riuscito.

Fabio Zeppetella

Come dice lo stesso Zeppetella: “Alcune melodie non sono solo immortali, ma si prestano armonicamente ad essere riarrangiate anche in chiave jazz“. Ed è questo che è stato fatto, scegliendo dei brani che vanno da “E la chiamano estate” di Bruno Martino a  “Le bon dieu” di Jaques Brel, e poi ancora da De Gregori a Yves Montand.  Difficile dire se nel quartetto ci sia un leader considerato che i quattro componenti sono tutti dei talenti, ognuno con la propria precisa caratteristica stilistica e con il proprio background. Fabio Zeppetella alla chitarra e Amedeo Ariano alla batteria a rappresentare l’Italia, e per il jazz francese Emmanuel Bex all’organo Hammond e Geraldine Laurent al sax contralto.

La reinterpretazione dei brani è sofisticata, la linea melodica è affidata spesso al sax ma la cosa che colpisce della performance è che ogni strumento ha il suo spazio, nel quale far germogliare la parte solista e l’improvvisazione che però mai, abbandona la linea guida.

Bella la scelta dell’organo Hammond che già di per sé ha un suono che si presta a particolari atmosfere e che con la verve di Emmanuel Bex produce un significativo mood che permette un ottimo dialogo con i fiati e con la chitarra di Zeppetella che sa sempre come ricamare il pezzo, utilizzando il suo stile, la sua caratteristica ossia di produrre fraseggi dominanti, in un linguaggio sempre virtuoso ma a volte essenziale, e questa sua caratteristica lo pone a saper dialogare molto bene con i suoi compagni di viaggio.

Amedeo Ariano

Il sax di Geraldine Laurent rende il tutto molto ricco; non si risparmia la sassofonista che ricama note con un fiato infinito. E mi viene da sottolineare la bravura di Amedeo Ariano, capace di star dietro a quella pioggia di note del sax, alla potenza convulsa della Laurent, che predilige le curve del tempo, con un gioioso gusto melodico. E non è difficile rintracciare il suo stile bebop, denotato da schemi ritmici. La ritmica di Ariano è ricca, precisa ed inflessibile. E così accade che il sax introduce “Bocca di Rosa” di De Andrè, ma è quando entra l’hammond di Emmanuel Bex, che il tempo cambia e le note diventano velocissime.

Ho apprezzato di più la rivisitazione dei pezzi francesi; molto suggestivo “C’est si bon”, nel quale si legge la chiave jazz spiccata, sfacciata, ma credibile. Hammond in primo piano, poi Zeppetella che sa sempre come “cantarlo” il pezzo, le note restano sospese, ma quando diventa “ostinato” ti travolge e mentre ti godi quelle note così veloci, lui ti racconta di nuovo il tema.

Un bel progetto, senza troppi effetti speciali, ma con un bel disegno sonoro. Ottimo l’affiatamento e la capacità di intesa, che nel jazz è fondamentale.

 

 

 

 

 

 

Nel secondo set, qualcosa che in realtà si può solo provare a raccontare, perché solo se la performance la si vede dal vivo, si può comprendere il perché il cubano Pedrito Martinez è considerato il miglior percussionista al mondo.

Vincitore del premio Thelonius Monk, i giornalisti Jazz lo hanno premiato ogni anno dal 2014 ad oggi. Martinez ed il suo group – che sono stati ospiti anche ad Umbria Jazz nel 2016 – hanno letteralmente infuocato piazza cattedrale di Bitonto, ieri sera. La loro musica non è solo latina, ma è stata contaminata ed influenzata da molte suggestioni musicale, dal rock, dal pop e dal Jazz newyorkese con il risultato di saper regalare al pubblico un prodotto di grande virtuosismo. Sì perché la primo aggettivo che salta alla mente ascoltando Pedrito Martinez e i suoi compagni di viaggio è virtuoso. E prima ancora di poter analizzare la performance dal punto di vista musicale, vien da pensare alla quantità di energia e forza e resistenza profusa nel suonare le percussioni in quella maniera così talentuosa e travolgente.

Il gruppo ha una caratteristica fondamentale: sono tutti musicisti strepitosi ma sono anche dotati di una capacità vocale unica. Pedrito Martinez, voce solista e percussioni, Jhair Sala, percussioni e voce, Sebastian Natal basso e voce, e Jassac Delgrado Jr. tastiere e voce.

Ecco è quel “e voce” che impressiona. Perché lungo il percorso ritmico di conga, bongo, timpano, rullante e tanto altro ancora, che hanno note singole prodotte dall’accordatura precisa dello strumento, le voci dei 4 componenti del gruppo che cantano contemporaneamente, producendo le terze e le quinte anche diminuite, sono di una precisione straordinaria. Quindi suonano e cantano, come se si ascoltasse un disco, ed invece è tutto live.

La musica predominante proposta è quella latina, ma sono rimasta colpita dal tastierista che, contrariamente agli altri tre elementi del gruppo che suonano la base ritmica, ha prodotto delle variazioni jazzistiche degne di nota. Su e giù per quella tastiera senza perdere neanche una battuta, perfettamente in grado di produrre delle improvvisazioni velocissime incastonate in quel suono prodotto dai percussionisti che sanno davvero fare meraviglie.

Ritmi incandescenti, quel suono delle congas che ti sbatte nello stomaco e la meraviglia di vedere Pedrito Martinez che di suo ha anche una grande presenza scenica, essere instancabile mentre fa di quelle percussioni ciò che vuole, incantando tutti. La piazza ha poi accolto l’invito del gruppo a concludere la serata ballando…cosa che è avvenuta in maniera spontanea, perché quei grandi artisti – che fanno ballare tutta Manhattan – sarebbero capaci di travolgere chiunque, con il loro sound e la loro bravura, anche una seria appassionata di jazz come me.

Plauso all’associazione InJazz, al direttore artistico Emanuele Dimundo e ad Alceste Ayroldi che hanno saputo mettere insieme un programma variegato e colto, scegliendo dei progetti che meritano di essere raccontanti in una rassegna bella come il Beat Onto Jazz Fest che va avanti fino a domani, 4 agosto.

Enjoy

 

Simona Stammelluti

 

 

 

Cambia location il Festival Segreti d’Autore – Festival dell’Ambiente delle Scienze e delle Arti – e il 4 agosto a Serramezzana, in Piazza XX Settembre, alle ore 21 ci sarà un incontro con la versatile attrice e cantante Lina Sastri. A seguire la consegna del Premio Segreti d’Autore, scultura realizzata da Mimmo Paladino

 

Prosegue la Kermesse nel Cilento, e domani 4 agosto, Segreti d’Autore – Festival dell’Ambiente, delle Scienze e delle Arti – la cui direzione artistica è affidata a Nadia Baldi – cambia nuovamente location, dai borghi storici di Valle e Rocca Cilento si sposta nell’affascinante comune di Serramezzana, il più piccolo del Cilento storico, con La Signora della Scena, un incontro con la versatile attrice e cantante Lina Sastri.

La straordinaria potenza espressiva della Sastri, la sua autorevole presenza scenica, unite alla capacità di immedesimazione brillano in ogni ruolo interpretato dal teatro, al cinema, alla televisione.

La sua passione travolgente, la forza dell’interpretazione, dagli esordi teatrali nel celeberrimo Masaniello di Armando Pugliese, ai fortunati incontri con  Eduardo De Filippo e Giuseppe Patroni Griffi, la magia della sua voce nella canzone napoletana e non, fino al debutto cinematografico ne Il prefetto di ferro di Pasquale Squitieri e le indimenticabili prove d’artista in Mi manda Picone di Nanni Loy, Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci e L’inchiesta di Damiano Damiani, con le quali vince tre David di Donatello e un Nastro d’Argento, ci hanno donato una visione estremamente eclettica dell’interprete partenopea.

L’incontro si articola in un racconto teso ad indagare la natura del lavoro dell’attore, i sacrifici e gli sforzi ad esso connessi.

La serata si arricchisce di contributi video della lunga carriera dell’attrice e cantante.

Nel corso della serata a Lina Sastri verrà conferito il Premio Segreti d’Autore 2018, una scultura a cura di Mimmo Paladino.

 

Si ricorda che l’ingresso agli eventi è gratuito.

 

Per qualunque informazione

www.festivalsegretidautore.it

Al via ieri 1 agosto, nella splendida cornice di Piazza Cattedrale in Bitonto, la 18esima edizione del Beat Onto Jazz Fest, una kermesse di grande musica che nel corso degli anni ha visto avvicendarsi sul palco alcuni dei più grandi nomi del panorama jazz nazionale ed internazionale, da Danilo Rea a Diane Schuur, da Peter Erskine a Paolo Fresu, e poi ancora Roberto Gatto, Pietro Condorelli, Renato Sellani, Robertinho De Paula, Mike Stern e tanti altri nomi prestigiosi che hanno abbellito ed arricchito di cultura la terra di Puglia, grazie alla passione del direttore artistico Emanuele Dimundo, che ha investito tempo ed energie per realizzare anno dopo anno  una rassegna jazz degna di nota e assolutamente gratuita, per il pubblico, il che significa non solo appagare l’orecchio dell’appassionato, ma anche riuscire ad educare giovani e meno giovani all’ascolto della musica jazz, ad insegnare a conoscerla e ad apprezzarla, un po’ alla volta, allenando l’orecchio e il proprio gusto.

Alceste Ayroldi e Emanuele Dimundo

Accanto a lui, ad introdurre i concerti, nelle 4 serate di agosto, Alceste Ayroldi, critico musicale tra i più accreditati dalla stampa nazionale, docente, esperto di musica, promotore culturale di grande spessore, capace di raccontare gli artisti e di sottolineare le caratteristiche di spicco dei loro progetti, molti dei quali presentati durante la rassegna.

Ieri, una prima serata tutta al femminile, due concerti con al centro le voci di Daniela Spalletta, che si è esibita nel primo set con gli Urban Fabula e a seguire Carmen Souza, in trio.

Due progetti musicali così diversi tra loro, ma entrambi variopinti; Due voci ricche di colore e di sfumature, ma anche di tecnica e di attitudini.

Nel primo set la cantante, compositrice, arrangiatrice siciliana Daniela Spalletta, che con la voce sa fare meraviglie, con il suo stile contemporaneo che si veste di jazz conservando però una sua identità personale, senza mai cadere nel cliché; dotata di grande maturità espressiva, di capacità  improvvisativa, oltre che di una ottima estensione. Il suo linguaggio musicale ed espressivo non è mai scontato, neanche nella realizzazione di standard o di pezzi noti, e nelle sue performance, veste l’arte del canto, con la padronanza dell’aspetto armonico di chi sa fin dove ci si può spingere e come fare. Perché lei con la voce sa sempre dove andare, canta le note, le incastona ad una ad una, passando dall’acuto del falsetto che è sempre cristallino, alle note gravi, scure, difficili da esibire ma che, nel suo caso, non perdono mai di intonazione.

Insieme a Daniela Spalletta ieri sera sul palco del Beat Onto Jazz Fest, gli Urban Fabula, un trio di giovani musicisti con Peppe Tringali alla batteria, Alberto Fidone al contrabbasso e il siciliano Sebi Burgio al pianoforte, giovane pianista di grande talento mai improvvisato, versatile, già pianista di Gegè Telesforo, capace di realizzare un pianismo fluido ed espressivo.

Pezzi tratti dal suo lavoro discografico, D Birth, quelli che Daniela Spalletta ha presentato ieri sera, e dentro ci sono tutti i colori che la musica può concepire. “D Birth“, il primo pezzo che da il nome all’album, e poi ancora “Manipura“, e “Fuga“. Nei brani si sentono prorompenti le contaminazioni di stile e armonia di altri continenti, e la bravura della Spalletta sta proprio nel rendere quella contaminazione appagante e credibile.

Far Away” –  pezzo del quale Daniela dice di essersi innamorata dopo averlo sentito nella versione di Astud Gilberto e Chet Baker – lo ripropone senza fronzoli, con il contrabbasso di Fidone in primo piano. Lo racconta e lo interpreta, la Spalletta, con quella punta di nostalgia che la sua voce sa far trasmigrare da se al pubblico, regalando brividi.

Bello il pezzo in Siciliano “Zara” – che in siciliano significa zagara tipico fiore profumatissimo – che suonato in maniera molto suggestiva pianoforte e voce, racconta di un amore che viene confessato con un bacio.

E poi ancora “But not for me” di Gershwin, in una particolarissima versione in cui voce e piano dialogano, in botta e risposta, e nella performance traspare forte non solo la bravura dei componenti del gruppo, ma anche l’interplay e la conoscenza minuziosa che la Spalletta ha del mezzo vocale.

Un primo set ricchissimo di musica ben suonata, di talento e di jazz, nella accezione in cui lo stile diventa il mezzo, e chi lo usa sa come farne meraviglie.

Nel secondo set, l’atmosfera travolgente della cantante portoghese, di origine capoverdiana, Carmen Souza che reca nella voce le sfumature della musica africana, brasiliana, cubana e di New Orleans. Un tripudio di ritmo, controtempo, in quella voce calda e capace di cantare rotondo, pieno, corposo. Canta e poi suona la chitarra e il pianoforte, Carmen Souza, e dialoga musicalmente con i suoi compagni di viaggio, Theo Pas’cal, suo mentore e produttore, uno dei migliori bassisti portoghesi, che ieri sera ha suonato contrabbasso e basso elettrico e che l’ha inserita nel mondo del jazz, che l’ha accompagnata nel viaggio in cui i dialetti musicali sono stati riscoperti e utilizzati per creare le atmosfere che ieri sera abbiamo ascoltato. Sul palco nel secondo set, uno strepitoso Elia Kacomanolis, alla batteria e percussioni.

Carmen Souza, che fonde perfettamente, con eleganza e raffinatezza i ritmi tradizionali africani e capoverdiani con Jazz contemporaneo e afro-latino. Il tutto accompagnato da una grande presenza scenica, una capacità di coinvolgere il pubblico con il quale dialoga, al quale chiede la collaborazione emotiva, che arriva, puntuale, e travolgente.

Lei, che si è ispirata a Ella Fitzgerald, ha saputo passare da brani originali scritti con Pas’cal, tratti dal suo lavoro discografico  Creology – sintesi creola di tutto il soul del mondo – fino a pezzi noti, come “Mas Que Nada“, “Moonlight Serenate“, ovviamente vestiti con abiti nuovi, accattivanti.

I musicisti non solo hanno suonato con lei e per lei, ma sono anche stati eccellenti coristi, creando l’atmosfera giusta, segno della musica africana e sudamericana. La musica di Carmen è limpida, è aperta e dentro ci finisci perché non ne puoi fare a meno. Lei ti incanta, ti ipnotizza, con quella sua capacità di perseverare sulle note, sugli accenti e sui controtempi, che poi sono il dettaglio prorompente del suo modo di fare musica. Ci sono innumerevoli suggestioni musicali nella sua perfomance, il Sound, il Soul, il Sole nella sua musica, e in quel Sorriso disarmante.

Serata di grande caratura artistica, quella di apertura del Beat Onto Jazz Fest, e si va avanti fino al 4 di agosto. Visitate il programma qui

http://www.beatontojazz.com/index.php/il-jazz-festival/edizione-2018/programma

e venite a sentire questi musicisti dal vivo.

Enjoy

Simona Stammelluti

 

 Varchi la soglia dell’Arena di Verona e la sensazione è sempre la stessa: una sorta di euforia che si mischia alla consapevolezza che quel luogo è fantasmagorico, tutto è amplificato, tutto è impeccabile.
Ieri sera, in una delle cornici più suggestive dello stivale, Sting ha fatto meraviglie. Ma non era solo; i suoi compagni di viaggio gli hanno permesso di realizzare uno show stratosferico.
Lui, Sir Gordon Matthew Thomas Sumner, un pezzo della storia della musica mondiale, 40 anni di carriera, oltre 100 milioni di dischi venduto, 13 Grammy, impegnato nel sociale, uomo semplice e disarmante; lui, che ospita gli amici nella sua tenuta in Toscana ma che non spiccica una parola in italiano; lui cantautore, polistrumentista, lui pop, rock, fusion, jazz, new age; lui, che scopre e sceglie un allora giovanissimo Brandford Marsalis, sassofonista, per l’album del 1987  “Nothing like the Sun”; lui che firma un vero e proprio sodalizio con Dominic Miller straordinario chitarrista argentino che negli anni insieme a lui ha scritto capolavori come “The shape of my heart” e che durante il concerto di ieri sera ha regalato momenti di puro piacere.
Perché lui, Miller, suona benissimo ma non ha bisogno di strafare per dimostrare il suo talento, suona in maniera versatile, realizza sì evoluzioni con la chitarra, ma seppur con uno stile inconfondibile, preferisce la tecnica, la precisione, l’armonia. E sorpresa delle sorprese, sul palco ieri sera anche Rufus, suo figlio…chitarrista anch’egli, e alla batteria Josh Freese rockettaro, che é stato anche batterista di Lenny Kravitz.Un concerto quello di ieri sera, che Sting ha condiviso con Shaggy. Una strana coppia, si direbbe prima di ascoltarli, ed invece è un duo che seduce il pubblico, sia i semplici appassionati che gli addetti ai lavori. L’energia travolgente del reggae che scivola tra le pieghe blues di Sting, e così la voce suadente ed impeccabile di Sting, si fonde al fascino e alla versatilità dello stile giamaicano. E se Sting è impeccabile tanto nel cantato – non sbaglia una nota – quando nel suonare il basso, altrettanto lo è Shaggy che da mostra di grande carisma ma anche di talento canoro e lì, nell’Arena, l’audio non mente.

Il look dei due è singolare: t-shirt basic con disegnino del concerto e jeans nero per Sting, camicia bianca e jeans denim per Shaggy, che indossa una paglietta e porta un foulard con i colori della Giamaica attaccato ad un passante.

È un susseguirsi di momenti mitici. Il concerto di apre con “Englishman in New York” e l’Arena di Verona subito esplode.
La scaletta corre via veloce, a parlare con il pubblico è il giamaicano che regala tra l’altro un momento di grande intensità quando sottolinea durante la serata che siamo tutti diversi, “c’è un inglese, un giamaicano e tanti italiani, ma siamo un solo, unico popolo”. Una forza della natura Shaggy che canta e balla, e con lui due straordinari coristi di colore – Monique Musique e Gene Noble – che hanno trovato il giusto spazio durante il concerto, per far sentire di cose fossero capaci.

Shaggy, ha cantato Sting e viceversa.
Shaggy ha fatto i cori a Sting e viceversa.
Sinergia, versatilità e grande appeal ha tenuto legati i due artisti che si sono divertiti ed hanno divertito.

I pezzi storici dei Police, riproposti durante il concerto di ieri sera, sono senza dubbio contaminati, vestono nuovi arrangiamenti ma conservano le intenzioni e il carisma, oltre che identità espressiva.

Diventano “nuova versione”, più ricchi di accenti e di sfumature armoniche.
If You Love Somebody Set Them free” mostra il reef dell’influenza sudamericana.
Si alternano, i due artisti, ma tengono altissima l’attenzione e le energie del pubblico.
E così anche Sting canta “Angel”, e durante “Shape of My Heart”, sarà Gene Noble ad abbellire la performance, con quella voce delicata che ricorda Craig David, che crea evoluzioni che corrono lungo la melodia con una impeccabile intonazione e con quelle sfumature che solo una voce nera sa consegnare. Il pubblico è in piedi, incantato.

Walking on the Moon, so Lonely…e poi Shaggy che entra con Strength of a Woman. “The italian Woman” – incalza l’artista giamaicano e l’Arena risponde.

Lo step che inizia con “Message in a bottle”, che scivola dolcemente su “Fields of gold”, punta dritto a “Waiting For The Break Of Day”, Brano di Shaggy e Sting tratto dall’album Reggae “44/876” che da altresì il titolo al tour.

Shaggy di ragamuffin ti incanta e ti travolge, balla, si muove e si pone strategicamente a fianco a Sting, che invece nelle sue pose da rockstar, si dedica ammiccante al suo basso e a 67 anni “suonati”, canta come se il tempo per lui non passasse mai. Inconfondibile quella sua voce rotonda, con un’ottima estensione, contaminata di suo, dal suo gusto e dalla sua predisposizione ai suoni e alle note blues, nella quale si sente la tecnica ma senza mai strafare, quella voce roca ma mai forzata. Lui che è bravo, ma che non deve dimostrare mai nulla a nessuno e che se ricama sul tema, lo fa con la naturalezza di chi sa fin dove ci si può spingere. Lui, che schivo non parla mia troppo, ma che semplicemente cantando manda il pubblico in visibilio.

È inutile cercare di spiegare cosa accade durante pezzo come “Walking on the moon” o “Desert Rose” – che Sting regala nel primo bis insieme a “Every Breath you take” – lo si può immaginare da se. Il pubblico canta, porta il tempo e si commuove, così come è accaduto a me.

È un gioco da ragazzi, unire Roxanne a Boombastic e il ritmo che ne nasce sembra non dover finire mai.

Shaggy si prende il suo posto nella performance, e dopo “Sexy lady” e “I was me”, indossa la parrucca da giudice e Sting indossa la mitica maglietta gialla a strisce nere – simbolo del “pungiglione” –  finge di essere alla sbarra  ed è “Don’t make me Wait”, nuovo lavoro discografico firmato a 4 mani.

Ripercorrere in due ore i successi di 40 anni di carriera di Sting, alcuni riproposti in una veste nuova, scoprire che l’emozione è incontenibile, che il talento è un privilegio della vita, per alcuni, che la bravura propria è un dono che si fa agli altri, che le contaminazioni, anche in musica sono la miglior propulsione per l’arte, che si può cambiare tenendo inalterato il proprio essere, mentre alcune cose non cambino mai…come la consapevolezza che la passione muove il mondo, la curiosità è il motore della cultura e che la musica arriva dove nessun altro linguaggio sa far meglio.

Tutto questo a Verona, ieri sera, in un’Arena sold out, in un concerto che è iniziato prorompente quando ancora c’era la luce del giorno e che poi è terminato sulle note di “Fragile” sotto l’occhio di una luna meravigliosa.

Cosa mancava?
Ad ognuno sarà mancato qualcosa o qualcuno, ma senza dubbio i ricordi legati al proprio pezzo preferito, hanno accarezzato una nostalgia.

Mi viene da dire che l’Arena, ieri sera, mi ha suggerito come a volte le giuste distanze da ciò che abbiamo a vista e a cui rivolgiamo la nostra attenzione, ci fornisce un significativo feedback per continuare ad amare ciò che scegliamo a discapito di chi sceglie sempre il posto in prima fila e si perde il panorama migliore (anche sonoro)

Simona Stammelluti