
I critici sono affamati di nuovi progetti e di cose belle.
Soprattutto noi, intorno ai 50 anni, che di musica ci siamo nutriti e di dischi ne abbiamo sentiti tanti; che tanti progetti abbiamo visto e di altrettanti abbiamo scritto, a volte lodando, sottolineandone i punti di forza. Altre volte è capitato invece di dover essere spietati, perché non tutto il materiale che riceviamo, che sentiamo o a cui assistiamo, è degno di nota.
Poi capita però che ci si imbatte in dischi che non smetteresti mai di ascoltare, i cui brani vorresti passassero anche in radio, perché ti sembra assurdo che il grande pubblico non ne possa godere, perché il jazz, quello fatto bene, quello suonato da musicisti che nel tempo hanno trovato il proprio stile, che sono versatili ma anche originali, che sanno come convincerti, è una delle più alte forme di godimento derivante dalla musica.
Sono dischi che non smetteresti mai di ascoltare, non solo perché sono oggettivamente belli, ben suonati e accattivanti, ma perché sono il frutto di una maturità artistica, di un talento e di un affiatamento che diventa vero e proprio motore trainante, un mezzo per trasformare l’arte, in un dono, tutto da scartare e da ascoltare.
E’ il caso di “Triplets”, progetto firmato da Amedeo Ariano, tra i più bravi e talentuosi batteristi italiani, versatile, capace di raccontare di cosa è capace senza manie di protagonismo, e questo è stato – a mio avviso – un dettaglio fondamentale per la riuscita di questo progetto che vede come suoi compagni di viaggio, Luca Bulgarelli al contrabbasso e Francesca Tandoi al pianoforte e voce.
E’ un disco amabilmente jazz, ben calibrato, a tratti ammiccante.
E’ un viaggio nel mondo degli standard, della tradizione, ma senza regole da rispettare, con pezzi ri-arrangiati in modo originale ma senza mai abbandonare quell’atmosfera swing che Ariano suona con particolare maestria.
Il bello di questo disco è che non pensi alla carriera di ognuno dei musicisti che vi suonano – il che già da sola fa da garante di bellezza – perché sei preso dal modo in cui è stato suonato. La Tandoi è una jazzista tra le più capaci, suona il pianoforte, benissimo, e canta, altrettanto bene. Per me, è una delle voci più convincenti del panorama contemporaneo. E’ capace di porre l’accento sul modulo giusto, è affascinate, e l’interpretazione è credibile e sofisticata. Poi diciamolo … non si sceglie un contrabbassista a caso, se si pensa al ruolo del contrabbasso nel trio jazz canonico, e a Luca Bulgarelli con cui Ariano collabora da tanti anni ormai, si può chiedere qualunque cosa. Non vi è rassegna o festival jazz che non lo abbia visto ospite.
Ma non serve elencarne i curriculum, basta parlare del disco per scoprirne la meraviglia.La copertina del disco è cool.
Loro sono bellissimi, ammiccanti.
“In tre è meglio”, sembra suggerire.
Ma la verità è che il titolo “Triplets” non è messo a caso.
(Che bello quando i titoli dei dischi sono la porta d’ingresso di un progetto).
Già solo il titolo, qualche suggerimento lo dà.
Le “terzine”, che compongono il movimento nello swing, che riempiono i dodicesimi in cui le battute sono suddivise e che mettono a disposizione dei 3 musicisti, un tessuto ritmico che loro utilizzano senza esitazione e sul quale ricamano arrangiamenti degni di nota.
Otto sono le tracce, tra pezzi originali, standard e omaggi.
“Bulgariantandoj”, il pezzo originale, in cui basso e batteria, spadroneggiano, e nel cui dialogo si inserisce il pianoforte, che racconta il tema, che sfida la base ritmica e che diventa ostinato mentre usa il controtempo, come un vero e proprio linguaggio. Non c’è un dettaglio della sua batteria, che Ariano non sfrutta per coinvolgere l’ascoltatore.
La scelta degli standard è significativa.
“The Sheik of Araby” – di cui mi viene in mente la versione di Buddy De Franco – nel disco conserva la verve e il tempo serrato, ma è florido di dettagli ritmici. Velocissime le note sulla tastiera del pianoforte e impeccabili le spazzole di Ariano sul rullante. Il contrabbasso che entra in un dialogo con il pianoforte e che porge il doppio tempo alla batteria che è fonte di un groove incontenibile. La cassa pulsa con leggero anticipo, i piatti suonano le sincopi e il charleston scandisce i movimenti deboli. La perfezione è servita.
“I thought about you”, famosissimo standard che fu interpretato dalle più belle voci femminili, ti accoglie in quell’atmosfera dettata dal tempo “sospeso”. Dettaglio che si sposa benissimo con l’intenzione del brano che “guarda attraverso”. Attraverso immagini che qui, arrivano prorompenti in musica. Le note velocissime in alcuni passaggi, e poi gli accordi che incedono e il rullante che vibra senza compromessi.
“I didn’t know what time it was”. Senti gli splash che si adagiano sulle note del piano che mette in fila le scale minori e le infila tra le corde del contrabbasso, che ne ricama le dinamiche. Più grave è il contrabbasso, più dinamico è il pianismo della Tandoi.
Quando arriva “You don’t know me”, omaggio a Ray Charles, è come finire in jazz club; è una gemma, che parte con il pianoforte e che dopo 4 battute lascia che la voce di Francesca si impossessi di tutto. Ha sfumature delicate ma radicate nella conoscenza della tecnica. Anche le note gravi sono piene e sicure. Mette in gioco tutto il fascino e la maestria che conosce, la pianista, della quale in questo pezzo si ammira la capacità interpretativa, e che canta con la consapevolezza di ogni parola del testo. Poi il piano torna protagonista, e sono il contrabbasso e la batteria a fare da controcanto, e questo passaggio è originale, è studiato, è riuscito.
Dire che i pezzi sono tutti ben suonati è un gioco da ragazzi, scegliere il tuo preferito, invece, è impresa ardua. Ma a furia di ascoltarlo, questo disco, io alla fine, ci sono riuscita.
Il mio pezzo preferito è “F.S.R. – For Sonny Rollins”. Lo è perché il mood che ne viene fuori è di quelli incontenibili, che non si arresta, è ostinato ma mai a caso, è convinto, prorompente e ascoltandolo lo sai, lo senti, lo riconosci che a quella batteria suona Ariano, che quella voce che senti in sottofondo è di Bulgarelli che al contrabbasso fa fare gli straordinari e la sorpresa accattivante di sapere che al pianoforte, c’è una di quelle donna che farà ancora e tanto parlare di sé perché ha tanto da dire e da suonare.
Il bello di questo album è che non ti chiede altro che di essere ascoltato. Ti avvolge, non ti chiede di interpretare intenzioni … le intenzioni sono tutte lì, suonate e cantante. Sono lì, con carattere e appeal. Sono lì con talento artistico, energia e appassionata complicità, quella che nel jazz ha spesso fatto la differenza.
Un album da 5 stelle su 5. Un lavoro che sta nei primi posti tra la mia personale classifica dei dischi più belli dell’ultimo quinquennio, di cui consiglio l’ascolto.
E’ il jazz che piace a me.
Simona Stammelluti