Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 53 di 94
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La solidarietà che ancora commuove, quella che arriva da dove non l’aspetti ma che quando arriva travolge e lascia senza parole. Così  arriva anche il ringraziamento dell’Arcivescovo di Bologna, Monsignor Zuppi, che ringrazia a cuore aperto i detenuti per aver partecipato a quella che è stato una vero e proprio atto di carità.

E’ accaduto infatti che i detenuti della casa circondariale di Bologna, hanno voluto donare quel poco che avevano, facendo una colletta, per aiutare i poveri e i senzatetto della città. Un gesto di solidarietà verso chi è nell’indigenza. Anche i detenuti versano in stato di indigenza, ma non hanno esitato a donare, a raccogliere quel che avevano per donarlo. Un atto di grande generosità che si consuma tra le mura di un carcere, dove regna non solo la colpa ma anche una sorta di redenzione. Il carcere deve rieducare e riabilitare non solo punire per le colpe compiute. E vien da pensare che tra quei detenuti, qualunque sia il reato per il quale scontano la pena, ci siano persone mosse da un sentimento di pietà e di carità verso chi non ha davvero nulla.

E in un periodo storico come questo – che passerà proprio alla storia per indifferenza, odio, razzismo e abbandono – sorprendono gesti come questo e lasciano intravedere una forma di salvezza collettiva, di riscatto umano, nel vero senso del termine, un ritorno all’ “umanità” che mette in moto lo stare tutti “sulla stessa barca”, malgrado si giochi e far credere di essere tutti diversi, per meriti che ancora in molti disconosciamo.

Riscattare dunque, quel termine, prendendocene la responsabilità, ognuno per come può, come hanno fatto quei detenuti, attraverso quella loro scelta così appassionata e consapevole. Tornare ad umanizzarlo, questo mondo, che sta diventando freddo, e al freddo molti ci stanno, che sta diventando cinico, perché questo vogliono farci diventare, che è crudele nelle scelte che contemplano differenze assurde,  come se una vita valesse più di un’altra. La sofferenza, la crudeltà, l’odio, l’indifferenza, l’emarginazione, sono già esplosi sotto una disumanità che cerca di travestirsi da altro, ma non vi riesce più.

Perché la disumanità di consuma sia nelle condizioni di vita di coloro che hanno bisogno della colletta dei detenuti per non morire, e poi nelle scelte spietate di chi può fare e non fa, di chi lascia che si muoia in mare, di chi diffonde odio negli stadi, di chi disprezza un preside gay e decide di punirlo con una scritta sul muro di una scuola.

E invece, chi sta scontando una pena, perché così la legge stabilisce, perché così è giusto, ha dimostrato che si può e si deve porgere una mano. Perché la pena peggiore, resta quella del cuore, l’aridità delle menti e la povertà dell’animo.

Domandarsi da che parte stare, come hanno fatto quei detenuti che hanno accolto l’invito dell’Arcivescovo e che hanno dimostrato che ce la si può fare, se non si perde il senso di questa vita che dà e a volte toglie, ma che non dovrà mai toglierci la speranza.

 

Simona Stammelluti

 

 

Piange Gino Murgi, il sindaco di Torre Melissa in provincia di Crotone dove questa mattina all’alba  sono stati accolti 41 migranti curdi, salvati dal naufragio.

Piange ai microfoni di Radio Capital raccontando quello che ha visto e che ha provato, quello che è accaduto in quella cittadina che ha dato una lezione di umanità senza precedenti.

E’ stata una mattina tremenda” – dice Murgi –  e poi continua il suo racconto. Pioveva, il mare era agitato. Eppure c’è stata tanta umanità profusa, una continua accoglienza e costante sinergia di forze nella coordinazione del salvataggio.

I cittadini in maniera veloce, quasi in un batter d’occhio sono intervenuti. Sono arrivati immediatamente abiti, coperte, pasti caldi. Nessuna forma di indifferenza.

Ma come si fa ad essere indifferenti davanti ad una mamma con un bambino di 3 mesi in braccio?  – Il sindaco si commuove –  come si fa ad essere indifferenti davanti a qualcuno che ti chiede aiuto, che ti dice che sulla imbarcazione ci sono ancora i suoi figli? Ho pensato ai miei figli, ai figli di tutte le persone della nostra comunità”

Alle 4 del mattino i cittadini di Torre Melissa si sono tolti i giubbotti di dosso, e li hanno dato ai ragazzi che scendevano dalla barca.

Questo è il rispetto per la vita – continua Murgi – e non ci dovrebbe essere colore politico in situazioni come queste. Bisognerebbe tirar fuori l’umanità che abbiamo dentro”

Non aveva mai vissuto una situazione del genere il sindaco di Torre Melissa e non dimenticherà mai quei bambini bagnati, infreddoliti, viola dal freddo e dalla paura

 

Simona Stammelluti 

 

I dati dicono che solo a Cosenza – come si legge sulla Gazzetta del Sud – nella notte di capodanno sono stati  46 i minori finiti all’ospedale, vittime dell’alcool. I dati nazionali sull’alcolismo nei giovani sono allarmanti;  1,7 milioni  sino ai 24 anni, di cui 800 mila minori ai quali l’alcool, dovrebbe essere negato, sia nella vendita che nella somministrazione.

Dalla spavalderia del sentirsi adulti al vizio del bere, il passo è breve.

Una volta sola e poi basta, voglio solo vedere com’è“, si trasforma in una consuetudine. Nei locali si beve, a volte senza limite perché è proprio il limite la sfida; e il superarlo, il brivido. Sono tante le forme di autolesionismo e l’alcool è uno di quelle. I giovani paragonano l’essere grandi, alla capacità di superare un limite,  sia esso di velocità, di bottiglie di birra bevute o di sigarette da fumare. Il limite è l’unica spinta che hanno. Perché per il resto, i giovani vivono in un mondo tutto loro, primo di passioni e di voglia di fare, indaffarati nel mettere insieme sfide virtuali e giorni tutti uguali che li fa crescere senza accorgersene, perché troppo intenti ad ignorare le sfide vere, quelle fatta di obiettivi e di traguardi, di fatica e di soddisfazioni. Vivono chiusi nei loro mondi fatti di “black mirror” e di vite dentro uno schermo,  che alterano la percezione dei sensi, tutti. Non sentono, non vedono, non interagiscono se non attraverso il mondo virtuale, o giochi di strategia e di ricostruzioni di mondi rasi al suolo senza un perché. Anche le loro vite a volte vengono rase al suolo, nell’indifferenza generale.

I giovani hanno perso la capacità di pensiero critico, di rispetto delle regole e di percezione dei proprio limiti e delle proprie potenzialità. Spesso sopravvivono a loro stessi, alle loro cattive abitudini e ai loro vizi. Tra questi, anche l’alcool. Ma la responsabilità non è la loro, o meglio non solo. L’alcool è venduto nei supermercati, nei bar, nei locali notturni. Non ho mai visto una commessa chiedere un documento di identità ad un minore che arriva alla cassa con una bottiglia di birra o di superalcolico. Così come non accade nei locali modaioli delle città, dove nessuno controlla quanto bevano i minori o cosa accade dopo che sono andati a spendere la paghetta settimanale, al bancone dei pub.

Eppure qualche mese fa ad Edimburgo l’esperienza vissuta in prima persona mi ha restituito una realtà diversa; quella di un luogo dove le problematiche si affrontano in maniera drastica, e dove la piaga dell’alcolismo giovanile si combatte in maniera rigida, vietando categoricamente la vendita ai minori, e in quel “categoricamente” c’è tutta la perentorietà del caso.

Mia figlia, sedicenne, con me a pochi metri, mette sul bancone di uno “Scotch Experience” una bottiglietta da collezione e un pacco di biscotti al burro. Alla domanda della commessa se fosse maggiorenne lei risponde di essere insieme a sua madre e che quella bottiglia è un souvenir da portare in Italia. Confermai quella versione, eppure da quel negozio uscimmo senza la bottiglietta di scotch, perché – mi dissero – nessuno poteva garantire loro, che usciti da quel locale io non passassi quella bottiglia di alcool a mia figlia.

Così è anche nei locali. C’è un controllo rigido sulla questione alcool.

E allora perché non vi sono gli stessi controlli sul territorio italiano? Perché non si vigila sul rispetto della legge che vieta la vendita degli alcolici ai minori? Dove sono le pesanti sanzioni? Dov’è la chiusura dell’attività per chi reitera? Perché si permette che 46 ragazzi vengano ricoverati a causa dell’alcol, alcuni in coma etilico, e che rischiano di spappolarsi il fegato e rischiando la vita?

Le domande restano sempre troppe, i minori vittime dell’alcool anche.
Sembrerà retorica, ma ormai gli adulti sembrano complici consapevoli dell’immaturità dei giovani. C’è una disattenzione generale, perché è più comodo così,  perché supervisionare sulle vite dei figli, è un compito di cui non conosciamo più l’importanza. Sapere, significa interrogarsi su eventuali errori e ritrovarsi ad ammettere di aver sbagliato, da qualche parte, è cosa da adulti; ecco, sì … da adulti.

Simona Stammelluti

 

 

PFF – Trisonata per corpo femminile e pianoforte, scritto e diretto da Valentino Infuso, con Valentina Cidda, che sarà in tournée fino a maggio 2019, debutterà in prima nazionale a Roma al Cometa Off dal 15 al 20 gennaio

“Prendete la forza espressiva di Jessica Biel, la carica devastata di Lana Del Rey, il rock di Sheryl Crow, la schiettezza di Alanis Morrissette, centrifugate… Ecco ci avviciniamo a questa interprete… Il poderoso testo è un apertura a cuore sanguinante messa in prosa dal regista e drammaturgo con enorme sensibilità e allo stesso tempo crudezza…”

Tommaso Chimenti

Un’opera teatrale perfettamente compiuta che ti ferisce e ti accarezza, fusione ed equilibrio fra vena drammatica e comica, che arriva a vertici inaspettati e travolgenti in un turbinio di emozioni, il tutto impreziosito da momenti di grande virtuosismo interpretativo e brillantezza musicale. Uno spettacolo capace di coniugare con grande sensibilità artistica parole, musiche e movimento in un racconto intenso, sconvolgente. Tutto questo è PFF – Trisonata per corpo femminile e pianoforte, scritto e diretto da Valentino Infuso, con Valentina Cidda, che ne compone anche le musiche originali.

PFF, pronunciato con la f prolungata, come un lungo sospiro che contiene ogni sfumatura emotiva, dal pianto al sollievo, dalla fatica alla resa, dalla disperazione alla speranza, dall’ illusione al disincanto, dalla dolcezza al dolore, dall’inizio alla fine, dalla fine ad un nuovo inizio…è il racconto di una donna, è la storia di una vita, narrata per narrare tante vite…narrata per parlare a tutti, donne e uomini.

 PFF è una favola tenebrosa e delicata, rude e dolcissima, spietata e amorevole…una favola i cui personaggi prendono vita plasmati dall’invisibile ad ogni istante, dove tutto è all’ultimo fiato, senza tregua, dove la storia di una vita si fa tessuto intrecciato di dolore e bellezza, un segreto di liberazione, un’ affresco intimo e profondissimo sull’anima umana…

PFF – Trisonata per corpo femminile e Pianoforte” è un opera alchemica,  e, come tale, drammaturgicamente si compone appunto, di “tre sonate” che insieme incarnano una sinfonia complessa, coraggiosa, sfrontata. Tre parti, tre fasi dell’esistenza, i tre stadi di mutamento dal piombo esistenziale alla ricerca dell’oro che siamo e possiamo Essere…

Nella prima sonata, “Origini” (del male), si  narra la nascita, “la caduta dell’angelo”, l’inizio del viaggio terrestre di una piccola donna che comincia a poco a poco ad essere piegata, logorata, congelata, dalle grandi bugie del mondo degli “adulti”: le aspettative, il giudizio, l’inganno, la prima violenza, la vergogna, la fuga da se stessi, lo smarrimento, la paura, il senso di colpa, la ricerca disperata di un respiro d’amore autentico che manca, manca sempre, manca ovunque, manca da sempre, …

La seconda sonata, “Inferno”, si apre con l’avvio verso la vita da “signorina”, e percorre, attraverso i passaggi del diventare donna, gli schemi che, dal primo germe di dolore originario, vanno a crearsi e ripetersi ostinatamente, sciami di demoni evocati e nutriti costantemente in un anelito inarrestabile di autodistruzione…la tensione alla vita, l’omicidio continuo di ognuno per mano di ognuno, il disincanto, il dolore, la fuga, la rabbia che salva dalla disperazione ma lo fa avvelenando inesorabilmente il cuore…

La terza sonata, è “Guarigione”. La trasformazione. E’ la dissoluzione dell’ego, la fine di ogni pretesa, la consapevolezza incarnata, la responsabilità riconosciuta, l’accoglienza della Bellezza, la resa. E’ un monologo muto, dove il vuoto purifica la parola…e la restituisce scarnificata e leggera, libera e solenne nella sua trasparenza inafferrabile.

PFF è uno spettacolo così perfettamente tessuto da sembrare un essere vivente di per sé palpitante, bruciante, urgente, divorante e fecondo, fiero, vero.

Avevo da tempo il sogno di mettere in scena un monologo che raccontasse una Vita,  attraverso l’interazione unica con il pianoforte, ma non avrei mai potuto realizzarlo senza la geniale scrittura e la straordinaria, folle, pazzesca regia di Valentino Infuso…dichiara l’attrice Valentina Cidda.  

Il Pianoforte, si fa essere in carne ed ossa, fedele compagno di scena, vissuto, attraversato, suonato e suonato magicamente, con le mani, i piedi, il corpo, l’anima, penetrato, abitato, logorato dal sangue e dal sudore e glorificato dalla pace di una trasformazione che è catarsi reale, nuda, e senza filtri.

Note di Regia e drammaturgia.

 Scrivere uno spettacolo per corpo (e anima) femminile e pianoforte. Ecco. Una bella scommessa in principio.

Il viaggio di Piano, Forte, Forte, è iniziato così, “semplicemente”, da un “discorso” intorno all’essere umano. Che si tratti di un viaggio nel femminile, questo è un “dettaglio”, è semplicemente un colore, una sfumatura, ma una sfumatura intensa, potente, di quelle che emanano odore proprio, che ha richiesto a me – e lo ha fatto senza mezzi termini – non la comprensione della sensibilità femminile ma l’emersione spudorata del mio femminile profondo. E di questo ringrazio tutte le donne che sono stato nelle vite precedenti. Ogni esperienza raccontata e rivissuta in scena da Valentina, infatti, è stata scritta attraverso la mia Verità, nulla di quello che racconto io in parole e lei in corpo, voce e sudore, è arrivato nelle sue vene senza che sia transitato per le mie, e, contemporaneamente PFF è PFF proprio perché creato e vivente attraverso ciò che Valentina Cidda è, nel corpo, nella voce, nel sentire, nella musica. Nessun altro potrebbe interpretare questo testo ed incarnare questa regia.”

 Valentino Infuso
 

 

 

 

Ritrovato nelle prime ore di questo pomeriggio nelle acque del porto di Schiavonea (CS)  un Fiat Fiorino che al suo interno custodiva un revolver. Il mezzo è stato recuperato grazie all’intervento degli uomini del nucleo sommozzatori dell’Arma dei Carabinieri

Sembrerebbe un evento poco allarmante se non fosse che segue di pochissimi giorni al ritrovamento nella stessa area marina, di un corpo in avanzato stato di decomposizione, appartenente ad un uomo sulla cinquantina attinto da 3 colpi di arma da fuoco che potrebbe essere quello del Boss coriglianese Pietro Longobucco, scomparso proprio giorni prima del rinvenimento del cadavere.

Quel che contribuisce ad infittire il mistero è la scomparsa del proprietario dello stesso fiorino, che ne aveva denunciato il furto solo pochi giorni prima del rinvenimento del cadavere e che a tutt’oggi risulta ancora irreperibile.

Se dunque gli inquirenti sospettano che si tratti di un presunto omicidio di ‘ndrangheta, considerate le peculiarità del delitto, si infittisce ancora di più il caso della scomparsa del proprietario del furgone.

La scomparsa del proprietario del furgone ha dunque a che vedere con il ritrovamento del corpo e del furgone?

E se si confermasse la mano dell’ndrangheta della piana ionica cosentina negli eventi accorsi, ci sarebbe da chiedersi cosa stia accadendo o meglio, cosa sia accaduto negli equilibri malavitosi della zona.

Resta dunque alla magistratura e agli inquirenti vagliare questa o altra ipotesi per ricostruire il complesso intreccio di eventi, susseguitesi in così breve tempo, e per altro in una ristretta area geografica.

Simona Stammelluti 

 

 

Certo in un periodo come questo, di profonda crisi politica, la Calabria non meritava gli eventi delle ultime ore che vedono il Presidente della Regione Gerardo Mario Oliverio sottoposto alla misura cautelare di obbligo di dimora  nel comune di San Giovanni in Fiore per il reato di abuso di ufficio.

Di tutto ha bisogno questa terra tranne che di perdere una guida in un momento così delicato. Se tutto fosse vero, se la magistratura dimostrasse quanto afferma, sarebbe davvero una sconfitta per questa terra, che sembra non avere più le armi per risorgere.

Fatto sta che il Presidente Oliverio,  indignato ma agguerrito, respinge in toto le accuse, e non ci sta a passare per l’amico degli amici dei mafiosi: “ho speso la mia vita per contrastare la criminalità di ogni tipo e per affermare la legalità e non permetterò a Gratteri o a chicchessia di infangare la mia vita e il mio impegno per il bene comune”.

Parole dette durante una intervista concessa a Rai News 24, ieri da quando Oliverio ha incominciato lo sciopero della fame, come protesta verso questo provvedimento che lo vede coinvolto nell’operazione della Guardia di Finanza di Cosenza in materia di appalti pubblici. L’accusa è abuso d’ufficio, l’inchiesta quella che riguarderebbe due appalti, uno sul tirreno cosentino ed uno un impianto sciistico in Sila. Nei confronti di alcuni indagati viene ipotizzata l’aggravante dell’articolo 7 del metodo mafioso, per aver agevolato la cosca di ‘ndrangheta Muto di Cetraro.

I polveroni sono il vero regalo alla mafia. Tra l’altro l’opera in oggetto delle indagini non è stata appaltata nel corso della mia responsabilità alla guida della regione” – afferma ancora il presidente Oliverio in una nota.

Sembrerebbe che Nicola Morra abbia chiesto le dimissione di Oliverio che rispondendo ad una intervista, si domanda come mai Morra abbia saputo delle indagini prima di lui.

Evidentemente ci sono nuovi poteri che custodiscono segreti e misteri” – dice Oliverio alla domanda di Davide Varì.

Mai mi dimetterò – continua il presidente della Regione – e  non mi dimetterò perché lo devo ai cittadini calabresi e perché non voglio piegarmi a chi sta stravolgendo i principi costituzionali”.

Aspettiamo di vedere cosa accade, anche se questo provvedimento appare un po’ anomalo, considerate le accuse. L’obbligo di dimora nel comune più vasto della Calabria con annesso boschetto dove passeggiare. Intanto vi è la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva.

 

Simona Stammelluti

 

La Piccola Compagnia del Piero Gabrielli – Teatro di Roma, rimetterà in scena per il quarto anno consecutivo L’albero di Rodari per la regia di Roberto Gandini, da Gianni Rodari, di Attilio Marangon; musica di Roberto Gori. Protagonisti: Edoardo Maria Lombardo, Gabriele Ortenzi, Simone Salucci, Giulia Tetta, Danilo Turnaturi. Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Biblioteca Quarticciolo dal 16 al 19 dicembre 2018.

Perdersi tra le pagine dolci e incantate che la penna di Gianni Rodari ha dedicato al Natale, al Capodanno e all’Epifania. Le letture di fiabe e filastrocche drammatizzate dalla regia di Roberto Gandini e adattate da Attilio Marangon prendono vita per la gioia dei più piccoli che, insieme al pubblico dei più grandi, potranno lasciarsi rapire da un universo di fiaba, magici incanti e ricordi lontani. Storie di gioia e felicità, ma anche di solidarietà estrema. Soffici riflessioni sul rispetto dei diritti dei più piccoli. Come quella di un tenero nonno alla ricerca dei giocattoli per i suoi nipotini che si imbatterà in un ambiguo Mefistofele alle prese con un marchingegno che fa scomparire oggetti e persone non graditi ai bambini. O la tenera parabola di un presepe in cui verranno catapultati Toro Seduto, un tamburino e un aviatore con tanto di aereo. E ancora, il racconto della rivolta dei personaggi classici del presepe, pastori e vecchine delle caldarroste, con tre finali possibili a scelta dei bambini, in un divertente gioco del destino saldamente nelle mani dei desideri dei più piccoli.

Letture recitate sotto l’albero alla scoperta dei tesori che le fiabe e le filastrocche di Gianni Rodariraccontano e continuano a conservare, affascinando il pubblico con l’ironia, la fantasia e la capacità di immaginare un mondo migliore. “Credo che le fiabe, quelle vecchie e quelle nuove, possano contribuire a educare la mente. La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo”, sono queste le parole di Rodariche forse si potrebbe dire “valgono anche per i grandi”.

Tessere e frammenti di un suggestivo mosaico di brani dello scrittore di Omegna sul tema del Natale, atmosfere e momenti di magico incanto che si trasferiscono dalla pagina alla scena per raccontare anche storie di solidarietà e vicinanza fra gli uomini. Parole e immagini legate in un gioco fatto di visioni, suoni, emozioni, ricordi, attraverso l’interpretazione di Edoardo Lombardo, Gabriele Ortenzi, Simone Salucci, Giulia Tetta e Danilo Turnaturi, che coinvolgeranno grandi e piccini in un momento di feste, in un periodo dell’anno in cui i ritmi si allentano, ci si riappropria del tempo famigliare e spesso si riflette sul valore delle persone e delle cose.

 

Parto svantaggiata.
Sono in mezzo ai fans di Cesare Cremonini senza esserlo.
Faccio fatica a concentrarmi su tutto quello che devo analizzare; mi guardo intorno. Il pubblico é variegato: famiglie, coppie etero e molte omosessuali. A fianco a me due uomini si baciano, poi si tengono per mano per tutto il concerto, così penso che alcuni amori nascano proprio sotto una buona stella, poi la musica fa il resto. Piace a tutti, il cantautore bolognese con quella sua voce così riconoscibile, che apre tutte le vocali anche quando canta … e quando canta lo fa bene.
Sarebbe scontato dire di un cantante che canta bene ed invece in questo caso diventa d’obbligo perché ieri sera al Palasport di Roma per la prima delle due serate nella Capitale, quella bravura è stata essenziale considerato che l’audio non era impeccabile; le parole cantate si capivano appena, in alcuni pezzi, e a volte mi sono scoperta a guardare il vidiwall che inquadrava il primo piano, per leggere il labiale, per comprendere i testi.
E dire che sono abituata ad ascoltare alcuni concerti (o parte di essi) ad occhi chiusi.
Ma quello di Cremonini è uno show in piena regola e lui si diverte a fare lo show man. Si diverte, coadiuvato dalla sua eccentricità in fatto di look e da effetti scenografici che coinvolgono e qualche volta distraggono.
Sul palco con lui tanti musicisti: tastiere, due chitarre, basso, batteria, due coristi, una tromba, un trombone e un sax. Sarà che sono abituata alle dinamiche della batteria jazz, ma il “battere”’di ieri sera mi è sembrato a tratti noioso, troppo prorompente su alcuni brani, tanto da coprire altre sonorità, le chitarre per esempio, anche se gli arrangiamenti un po’ disco music – realizzati proprio per contrastare l’anima intima e minimal del suo ultimo lavoro discografico Piano&Voce intitolato “Possibili scenari” – dettano il ritmo e le dinamiche dello show.
Cremonini canta, balla, con le sue scarpe dorate ed inquadrate in apertura di concerto mentre percorre i pochi passi dal backstage al palco, che poi diventano azzurre e poi rosse e dentro, lui ci consuma passi ed emozioni.
I brani in scaletta sembrano essere quelli del disco; parte con “Possibili Scenari” e poi è un andare indietro nel tempo, come se il racconto, in musica, debba partire da una maturità raggiunta per giungere lì dove tutto ha avuto inizio, mentre salgono a galla commozione e tenerezza verso ciò che è stato e che “si è stato”. A seguire “Kashmir-Kashmir” che si regge su un sound rock, con dentro accenni di elettronica, che strizza l’occhio un po’ al funky.
Ironizza sul coro del pubblico, si ferma e chiede di essere più convinti: “o da stadio o da orgasmo”.
Si inchina, ringrazia, sprona il suo pubblico che reagisce, canta e applaude ma non si fa fatica a notare come siano più apprezzate le canzoni più datate, quelle che forse hanno viaggiato più a lungo o perché probabilmente avevano testi più leggeri, senza impalcature. Io invece penso che Cremonini si sia evoluto come cantautore, nella scrittura di alcuni testi, incarnando quel fuoco che ha attraversato il cantautorato italiano.
Nessuno vuol essere Robin” o “Poetica” ne sono un esempio. Quel suo modo di mettere a nudo alcune insicurezze dell’uomo proprio mentre il mondo ci inserisce in scatole preconfezionate di finta perfezione.
Si emoziona il cantautore su “Momento Silenzioso” pezzo che ha 13 anni di età e che dedica a tutte quelle persone che sono state con lui, dalla sua parte, anche quando non faceva il sold out nei suoi concerti, quando era ancora in cammino.
Bello il momento in cui Cremonini suona il piano; i momenti più intimistici, come anche quello con la chitarra dimostrano quanto sia capace, perché sa suonare e dare forma alla sua musica anche senza eccessive sovrastrutture. E a volte la complessità si nasconde nelle sottigliezze.
Molto buono e originale il dialogo pianoforte e fiati che mi sono sembrati particolarmente in sintonia tra di loro e con il leader.
Cremonini il palco se lo mangia, lo naviga, lo consuma, sudando e senza risparmiarsi. Possiede presenza scenica senza essere particolarmente bello, corre lungo quella passerella che si insinua tra il pubblico, gioca con le telecamere.
Dice di non volerne sapere di matrimonio: “Ormai a 38 anni ho chiuso con questa prospettiva” e poi ironizza sulle telefonate che arrivano dalle ex proprio prima del loro matrimonio.
Al tuo matrimonio”, canta e dopo lo spiega:  “Non è vero che ho chiuso con il matrimonio, forse sono ancora in tempo per trovare la persona per la vita, tanto poi c’è il divorzio, che è per sempre”.
Latin LoverLost in the weekendUn uomo nuovoBuon Viaggio.
E poi ancora Figlio di un reUna come teVieni a vedere perché e Le sei e ventisei.
Canta Il Pagliaccio in controluce sullo schermo rosso e l’atmosfera è molto suggestiva.
C’è Cremonini dentro ad ogni pezzo, non abbandona mai le intenzioni con cui li ha forgiati, creati, per poi soffiarci di dentro un po’ di anima e cantarli.
Va avanti impetuoso fino alla fine. Fino a quel momento in cui chiede di mettere via i cellulari e di ballare con lui “50 Special”, quel pezzo che l’ha reso famoso quando ancora c’erano i Luna Pop.
Il pubblico esplode.
Manca ancora Marmellata #25, il pubblico la chiede e lui la concede. È uno dei momenti che ho più apprezzato della serata.
Nicola “ballo” Balestri, bassista e fedele compagno di viaggio del cantautore, diventato papà da poco, diviene lo spunto per cantare quel pezzo scritto a 15 anni, intriso di tenerezza e senza troppe pretese: “Vorrei”. Quel condizionale che ne ha fatta di strada e ha realizzato sogni forse all’epoca impensabili.
Domani sarà un giorno migliore, vedrai”.
Un augurio per salutare il pubblico romano che va via con una buona dose di adrenalina e quel ricordo attaccato ad una serata da ricordare.
Loro, i fans.
Io vado via pensando che alcuni arrangiamenti non mi sono piaciuti, che Cremonini sia un bravo artista e con la convinzione che abbia ancora tanto da raccontare come cantautore, mettendo a nudo alcuni sentimenti che a volte hanno solo bisogno  di una penna d’eccezione.
Simona Stammelluti

Quello che è successo nella discoteca di Ancora ha dell’incredibile ma nasconde tante realtà che come sempre non vengono considerate, fino a quando non si trasformano in tragedia.

Sembra assurdo, eppure rischiamo la vita – senza farci troppo caso – tutte le volte che decidiamo di assistere ad un concerto in luoghi che ospitano centinaia di migliaia di persone, che sia una discoteca, una sala da musica, un palazzetto, uno stadio.

Non pensiamo mai a cosa potrebbe accaderci, se ci dovessimo trovare in una condizione di emergenza; vi partecipiamo e basta, mettendo in cima alle nostre priorità l’evento desiderato e raggiunto.

Per chi come me ne vede più di qualcuno nell’arco dei 12 mesi dell’anno in Italia come all’estero, non è difficile notare quanto le misure di sicurezza e i controlli agli ingressi siano differenti da luogo a luogo, da nazione a nazione; non sono standard, non sono uguali dappertutto e già qui ci sarebbe da domandarsi perché. Ci sono luoghi dove i controlli sono così  rigidi, fiscali e assoluti (nelle borse, metal detector, controllo su eventuali sostanze stupefacenti ecc) da impedirti di portare all’interno di uno stadio o di una sala da musica anche il deodorante no gas, o una bottiglietta di acqua con il tappo, ed altri invece dove ti schedano e basta, apponendoti al braccio una fascetta numerata, che serve solo a contare il numero dei morti nel caso di strage.

Singolare come all’Arena di Verona i controlli siano spietati, mentre ad Edimburgo alla Usher All nessuno abbia guardato nella mia borsa.

E già così si fa presto ad immaginare come un comportamento irresponsabile di chi nella borsa porti una limetta per le unghie o uno spray urticante, possa divenire una roulette russa per tutti i partecipanti ad un evento.

Ma la cosa che più sconvolge è che si continua a non rispettare le regole, come se fossero un optional del buon vivere anziché una condizione irrinunciabile per limitare i danni e proteggere gli utenti.

Se un locale, uno stadio, una sala da musica ha una determinata capienza, perché la si riempie con più del doppio delle persone? Mi rendo conto che il punto di domanda sia alquanto superfluo, ma se la domanda non ce la si pone, siamo tutti un po’ colpevoli.  Il dio denaro regna sovrano. Più gente c’è più guadagno; cosa vuoi che accada? Accade che vengono giù le balaustre che non reggono il peso delle persone in eccesso in caso di pericolo; accade che le uscite di sicurezza non servono a nulla se devono smaltire le persone in eccesso in caso di pericolo; succede che il panico che regna sovrano tra centinaia di persone in più finisce per sconvolgere, travolgere, distruggere.

Distrugge la vita di 5 ragazzini tra i 14 e i 16 anni, una mamma che accompagnava al concerto la figlia di 11. E poi si contano i feriti, tanti, e quei sette che sono in coma farmacologico in pericolo di vita. No, non sono morti, non sono in lotta per la vita perché sono andati ad un concerto, no, non dovevano restare a casa, no. Dovevano trovare un luogo idoneo ad accoglierli, dove il numero di biglietti venduti fosse consono a quello consentito, dove i controlli avrebbero dovuto svuotare per bene le borse e le tasche da ogni oggetto potenzialmente pericoloso.

A me poco importa chi sia il rapper titolare del concerto. Ho sentito criticarlo, malgrado sia molto amato e abbia milioni di followers. Non importa il genere di musica, importa che la musica che dovrebbe essere la parte buona di quel divertimento che spetta a tutti, grandi e piccoli, non si trasformi in una trappola, voluta da chi non certo ingenuamente lucra e sfrutta un evento a discapito della collettività.

Il locale ora è sotto sequestro.
La Procura ha aperto un fascicolo per omicidio plurimo.
Si indagherà e poi chissà.

 

Simona Stammelluti 

Taglio del nastro e apertura delle porte del Museo del Presente sull’arte di Francesco Speciale e sulla sua mostra “Opera al Nero” visibile a Rende fino al 15 dicembre

L’arte è un viaggio.
A volte magia.
Altre volte semplicemente una serie di domande, di interrogativi a cui lo spettatore dovrebbe rispondere attraverso un feedback più o meno immediato.

La mostra del giovane artista Francesco Speciale, inaugurata ieri presso il Museo del Presente a Rende, è tutto questo insieme.

E se è vero che la magia si nutre di riti, il poterne fare parte, almeno per un po’ diventa un privilegio.

Le opere esposte, impongono degli interrogativi, inducono ad alcune riflessioni e mostrano tutto il percorso che l’autore ha elaborato, prima che divenisse opera d’arte.

Come spiegava il curatore della mostra e critico d’arte Roberto Sottile prima di dare il via alla mostra, le opere di Francesco Speciale nel tempo hanno subìto una sostanziale maturazione e come spesso accade, la verità si compie quando è pronta a mostrare anche la sua faccia più cruda. Di opere e di talento Sottile se ne intende e la sua firma ad avallo dell’arte di Francesco Speciale è la dimostrazione di come si può e si deve disegnare un percorso solo quando è maturo.

Ciò che impressiona delle opere esposte, è l’accuratezza con cui la mostra è stata concepita prima, e realizzata poi. Un percorso tra ciò che sappiamo dovrà trasformarsi, ma di cui non possiamo conoscerne il “come”, fino ad arrivare ai dilemmi che la vita stessa ci pone riguardo un passato, un futuro ed un presente che hanno un peso fin quando lasciamo aperte alcune porte e che poi cambiano la loro forza quando chiudiamo fuori qualcosa o se ci chiudiamo noi dentro qualcos’altro, per star lontani da ciò che ancora non siamo pronti a conoscere.

E poi la bravura dell’artista che ha realizzato tutto nei minimi dettagli, tutto con un preciso significato espressivo affinché lo spettatore potesse realizzare il suo viaggio tra l’alchimia e l’arte.

La mostra è ciò che resta dopo aver filtrato una preparazione che è avvenuta attraverso discipline come l’astrologia, la cristalloterapia, e l’ebanisteria. Intaglia, forgia, calca, tutto a mano Francesco Speciale. Utilizza gesso, ferro, cere, piombo, encausto. Fa tutto da se ma mai in un momento a caso. Mai nulla viene realizzato se non seguendo fasi lunari, godendo a pieno dell’energia delle gemme, e la vitale essenza del legno.

Il sacrificio, la decomposizione, il segreto. Questi alcuni dei temi, trattati nella mostra, con opere che esprimono il senso profondo di alcune trasformazioni. Anche la morte è contemplata e concepita come un passaggio che può avvenire più volte nell’esistenza, solo che a volte è consapevole e necessaria, perché dona un “dopo” che può avere un nuovo senso, una nuova luce.

Un viaggio mistico, spirituale, affascinante come solo l’arte a volte sa essere. Un’esperienza da condividere, ma anche da godere da soli, mentre si scorge in ognuna della opere in mostra, la profondità nella tridimensionalità, l’oscurità nella profondità.

La numerologia mi ha molto affascinato, visitando ed apprezzzando la mostra. Mi sarebbe piaciuto capirne l’utilizzo, il meccanismo che vien fuori dal quadro magico. Ma la bellezza di alcune opere è che devono conservare un senso di mistero e di magia, quella magia che ti resta appiccicata addosso, quando lasci un luogo dove si respira l’arte e i suoi mille perché.

 

Simona Stammelluti 

 

Credits: Photo Vincenzo Zicaro  che ne conserva la proprietà