Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 50 di 94
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Ho letto davvero di tutto, in merito. Finanche descrizioni dettagliate del traffico cittadino, pur di non prendere una posizione netta, sul nuovo modo di fare musica di Thom Yorke, frontman dei Radiohead, in giro con il suo “Tomorrow’s Modern Boxes“, che ieri sera si è esibito a Roma nella cavea dell’Auditorium Parco della Musica.

Io non faccio fatica a dire con obiettività, che se non avete visto questo concerto, poco male, se invece non avete mai visto un concerto di Pat Metheny, forse sarebbe il caso di rimediare …  ed anche al più presto.

E adesso con calma vi dico perché questo concerto – al netto di alcune cose – non è destinato ad entrare nella storia.

Partiamo da un presupposto, ossia che un grande artista come Thom Yorke – perché tale è  – può permettersi tutto, anche il lusso di non piacere ad alcuni addetti ai lavori. In fondo non è difficile ricordare quanti grandi artisti, hanno presentato progetti che sono piaciuti ai fans, ma meno a chi fan non è, e dunque guarda ad un’opera con la lucidità di chi non deve per forza perdonare tutto al proprio idolo.

Thom Yorke è strepitoso. Questa è la prima cosa che va detta, a scanso di ogni equivoco e la sua voce, così delicata, sottile, ammiccante e intonatissima, sa sempre come lasciare un segno. Sembra solo, su quel palco, ma non lo è; insieme a lui, Nigel Godrich, produttore degli album dei Radiohead e un bravissimo Visual Artist olandese, che risponde al nome di Tarik Barri. Che ci fanno allora questi tre signori sul palco, se non vi è traccia in questa performance di ciò che è appartenuto al famoso gruppo?

Mi verrebbe da dire che chi come me è nato negli anni ’70, (Yorke è del 1968) non fa fatica a ricordare quello che accadeva nei primi anni ’90, nelle discoteche, quando la tecno dettava la moda, quando la musica nelle sale da ballo svisava verso la acid-house. Ecco, il muro di suono è più o meno quello. Il cantante fa un tentativo – a mio avviso non completamente riuscito – nel dimostrare di poter fare a meno di un gruppo. Campiona e riproduce tutti i suoni possibili, la base ritmica è completamente campionata, ogni tanto imbraccia la chitarra, altre volte – rare – siede al piano elettrico e dice al suo pubblico, con questa performance, che non c’è posto per la nostalgia. Non v’è traccia del repertorio dei Radiohead; viene proposto il repertorio di Thom Yorke solista. A prescindere se quel repertorio lo si conosca o meno, si fa fatica a capire dove finisca un brano e dove inizi l’altro, considerato che il ritmo scelto dal cantante, polistrumentista e compositore inglese è sempre lo stesso, i beat che battono non cambiano mai inclinazione.

Lui balla, è esagitato, balla a tempo, in quel ritmo sempre così serrato. Sembra di essere in una enorme discoteca sotto le stelle, di quelle tecno, nella quale però nessuno balla ma in tanti restano ipnotizzati. La sua voce è suadente, capace di non lasciare scampo al piacere che si nutre di quel suo essere così affascinante ed intonato. Suona la chitarra ammiccante, come se fosse uno strimpellatore di note a caso, e questa cosa mi è particolarmente piaciuta. Gli echi wawa sono suggestivi tanto quanto i  favolosi visual che sono la parte portante dello show di Yorke. I suoni e le immagini dialogano durante tutto il concerto. I Visual sanno essere morbidi e poi acidi, tenui e policromatici, eccitanti e meditativi. Ci sono tutti, e sono tutti stratosferici, ipnotici, convincenti.

E’ sicuramente una esperienza visiva e sonora di grande impatto. Yorke è a suo agio, e regge le due ore di concerto senza perdere un colpo. E’ generoso, Yorke, regala due bis. La scaletta la mette insieme un po’ come è sua consuetudine, ossia non regalando nulla che il pubblico si aspetti. Pesca nel suo repertorio da solista, in un excursus ampio dal 2006 al 2014, fino al suo ultimo disco “Anima” uscito pochissimi giorni fa. Non mi sembrava che i fans riuscissero a cantare qualcosa, ma sicuramente seguivano il pathos del loro beniamino, che sapeva come coinvolgerli.  Le mani erano spesso in alto, quasi come ad acclamare il loro messia. Questo è la dimostrazione di come quando si diventa un big, quando vi è un imprinting nel mondo della musica, ci si può permettere di sperimentare tutto quello che si vuole, perché la fedeltà si manifesterà sempre prorompente.

Parla in italiano, Yorke, forse facilitato dal fatto di avere una compagna italiana.  Ringrazia Roma, con la sua “siete straordinari, ci vediamo presto“. Nei bis Yorke regala “Suspirium” – colonna sonora del film remake firmato da Luca Guadagnino, e poi incanta seduto al piano elettrico con “Dawn Choruscon quella sua voce che chissà da quale meditazione arriva, ma finisce dritto dentro lo stomaco di chi ascolta e che chiude gli occhi per poi lasciarsi andare. C’è anche “Black Swan” tra i pezzi che esegue.

E’ tutto un filo conduttore, è tutto dentro un loop, che tiene tutto insieme, che porta la firma di un grande artista, che forse in quell’eccesso ha trovato la traduzione di ciò che di nuovo aveva da dire. O forse voleva dire solo che alla fine si finisce per immaginare tutto in quella dimensione tra fantascientifico e psichedelico, tra natura che diventa landa desolata e paesaggi lunari che restano ancora inesplorati.

Abbiamo visto tutto questo su quel wall, abbiamo sentito un progetto nuovo che ci vuole un po’ per capire se sia davvero efficace. Resta uno scenario artistico impalpabile, quasi sfuggente rispetto ad alcuni schemi, a tratti primordiale.

Ecco, c’è sicuramente una voglia di tornare indietro.

Ed io spesso ieri sera ho chiuso gli occhi, per fare un salto nel passato, ma lì, alla fine degli anni 80, non lo avevamo un artista pazzesco come Thom Yorke.

 

Simona Stammelluti

 

 

 

E’ stato e resterà il più grande nome della musica brasiliana, perché anche tutti i bravissimi che sono venuti dopo – Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa e Roberto Carlos – si sono ispirati a lui, e agli inizi lo hanno preso ad esempio, imitandolo.

Fu un genio della bossa nova, la samba che incontra il jazz e che riesce a far entrare la musica brasiliana, nella mappa musicale del mondo.

João Gilberto ha cambiato e modernizzato la musica brasiliana nel 1958 presentando al mondo il diverso ritmo, quella che fu la sua bossa nova che è stata una vera e propria rivoluzione in fatto di cadenza del samba sulle corde della chitarra, quelle cadenze ridotte al minimo, mentre tirava fuori un suono leggero, originale, armonioso e raffinato, agilissimo com’era a ritardi e progressi armonici.

E’ stato un grande musicista, e anche quando cantava, con quella sua voce così morbida e perfettamente calibrata, si comportava come un musicista. La lezione al mondo la diede con i suoi tre album, una sorta di “santissima trinità” della discografia brasiliana. Chega de saudade (1959),  O amor, o sorriso e a flor (1960) e João Gilberto (1961) . Sono questi i dischi in cui un genio diventa mito. In questi tre dischi c’è la sintesi del ritmo samba che esce da quella sua chitarra che evocava sempre il suono ritmico del tamburo di quel particolarissimo genere di musica.

João Gilberto era un perfezionista, e forse proprio questa ricerca della perfezione lo ha reso così geniale. Eppure ebbe un carattere molto poco socievole, un temperamento particolarmente distaccato nei confronti del mondo. Era nel silenzio della solitudine infatti, che metteva a punto le sue canzoni. Lui, che ha avuto in vita l’orecchio assoluto, e che sapeva ascoltare più di chiunque altro, e “sentiva” ciò che nessuno ha sentito mai, e per questo è riuscito a cambiare la musica brasiliana, divenuta eterna nel 1958 con lo spirito della bossa nova.

Questo è anche il motivo per cui Caetano Veloso ha ragione quando dice che, “meglio del silenzio, solo João Gilberto“.

Molti jazzisti hanno incrociato il loro cammino artistico con Gilberto. Pensiamo al sassofonista Stan Getz, ,che invitò Gilberto e Jobim a collaborare a quello che divenne uno degli album di jazz più venduti di tutti i tempi, “Getz/Gilberto“. Il disco consacrò a livello internazionale anche Astrud Gilberto, moglie di João , grazie alla composizione di Jobim, “The Girl From Ipanema“, che la fece diventare un’icona della musica internazionale pur non essendo dotata di particolari doti vocali. Fu quello un disco di una leggerezza spiazzante, un’anestesia dalla grigia quotidianità; la morbidezza ovattata del cool jazz dei Getz, coniugata al ritmo della samba, che dona un concentrato di musica calda, imbastita sulla tipica venatura malinconica carioca, che dà al lavoro un sapore agrodolce, rendendolo assolutamente accattivante.

Lui è andato via, a 88 anni, in un giorno di luglio, ma a noi restano Insensatez, Aguas de março, Desafinado, Rosa Morena; a noi resta una narrazione tecnica, imbastita sull’amore e che sa di eternità.

Simona Stammelluti 

Era il 26 marzo del 2018 quando il segretario provinciale del sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria di Bologna, scriveva al direttore della casa circondariale e alle autorità competenti tutte, per segnalare i tanti problemi legati alla gestione del Caseificio “Liberiamo i sapori” inaugurato nel 2016, grazie alla legge Smuraglia che concede alle imprese che investono nelle strutture penitenziarie, o che assumono detenuti, dei benefit fiscali.

Il progetto per la realizzazione del suddetto caseificio era stato realizzato anche grazie al cospicuo investimento del Ministero della Giustizia.

Nella segnalazione si evidenziavano le problematiche derivanti dal fatto che il casaro (persona non detenuta) lavorava  da solo, senza detenuti, e il personale di Polizia penitenziaria però, era costretto comunque a vigilare sulla attività lavorativa.

Inoltre l’accesso all’istituto avveniva spesso senza preventiva comunicazione, che invece era necessaria per consentire la giusta programmazione del servizio, costringendo il personale a fermarsi oltre l’orario di lavoro, e sovente a coprire più posti di servizio.

Ma non era tutto. Perché lo stesso personale era chiamato a gestire e a contenere gli effetti del crescente malcontento dei detenuti che lamentavano la mancata firma del contratto di lavoro e il mancato pagamento degli stipendi, le numerose ore di straordinario. Già qui ci sarebbe da chiedersi – se tutto ciò corrispondesse a vero – come sia possibile che all’interno  di una struttura detentiva, istituzione statale e presidio di legalità, possano tollerarsi simili gravissime inadempienze.

Fatto sta che tutto questo, accadeva oltre un anno fa. Ma lo scorso 29 giugno, il medesimo sindacato scrive ancora agli organi competenti, dopo aver appreso della chiusura dell’azienda casearia sita all’intento del carcere Felsineo.

Il SiNAPP evidenzia nella lettera, come da tempo il suddetto ordine si è occupato delle problematiche connesse alla cattiva organizzazione dell’azienda che, per logica di consequenzialità, ha avuto crescenti ricadute negative sull’organizzazione del lavoro dei Poliziotti penitenziari.

E pensare che proprio i Poliziotti penitenziari sono stati i primi a credere, nella fase iniziale, alla buona riuscita dell’attività, in un ambiente tanto particolare, dove il lavoro può davvero restituire speranza e dignità alle persone detenute e, conseguentemente, serenità e sicurezza per gli stessi Poliziotti.

Dunque l’enfasi iniziale, ha lasciato purtroppo il posto al fallimento del progetto.

Restano, pertanto, degli interrogativi e delle domande che attendono delle risposte, perché – come si legge nel comunicato –  il carcere non puo’ e non deve fabbricare carcerati, ma cercare di restituire alla società uomini riabilitati e, possibilmente, avviati ad una professione e/o un percorso di studio e di reinserimento.

Questa, una delle tante situazioni difficili che si consumano nelle carceri italiane, che seguiremo anche nei giorni a venire.

Di questo film, la storia di Federica Angeli – la giornalista di La Repubblica che ad oggi ancora vive sotto scorta perché minacciata dalla mafia di Ostia – avrebbe potuto benissimo farne a meno. Un film che non solo è privo di pathos ma che non rende assolutamente giustizia al coraggio della Angeli, al carattere della giornalista d’inchiesta e alla tenacia del suo vivere.

Un film quello di Claudio Bonivento, assolutamente didascalico, semplicistico, fatto di frame incollati; un’accozzaglia di momenti, messi insieme come se si dovesse portare a casa un compitino. Una Claudia Gerini nel ruolo della Angeli che probabilmente ha fatto del suo meglio, mentre mima una vita che è difficile da trasportare in un film se non sorretta da una sceneggiatura solida, e che invece in questo caso fa acqua, ha degli enormi buchi nel racconto, rendendo non credibili alcuni dialoghi, e banalizzando quelle situazioni drammatiche che hanno visto Federica Angeli sfidare, nella realtà, il clan degli Spada.

Pur conoscendo molto bene la storia della Angeli – sulle cui vicende ho scritto  tanti articoli, nella piena volontà di dare il giusto rilievo ai fatti, alla verità, alla vita della giornalista – mi sono immedesimata in chi quella storia non la conoscesse affatto. Anche la malavita è raccontata in maniera poco incisiva nel film e mi domando perché la Angeli, che ha collaborato alla stesura della sceneggiatura non si sia ribellata a quelle scene così misere, semplicistiche. Mi riferisco ai momenti clou della storia, quando per esempio viene sequestrata, minacciata di morte, e quando le viene intimato di lasciar perdere. E quello è uno dei momenti più toccanti che sono accaduti, quando la giornalista ha raccontato la sua vicenda nelle scuole, o durante i convegni. Momento toccante quando lo ha raccontato alle TV in innumerevoli trasmissioni.

Già il libro – che merita un plauso sicuramente perché è un documento di denuncia – mi era apparso particolarmente romanzato. E dunque questo finale – il film intendo – diventa un inutile tentativo di osannare la donna, non il suo ruolo nella vicenda. E se si pensa che il film è tratto da una storia vera, mi viene da dire che se ci fosse stato un “liberamente tratto” nei titoli di coda, sarebbe stato  meglio.

Il film ha l’aspetto di una fiction figlia di mamma Rai, di quelle da prima serata di fine stagione.
Il film non a caso è stato prodotto dalla società di produzione Laser Digital Film insieme a Rai Cinema. Le performance attoriali sono scarse, forse anche perché le parti assegnate non erano adeguate. Francesco Pannofino relegato in quattro battute nel ruolo del caporedattore, Francesco Venditti che interpreta il ruolo del marito della Angeli, che non convince neanche nella scena di sesso quando fa una sorta di “agguato” a sua moglie che rientra a casa tardi prima delle vicende che la renderanno nota alle cronache.  Lo stesso Mirko Frezza, sguaiato ma non credibile nel ruolo del boss.  E’ un film claustrofobico anche per i set che sono stati utilizzati, e per le luci.

Il film si svolge tra l’appartamento della Angeli, la redazione del giornale e il giardinetto dove i figli della giornalista sono soliti giocare. Non si vede cosa accade ad Ostia, non si vede Ostia. Una sola scena del mare e due passaggi, che dovrebbero raccontare la malavita: giornali bruciati ad una edicola e la richiesta del pizzo alla proprietaria di un bar che – non si può non notarlo – ha una somiglianza spaventosa con quella che è stata per molti anni, la sostenitrice numero uno della Angeli nella vita vera. La mafia ostiense, banalizzata con un film, per non parlare dei carabinieri che tentano di dissuaderla da sporgere denuncia verso chi l’ha minacciata di morte.  Non si vede la vita nella redazione, non si vede cosa pulsa nella città di Ostia, non si raccontano la paura, l’omertà, i giri spietati tra le fila dei colletti bianchi; insomma … mancano intere tappe che erano invece necessarie per la riuscita del film. La semiotica del testo filmico ridotta all’osso. Il film parte con una anacronia, una analessi a caso,  per poi tuffarsi in un incipit in medias res così banale da non essere credibile.

Neanche la fotografia è degna di nota. I colori sono cupi, i volti sempre per metà in ombra, ma non è certo quello che rende la suspense che, nella pellicola è pressoché assente. Non esiste un campo contro campo, è tutto realizzato in maniera statica, per non parlare della voce fuori campo che banalizza alcuni momenti che invece andavano sottolineati e messi in scena.

Chi conosce la Angeli non la riconoscerà mai in questo film.  Troppo perfettina come figlia, moglie, madre, che sta al posto suo in maniera mansueta quando le tolgono l’indagine, che ha coraggio sì, ma quasi con il freno a mano tirato. Lei, che invece è una che ruggisce, che le sue paure se le mette in tasca e che sa fare bene il suo lavoro e che è una determinata, che punta l’obiettivo, costi quel che costi.

Nel film non vi è traccia di quello che accade sui social, per esempio, dove molto di questa vicenda ha avuto corso, ma si da fa però una vera e propria sponsorizzazione all’associazione #noi che ormai segue e sostiene la Angeli da diversi mesi. Mi è sembrato fuori luogo anche il passaggio delle foto di famiglia (quella vera) alla fine del film come se si avesse necessità di ribadire che quella storia era la sua, proprio la sua, a scanso di equivoci.

Insomma,  A Mano Disarmata non appare un’opera all’altezza dello scopo che risiede senza dubbio, nell’impegno civile e nel documento di denuncia, circa una condizione che affligge molti giornalisti italiani ad oggi sotto scorta.

Simona Stammelluti 

La Sicilia.
Bella da togliere il fiato.
Terra di sole e di mare, di cibo buono e profumo di agrumi, di dolci e aria salmastra.
La Sicilia.
L’Etna, la Valle dei Templi, San Vito lo Capo, la riserva dello Zingaro, la Scala dei Turchi, il Teatro Massimo, Favignana, i faraglioni di Acitrezza, Ortigia, le Gole dell’Alcantara … e potrei continuare all’infinito.
La Sicilia.
La terra di Luigi Pirandello, di Leonardo Sciascia, di Giovanni Verga, di Ettore Majorana, di Renato Guttuso, di Vincenzo Bellini.
La Sicilia. 
La regione a statuto speciale, che in materia di autonomia e competenza esclusiva, contempla anche urbanistica e lavori pubblici.
La Sicilia, così bella che non mi meraviglio se un norvegese scelga di visitarla in lungo e in largo, decidendo, per esempio, di fare scalo all’aeroporto di Punta Raisi e, dopo essersi goduto a pieno la splendida Palermo, decida di prendere a noleggio una macchina e di fare un salto ad Agrigento nella Valle dei Templi.

Qui scattano due opzioni. O sto zitta, o parlo.
Facciamo che parlo, perché di stare zitta, davanti a tanto scempio, dopo averla percorsa quella strada, proprio non ci riesco.
La Palermo-Agrigento, non è una “strada a scorrimento veloce” come risulta sulla carta, ma è una condanna, una specie di missione, che costringe coloro che la percorrono ad imbattersi in un vero e proprio viaggio della fortuna. Ci vogliono circa 2 ore e tre quarti (se va bene) per percorrere 106 km.

Caro norvegese, che atterri a Palermo e vuoi vedere la Valle dei Templi, sappi che le due arterie  – la Strada Statale 121 e la Strada Statale 189 – sono collegate senza soluzione di continuità, e la tratta non è solo inadeguata per un eventuale traffico veloce, ma è un vero e proprio continuo cantiere a cielo aperto. Deviazioni, interruzioni, semafori, strade che si restringono e che impediscono un viaggio su strada che possa dirsi tale in un paese civilizzato. Perché se fossimo nei paesi del terzo mondo, allora si potrebbe anche far finta di niente, ma che nell’Isola più grande d’Italia, in una terra che del turismo dovrebbe farne il fiore all’occhiello e che dunque dovrebbe essere in grado di accogliere al meglio i suoi turisti, non è contemplabile che a tutt’oggi non siano stati completati i lavori di ammodernamento, rendendo dunque quella strada quasi impraticabile.

Quella come altre, si intende.

Per la serie che sai quando parti e non sai né quando né se, arriverai.

I grovigli di deviazioni, persi dai navigatori, semafori che tengono a bada un traffico selvaggio, ruspe ovunque e nessuna pompa di benzina; pertanto, caro norvegese, se sei a riserva, e speri di poter far rifornimento lungo il tragitto, sappi che rimarrai per strada.  Per non parlare della pericolosità di quella strada, di quei viadotti sospesi, che se rappresentano un percorso della fortuna di giorno, si immagini cosa possano diventare quelle strade di notte. C’è una viabilità difficile e poco sicura; ma c’è anche un calo di traffico veicolare, con ricadute – ovviamente – anche economiche sulle attività delle zone interessate dalla tratta.

Chi conosce quella tratta, la evita, dunque, fa percorsi alternativi. Ma il norvegese che non lo sa, la percorrerà in quelle condizioni. Ma a parte i turisti ignari, ci sono professionisti pendolari che devono fare quella strada tutti i giorni, destino che tocca anche a quelle persone che per motivi di salute (vedi i dializzati, i malati di cancro)  devono recarsi negli ospedali e quindi sono costretti ad affrontare questo scempio, perché di scempio si tratta.

E tu, crocerista che con le navi da crociera giungi a Palermo e pensi in un’oretta, di raggiungere la bella Agrigento, che so, per fare un bagno vicino alla Scala dei Turchi, sappi che non ce la farai mai, che è un sogno che dovrai archiviare e che dovrai farti  bastare la passeggiata a Via Maqueda a Palermo.

Chi ha la titolarità di quei lavori?
L’Anas, con il gruppo Cmc che ne ha in carico il progetto. Soldi non ce ne sarebbero per ultimare i lavori del maxilotto. Sarebbero previste numerose opere, in particolare una galleria artificiale, 5 nuovi viadotti, 12 svincoli, oltre ad interventi di restauro, miglioramento sismico e adeguamento di 16 viadotti e ponti esistenti. Ma ad oggi – come anche ieri e ieri l’altro, e come domani e quello ancora dopo – la situazione resta e resterà chissà per quanto così, sospesa nel nulla.

Eppure nel febbraio di quest’anno, attraverso una nota diffusa dall’Ansa,  il Gruppo Cmc in merito al caso della Palermo-Agrigento, dichiarava che sarebbero ripartiti i lavori. Era febbraio, siamo a giugno.

Viene da domandarsi perché questa situazione non rappresenti un’emergenza sul tavolo del governo. Un’avventura o una vergogna?

[E così tornando a casa, dopo aver attraccato a Villa San Giovanni, imboccata la Ex Salerno-Reggio Calabria, mi sono sentita come sulle strade della California]

 

Simona Stammelluti

 

foto corriere della sera

È Vanessa Redgrave, l’attrice premio Oscar nel 1978, che al Teatro Greco di Siracusa  il prossimo 12 giugno, riceverà l’Eschilo d’oro

 

La Fondazione Inda assegnerà il prestigioso riconoscimento all’interprete britannica Vanessa Redgrave  che ha fatto la storia mondiale del cinema e del teatro e che in carriera ha vinto un premio Oscar come attrice non protagonista per Giulia, il film diretto da Frank Zinnemann con Jane Fonda, ha ricevuto in carriera sei nomination all’Oscar, e ha ottenuto due Golden Globe, un Bafta, due Prix al Festival di Cannes, la Coppa Volpi a Venezia, due Emmy e, in campo teatrale, un Tony Award e un Olivier Award, entrambi come miglior attrice.

La cerimonia di consegna dell’Eschilo d’Oro, il riconoscimento assegnato dal 1960 dalla Fondazione Inda a personalità che si sono internazionalmente distinte nel teatro classico e negli studi sulla classicità greca e latina, è in programma il 12 giugno al Teatro Greco di Siracusa prima della replica di Elena di Euripide. L’Eschilo d’oro nel corso degli anni è stato assegnato tra gli stranieri ai registi Theo Anghelopulos, Ariane Mnouchkine e Peter Stein ma anche a Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi e Irene Papas. Vanessa Redgrave è interprete di innumerevoli produzioni teatrali, dagli inizi con i testi di William Shakespeare, Anton Cechov, Henrik Ibsen, Bertolt Brecht al Tony Award vinto nel 2003 come miglior attrice per Il lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill.

Lunghissima e pluripremiata la carriera cinematografica con Redgrave interprete di alcune delle pellicole che hanno segnato la storia del cinema, da Blow-up di Michelangelo Antonioni ad Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet. L’attrice è anche Andromaca nelle Troiane di Micheal Cacoyannis ed è stata protagonista di produzioni televisive di grande qualità come il film Fania che le consente nel 1980 di ricevere l’Emmy Award come miglior attrice. Nel 2018 le è stato conferito il Leone d’oro alla carriera alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Da sempre impegnata politicamente e per il rispetto dei diritti umani, Vanessa Redgrave è ambasciatrice dell’Unicef e il 12 giugno, prima di ricevere l’Eschilo d’oro, presenterà al Teatro comunale di Siracusa, Sea Sorrow. Il film documentario, diretto dall’interprete britannica racconta la storia passata e presente dei rifugiati in Europa concentrandosi in particolare sui bambini rifugiati. La proiezione del film documentario è organizzata dalla Fondazione Inda in collaborazione con l’Ortigia Film Festival.

Nella Stagione 2019 della Fondazione Inda anche due eventi speciali: l’omaggio a Pina Bausch, lunedì 3 giugno alle 18, nel salone Amorelli di Palazzo Greco, in corso Matteotti a Siracusa. “Il mito greco nelle Tanzoper di Pina Bausch” è il titolo dell’incontro che vedrà Marinella Guatterini commentare Ifigenia in Tauride e Orfeo ed Euridice. Il 10 giugno, alle 18, in piazza Minerva, nel centro storico di Ortigia, è invece in programma “Voci. impronte femminili nella città antica”, in collaborazione con enciclopediadelledonne.it  Le attrici della Stagione 2019 al Teatro Greco di Siracusa e personalità siracusane come il questore Gabriella Ioppolo, il Sovrintendente ai Beni Culturali e Ambientali di Siracusa Irene Donatella Aprile, Maria Musumeci, direttore del Polo regionale di Siracusa per i siti e i musei archeologici e poi ancora Simona Arnone, dirigente scolastico e Cettina Voza, storica e scrittrice, leggeranno alcuni brani dedicati a donne dell’antichità, da Santippe a Saffo, da Artemisia a Santa Lucia.

Il presidente della Fondazione Inda Francesco Italia, il consigliere delegato Mariarita Sgarlata e il sovrintendente Antonio Calbi hanno illustrato questa mattina anche il programma della Giornata mondiale del rifugiato. Il 17 giugno, in collaborazione con UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, sul palco del Teatro Greco di Siracusa, dalle 21, si alterneranno artisti come Tullio Solenghi, Maddalena Crippa, Laura Marinoni, Elisabetta Pozzi, gli attori della Stagione 2019 al Teatro Greco di Siracusa, gli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico e poi ancora Bernard Dika, il ventenne nato in Albania, arrivato in Italia insieme ai genitori quando aveva ancora pochi mesi di vita e insignito del titolo di Alfiere della Repubblica italiana, a dicembre del 2016, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel corso della serata, che vedrà anche la partecipazione dei rappresentanti dell’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati, è in programma lo spettacolo L’Abisso di e con Davide Enia. La Fondazione Inda è partner per il tredicesimo anno di UNHCR e anche quest’anno parte del ricavato dalla vendita dei biglietti sarà devoluto in beneficenza.

Tra giugno e luglio sono poi previsti gli incontri all’Orecchio di Dionisio con gli interventi dello scrittore e saggista Claudio Magris, il 19 giugno su Alcesti, Euridice e l’idea del tempo; di Luciano Canfora il 25 giugno sul tema Il colpo di stato di Lisistrata; il 29 giugno con l’attrice e scrittrice Lella Costa che dialogherà con Margherita Rubino su Donne e guerra in Aristofane. A chiudere i quattro incontri sarà Eva Cantarella, lunedì 1 luglio, con un intervento su Donne e misoginia nel mondo antico. Tutti gli incontri sono in programma alle 17,30 e sono a ingresso libero fino a esaurimento posti.

Il 21 giugno, alle 21, al Teatro Greco di Siracusa appuntamento con Agon, il processo simulato ai personaggi degli spettacoli classici. A organizzare l’evento, che si tiene al Teatro Greco di Siracusa dal 2009, sono la Fondazione Inda, The Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights, l’Associazione Amici dell’Inda e l’Ordine degli Avvocati di Siracusa. Sul banco degli imputati per l’edizione 2019 di Agon salirà Elena interpretata nelle Troiane da Viola Graziosi. Processo a Elena: artefice o vittima della guerra di Troia? è il titolo della serata che vedrà l’ex magistrato Gherardo Colombo sostenere l’accusa contro Elena, Vittorio Manes, avvocato e professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna ricoprire i panni del legale difensore mentre la giuria sarà presieduta da Livia Pomodoro, ex presidente del Tribunale di Milano, e composta da Giuseppina Paterniti Martello, direttrice del Tg3 e Loredana Faraci, docente all’Accademia delle Belle arti di Roma. Protagoniste della serata saranno anche le attrici Laura Marinoni, interprete di Elena nell’Elena di Euripide diretto da Davide Livermore e Maddalena Crippa, Ecuba nelle Troiane con la regia di Muriel Mayette-Holtz. Come ogni anno, dopo il dibattimento la giuria popolare, costituita dal pubblico che seguirà il processo, esprimerà il proprio giudizio di condanna o assoluzione nei confronti dell’imputata.

 

Ferdinando Scianna, il famoso fotografo e fotoreporter siciliano uno dei grandi dell’agenzia Magnum, espone fino al 28 luglio a Palermo, presso la Galleria d’Arte Moderna

Questa mostra è una vera e propria sfida. Puoi subirne la suggestione, puoi emozionarti (spesso) e se sei particolarmente empatico con l’arte, puoi anche piangere di commozione. Devi avere una discreta cultura alle spalle per apprezzarla appieno; oppure, dopo essere stato rapito da tutto quello che si consuma durante la visione di quei 200 scatti, devi essere abbastanza curioso da andarti a studiare quello che Scianna lancia con la sua mostra, ossia veri e propri spunti culturali e non solo di riflessioni.

Una mostra allestita in maniera impeccabile, dove niente è a caso; perché la suggestione è creata non solo dal valore intrinseco delle foto esposte per argomenti, ma anche da come sono collocate all’interno della galleria. Un allestimento che è di per sé una mappa da seguire per raggiungere una meta.  Alcune foto sono semplicemente attaccate alle pareti, altre lasciate pendere dai soffitti. E poi ce ne sono ancora, dentro una intelaiatura rotonda, o in nicchie ricavate da una sorta di gigantesco soffietto, dove dietro ad ogni angolo si cela una storia. Storia di personaggi famosi, molti dei quali sono stati in vita amici del fotografo; storie di viaggi, di luoghi, di riti, passando  dal dolore, dalle ossessioni, tutto attraverso la memoria.

Storie di vita vera, delle tante vite vissute da Ferdinando Scianna, storie di una carriera che sembra così surreale da essere leggenda. Perché che vita ha vissuto, perché è diventato quello che è, la carriera che ha fatto, lo si scopre stando “dentro” a questa mostra, che non è solo una dimensione visiva, ma un territorio psicologico ed emozionale.

E se come lui stesso dice,  “le fotografie non possono rappresentare delle metafore, perché le fotografie mostrano e non dimostrano”, allora il viaggio fatto all’interno della mostra diventa una modalità per fare i conti con la vita e le sue pillole di crudeltà,  vite difficili, forse distante dai nostri occhi ma reali, affilate, scevre da ogni possibilità di essere addolcite da una possibile sostituzione. E tutto questo Scianna lo fa senza retorica, senza drammatizzazione.

200 scatti in bianco e nero, di vari formati. Da gigantografie che ti sovrastano a formati ridotti che però ritraggono soggetti che per espressione, intensità, contesto, sono dei giganti che ti fanno sentire piccolo.

Solo i ritratti, sono accompagnati da didascalie che sono vere e proprie storie che riguardano i soggetti, che raccontano di aneddoti, di manie. Tutte le altre sono senza titolo, recano solo l’anno e il luogo. Ogni raccolta è inserita in un tema. Il bello è che i temi trattati da Scianna non hanno nulla di scontato, e le motivazioni che lo hanno spinto a fare quelle scelte, diventano una porta da varcare per comprendere in maniera profonda l’autenticità di ogni scatto.

C’è la Sicilia che pulsa, in questa mostra, che è una lente di ingrandimento per molti dettagli della fotografia di Scianna; la Sicilia che è memoria perenne di un sentimento che si affaccia ogni volta che mette in campo una sfida. La Sicilia con i luoghi di Bagheria, con i riti, le feste religiose che Leonardo Sciascia definiva “l’esplosione dell’Es collettivo, quando l’uomo esce dal suo essere, dal suo doloroso Super Io”. Scatti di sguardi “altrove”, e la bravura di beccarne sempre uno in camera. Come quello del bambino della processione, quello di una delle donne in nero della Roma del 1966. Scatti corali, anche quando il soggetto è uno solo, come il filo di ferro protagonista della foto che ritrae la spiaggia delle Cinque Terre.

Scatti corali di soggetti che a volte recitano un copione, che si immedesimano in un ruolo che si consuma lento, come un “Sonno”, quel sonno che inquieta,  che resta in un tempo sospeso e muto e che lui fotografa mentre sembra interrompersi il flusso della vita. Penso alla bravura di un Ferdinando Scianna che fotografa il sonno di una donna che dorme su una panchina di un ospedale psichiatrico e che apparentemente è solo un soggetto che dorme; ma è  nella suggestione che solo lui sa realizzare, che magicamente quella donna si perde nel suo vestito a puntini, che diventa un tutt’uno con la ghiaia.

Le ossessioni, che contemplano le cose,  e poi gli specchi che continuano a dividere il mondo in due, l’ombra, le bestie. Sono vere e proprie sfide a guardare oltre ciò che appare; Il cane nel negozio di pompe funebri, i piccoli squali che sembrano tristi. Suggestioni di una realtà inserita in quella sua inguaribile curiosità.

Non vi è foto in questa mostra che non “mostri” quella pura folgorazione che impone al fotografo di farla quella foto e poi salvarla. Mi viene da pensare all’America di Scianna, fatta di dettagli che a volte urlano come quelli delle metropolitane newyorkesi e a volte sono così silenziosi da scuoterti dentro, come quelli che vengono fuori dal bacio sulla bocca di due ragazzini alla stazione, mentre ti accorgi solo in un secondo momento che si tratta di una stazione.

I viaggi di Scianna, che diventano anche un po’ di chi visita questa mostra: New York, Parigi, la Tunisia, lo Yemen. La toccante foto scattata in Etipia  nel 1984 che ritrae una donna che ha accattato al suo seno un bambino scheletrico, che probabilmente è morto poco dopo, che guarda la sua mamma come se potesse nutrirsi più dai suoi occhi che dalle sue mammelle. Il suo, è un fotografare “malgrado tutto”. Mai solo un atto di denuncia, ma un racconto dettagliato di una condizione, ma anche di una ambizione etica ed estetica.

I luoghi di Ferdinando Scianna non sono mai a caso. Forse come è accaduto a molti altri suoi colleghi famosi. Ma qui c’è la convinzione che alcuni luoghi, come nel caso di Lourdes, custodiscano un senso, proprio in quella quantità di domande che anziché collassare in una risposta, lo fanno in nuove interrogazioni.

Anche il dolore, che Scianna fotografa in ogni sua forma, è a  volte così crudo da far male. Perché tu ci provi a passare allo scatto successivo lungo la parete, ma poi torni indietro. Il bello di questa mostra è anche questo: quello di non voler perdere nessun dettaglio. Fai di tutto per portare via con te molto di quello che si consuma in quel luogo, dove nulla è a caso, mentre il fotografo “ha solo il caso, come unico materiale utile”.  I meravigliosi regali del caso, come quando ha fotografato il fotografo  e pittore francese Jacques Henri Lartigue. Singolare lo scatto: mostra una donna che gli aggiusta i capelli, lui sorride, e dietro di lui, appeso ad una parete un intreccio di raffia che raffigura una specie di gigantesco fiore. La testa di Lartigue è perfettamente al centro, e l’immagine che ne viene fuori è quella di un sole che ride, lo stesso che lui usava disegnare vicino al suo nome ogni volta che firmava una sua opera.

I bambini di Scianna sono un vero capolavoro. Sono il tentativo (riuscito) di dimostrare come essi siano come gli adulti, se li sai guardare per davvero, sono come gli adulti, né meglio né peggio. E lui li ha guardati per come loro meritano di essere visti. I loro occhi, un gioco di sguardi tra chi immagina di finire da qualche parte e chi sceglie di mettere da parte ogni luogo comune.

Che Scianna sia un fotografo che scrive, un antropologo, un letterato lo si evince forte da questa mostra, nella quale ogni soggetto ha un suo posto privilegiato nel contesto, e ogni scatto ha il posto nella strategia di intenti.

Scianna cita Fernanda Pivano nei suoi racconti, mette in mostra tutti i talenti con i quali “ha fatto a cambio” di qualcosa. A volte quel qualcosa è stata un’amicizia, altre un’intervista, altre ancora solo uno scatto. Regala ricordi, Ferdinando Scianna, i suoi e sono un grande regalo che fa al pubblico della mostra. Scianna che ascolta le Suite Inglesi di Bach per ricordare il suo grande amico Henrie Cartier Bresson dopo la sua morte, l’intervista mai uscita a Milan Kundera, e poi ancora lo scatto dietro la vetrina a Jorge Luis Borges del 1964. Momorabile la foto a  Leonardo Sciascia sul sagrato della chiesa mentre passa tra le due bambine ferme, formando un triangolo perfetto, Roland Barthes, Martin Scorsese, Mimmo Paladino, Armando Testa, la Bellucci.

E a proposito di donne, non si può non citare Marpessa, il cui volto giganteggia nella mostra, posizionato nel modo giusto, senza mai essere sfacciato malgrado la bellezza prorompente immortalata da Scianna. Immortala il suo sguardo verde, inquieto, imbarazzato, leggermente sulla difensiva. Anche nelle foto di Marpessa – la famosa modella di Dolce & Gabbana  –  c’è prorompente la Sicilia, il ricordo dell’infanzia siciliana, e poi ancora ciò che resta dei sentimenti della donna che da sempre sono incisi nella coscienza del fotografo, come lui stesso racconta.

La forza del fotoreporter è sfacciata nelle foto scattate a Kami, il villaggio nelle Ande Boliviane; è come se una matita avesse disegnato la vita sospesa di quella gente, evidenziandone sguardi, disincanto, paure, come una testimone invisibile che non interviene mai per modificare gli istanti.

Scianna dice di se di essere sempre stato snob, da prima ancora di possedere mezzi per esserlo. A me dopo la visione di questa mostra viene da dire che Ferdinando Scianna sia stato in grado durante tutta la sua carriera di tenere viva una continuità, mantenendo intatti curiosità, passione, lucidità e un pizzico di ironia.  Il suo fascino trasborda da una mostra così bella, che svela qualche segreto di un grande maestro che sa sempre come essere ricordato.

 

Simona Stammelluti

 

 

Presentata la stagione 2019 2020 del Teatro della Cometa: undici titoli in abbonamento compongono il ricco cartellone. Un programma variegato per soddisfare gusti e sensibilità diverse che si caratterizza per la qualità delle proposte 

Esistere e resistere in una società che non sempre riconosce la specificità del ruolo del teatro e della cultura. È questo lo spunto di riflessione che ha guidato la composizione della stagione 2019| 2020 del Teatro della Cometa.

Ci sono gesti e luoghi che ci aprono a una parte nascosta della nostra identità ed il teatro è il luogo per eccellenza dell’identità. Sempre più frequentemente si sottolinea l’importanza del “fattore cultura” e se ne evidenzia la specificità. La cultura non è una risorsa come tutte le altre. Ed e ancor più vero che qualche volta è una risorsa migliore di altre. Il teatro è l’occasione più stimolante, è la più potente agenzia produttrice di significato di cui la società possa disporre. Eppure il mondo dello spettacolo attraversa da ormai troppo tempo una fase di faticosa transizione, in cui gli sforzi di rilancio del settore si devono confrontare quotidianamente con antiche insensibilità e pregiudiziali distrazioni.

Pertanto è necessario resistere ed esistere, perché l’arte è tra le attività umane quella che più di altre contribuisce a conoscere profondamente la realtà e la vita, a comprenderle nella loro complessità e nella loro essenza, a cogliere e nello stesso tempo a creare il loro senso ed il loro significato e ad individuare e prefigurare le linee di sviluppo della storia del rapporto dell’uomo con il mondo.

Undici titoli in abbonamento compongono il ricco cartellone 2019/20 della stagione del Teatro della Cometa. “Gli spettacoli sono stati selezionati – spiega il Direttore Artistico Giorgio Barattolo – come sempre con l’intento di incontrare i più diversi gusti non solo dei nostri abbonati che di anno in anno rinnovano la fiducia, ma anche quelli di un nuovo pubblico che siamo desiderosi di accogliere nel nostro teatro. Generi diversi per divertire, emozionare e riflettere. Un programma variegato per soddisfare gusti e sensibilità diverse che si caratterizza per la qualità delle proposte”.

Il sipario si apre il 9 ottobre con VALIUM una commedia anti stress di Alessandro Sena, con Niccolò Albanese, Stefano Antonucci, Giorgio Carosi, Marine Galstyan, Raffaele La Pegna, Giada Lorusso, Valeria Romanelli, Vittoria Rossi, Francesco Sgro. Il 30 ottobre Simona Marchini e Susy Del Giudice saranno i protagonisti di EXIT – Grazie dei fiori, regia Giovanni Esposito. Il 13 novembre debutterà lo spettacolo 7 ANNI con Giorgio Marchesi, Massimiliano Vado, Pierpaolo De Mejo, Serena Iansiti, Arcangelo Iannace, per la regia di Francesco Frangipane. Il 4 dicembre si va …FINO ALLE STELLE!  scalata in musica lungo lo stivale di e con Tiziano Caputo e Agnese Fallongo, regia di Raffaele Latagliata. Il 20 dicembre è la volta di NON È VERO MA CI CREDO di Peppino De Filippo con Enzo Decaro per la regia Leo Muscato. Il 15 gennaio alla Cometa arriva LISISTRATA da Aristofane, con Gaia De Laurentiis, Stefano Artissunch, Gian Paolo Valentini, Stefano Tosoni, con la regia Stefano Artissunch. Il 29 gennaio Pino Insegno e Alessia Navarro saranno i protagonisti di IMPARARE AD AMARSI regia Siddhartha Prestinari. Dal 19 febbraio Marco Falaguasta porterà in scena NEANCHE IL TEMPO DI PIACERSI per la regia di Tiziana Foschi. Il 4 marzo alla Cometa arriva IL TEST con Roberto Ciufoli, Benedicta Boccoli, Simone Colombari, Sarah Biacchi, con la regia di Roberto Ciufoli. Dal 25 marzo Luca De Bei e Barbara Porta porteranno in scena CHE TE LO DICO A FARE, testo e regia Luca De Bei. Si conclude la stagione con IL MISTERO DEL CALZINO BUCATO con Marco Zadra, Marco Morandi, Marco Spampy che sarà in scena dal 15 aprile.

Prosegue anche in questa stagione il Nuovo Salotto Cometa: da ottobre ad aprile un venerdì al mese organizzeremo nel foyer del teatro, l’Aperitivo Culturale del nuovo Salotto Cometa: tra food, cultura e performance, si racconteranno progetti, idee, storie, per favorire conversazioni, connessioni, in un clima famigliare e accogliente; il teatro non deve essere considerato un luogo d’eccezione, ma deve essere una casa da vivere pienamente. Mettetevi comodi nel Salotto Buono di Roma e seguite la Cometa.

 

Incontri, connubi, collaborazione, coralità. Tutto quello che il Maestro Elio Martusciello, riesce a tradurre in progetti musicali, in esperienze sonore aprendo al senso e alle qualità cognitive dell’uomo, così come ci racconta in questa intervista che mi pregio di aver realizzato.

Conosco Elio Martusciello attraverso il sassofonista Antonio Raia, mi incuriosisco e incomincio ad entrare nel suo mondo, restandone impigliata.

Elio Martusciello,  napoletano, classe 1959 musicista, compositore, direttore d’orchestra, docente di musica elettronica al conservatorio di Napoli, ha studiato fotografia con Mimmo Jodice, è un guru della musica, che ha seminato l’arte sonora come linguaggio, traducendo in musica tutto ciò che è accaduto intorno a sé nel corso del tempo, attraverso quelle esperienze che si sono poi tradotte in opere d’arte, la cui definizione non è poi così scontata, come ci spiega in questa intervista.

Parliamo di “musica concreta”, di “arte acusmatica” dell’Orchestra Elettroacustica Officina Arti Soniche e di tanto altro, qui di seguito

SS: Maestro, quasi mai si pensa ad un ascolto come ad un connubio. Per esempio un connubio tra suono e suggestione. Ma di esempi potremmo farne tanti. Cosa manca ad un ascoltatore medio, a colui che non va mai oltre la melodia?

EM: Un’attenzione autentica nei confronti dell’ascolto porta a cogliere naturalmente quel connubio tra suono e suggestione a cui lei fa riferimento. Esattamente da qui nasce la grande esperienza della musica. Da quella “apertura al senso” che caratterizza le qualità cognitive dell’uomo, e che da un ascolto funzionale, utile per la sopravvivenza della specie, lo ha portato ad un ascolto simbolico, estetico. Però, in altre occasioni, abbiamo già parlato della “violenza simbolica”, o violenza “dolce”, che si annida anche nei processi culturali. Quindi, nell’evoluzione della cultura musicale, in particolare in occidente, sempre più si sono imposte delle sovrastrutture che hanno dirottato tutta la nostra capacità uditiva in direzione di quelle che potremmo chiamare, inseguendo la sua domanda, qualità “melodiche” della musica. Per cui, un ascoltatore medio che subisce tali sovrastrutture non potrà che indirizzare la sua immaginazione unicamente verso quei suoni o strutture sonore che riconoscerà immediatamente come “musicali”. Ovviamente si tratta solo di una “musicalità” che hanno definito quei dispositivi culturali (abitudini, costumi, scuola, etc.). Solo chi approfondisce, attraverso una pratica spirituale, culturale e sensibile tutta l’esperienza musicale, dalle sue origini ad oggi, può recuperare un ascolto più ampio e meno condizionato, capace di proiettarsi nel futuro così come nel più remoto passato (in parte si tratta proprio di recuperare quell’ascolto arcaico, originario). Bisogna anche aggiungere però che la melodia è un traguardo musicale di straordinaria sintesi. Massimamente affascinante. Si tratta del profilo disegnato nel tempo di qualità spettrali presenti in una qualsiasi successione di suoni, anche i più complessi, quelli non necessariamente strumentali. Insomma, come spesso accade, non si tratta di sostituire una modalità con un’altra, ma di ampliare e far coesistere più modi di ascolto, più condotte uditive.

SS: Mi interessa sapere dove risiedono le differenze secondo lei, tra musica concreta e melodia, dove per “musica concreta” si intende tutto ciò che va oltre i limiti delle convenzioni estetiche. La melodia, a quale convenzione estetica si piega?

EM: In parte a questa domanda ho già risposto con la precedente. La Musica Concreta per certi aspetti recupera un ascolto più arcaico nei confronti del suono. Questo è possibile perché le tecnologie hanno consentito la fissazione, su di un supporto, anche del più complesso “oggetto sonoro” non riproducibile con le vecchie tecnologie, e che consente un ascolto e un’analisi ripetute. Stiamo parlando di tutti quei suoni non riproducibili con le tecnologie strumentali e i dispositivi di notazione del passato, che invece erano perfettamente adeguati per una musica che si è sviluppata intorno a quei parametri che qui stiamo chiamando sinteticamente “melodici”. Come si può evincere dalla precedente risposta non credo che la “melodia” risponda unicamente ad un’esigenza di tipo convenzionale, ma anche a una qualità spettromorfologica già insita nel suono stesso e che l’uomo ha solo sviluppato, sintetizzato, evidenziato.

SS: Martusciello lei è un po’ un guru, la sua di musica è un ribollire fitto e coinvolgente di linguaggi sonori, che vengono piano a galla e poi sorreggono tutto il resto di una dimensione acustica che prende forma, e che sa essere intima e prorompente al tempo stesso. Cosa accade, quando compone, e cosa cerca, quando dirige i suoi musicisti?

EM: Non le so dire cosa accade quando compongo o quando dirigo. Io sono il risultato di tutto ciò che accade intorno a me e che è accaduto prima di me. Ovviamente mi riferisco solo a quella parte di mondo con la quale sono entrato in contatto, e che in qualche modo ho fatto mia, attraverso la scuola, i libri, i dischi, gli amici, e così via. Circa l’opera d’arte la domanda di Bourdieu resta fondamentale: chi crea l’opera d’arte? Seguendo la sua “teoria del campo” la risposta non è più così scontata come sembra, cioè l’artista, ma essa è il risultato di tutte le traiettorie e azioni degli attori che operano nel campo dell’arte. In tutti i casi, in estrema sintesi, prediligo una certa drammatizzazione ed evoluzione, in una temporalità non troppo dilatata, del discorso sonoro e delle corrispettive emozioni che ne scaturiscono.

SS: La registrazione di un suono, la manipolazione di un suono per fini compositivi, può essere definita, secondo lei, come la rottura dei confini che la musica da sempre disegna, in fatto di armonie, voicing, ecc?

EM: Direi di sì, però forse non tanto per opporsi a qualcosa, ma come dicevo in precedenza più per espandere qualcosa. L’arte in genere ha questa funzione di esplorare altri possibili immaginativi, ampliando in definitiva le nostre qualità intellettive e sensibili.

SS: Ho la fortuna di avere a disposizione la sua immensa cultura in fatto di suoni e di musica, e pertanto vorrei che spiegasse ai lettori, cos’è l’arte acusmatica e che tipo di componente emozionale possiede

EM: La ringrazio per l’immensa cultura musicale che mi attribuisce, ma devo dire che più il mio impegno si rivolge alla musica e più si  evidenzia l’ignoranza che ne scaturisce paragonata alla straordinaria ampiezza dell’oggetto di studio. In tutti i casi l’Arte Acusmatica si riferisce al fatto che ci si può rivolgere al suono senza vedere le cause che lo producono. Non ci sono esecutori in teatro, si usano di solito gradi di surrogazione nel lavoro compositivo (attraverso tecniche di manipolazione del suono) che rendano complesso il riconoscimento di un suono e il suo legame con la sorgente; in questo modo anche quando si riconosce l’origine di un suono esso spesso però appare “perturbante”. Questo ci consente di silenziare il visivo e di concentrarci sul dato uditivo, sulle sue configurazioni. In un acousmonium (specifici luoghi di ascolto ideali per la musica acusmatica) le luci vengono spente per lasciare l’ascoltatore al buio. Come nel Teatro delle Ombre questa opacità, questo mistero, che si cela nelle ombre del sonoro o dietro al suono, attiva la nostra attività immaginativa, libera la nostra creatività.

SS: L’utilizzo differente degli strumenti classici di un’orchestra, cambiano in modo rilevante il paradigma di quella prassi musicale legata a tecnologie tradizionali? 

EM: Certamente, gran parte della sperimentazione musicale strumentale novecentesca è stata possibile proprio grazie all’estensione delle tecniche strumentali tradizionali: il pianoforte preparato ne è forse l’emblema.

SS: Maestro, Antonio Raia, tenorista che lei conosce bene perché da lei scelto spesso per i suoi progetti, e che ha all’attivo un album “Asylum”, in cui suona senza sovrastrutture e senza filtri, ha registrato in un luogo che sembra essere davvero magico, sonoramente parlando, l’ex Asilo Filangieri, lo stesso dove anche lei spesso utilizza per suonare con la sua orchestra. Quanto importante è il rapporto spazio-suono? Non sarà che solo chi ha una cura quasi maniacale per ciò che giunge all’orecchio dell’ascoltatore,  sceglie luoghi che possano esprimere il legame che si instaura tra estetica del suono e sentimento? 

EM: Antonio Raia è un musicista che amo molto per le sue qualità umane, che a mio avviso poi ricadono nella maniera più naturale possibile anche sulle sue straordinarie qualità musicali. La musica esiste solo perché si connette ad uno spazio. Uno spazio inteso in maniera molto ampia: spazio sociale, spazio fisico, spazio interiore. Antonio è molto sensibile a queste diverse tipologie di spazio, ne ha forte coscienza e si concentra molto su di essi. Ad esempio il suo album “Asylum” è una sintesi perfetta di questa consapevolezza intorno a questo concetto ampio di spazio. Realizzato all’Asilo e cioè un incredibile spazio sociale (il concetto di “campo dell’arte” accennato sopra è esso stesso uno spazio sociale), organizzato e registrato con tecniche che ne esaltano lo spazio fisico, architettonico (questo anche grazie al contributo di uno straordinario artista come Renato Fiorito), un Album scaturito come indagine su memoria e desiderio che sono lo spazio dell’anima, lo spazio interiore.

SS: L’appaga più comporre, suonare o insegnare? Perché spesso stiamo bene e comodi in più contorni, ma ci appagano pochissimi impulsi.

EM: Queste tre cose da lei elencate si nutrono a vicenda, per me è impossibile proporre una gerarchia, anche solo in termini di appagamento. In realtà mi rifiuto proprio di farlo, credo sia una cattiva abitudine anche se talvolta utile, inevitabile, ma il più delle volte produce solo un sistema di preferenze che tende ad escludere lentamente alcune nostre esperienze, che invece sono sempre essenziali. Per me si tratta di intensificare la vita, di viverne molteplici. In questa prospettiva escludere alcune esperienze, cominciando proprio dal semplice non preferirle, è alla lunga una strategia perdente. Comunque, l’attività compositiva ha spesso il dono, grazie alla sua peculiarità di un lavoro in solitudine, di mettere in contatto il compositore con il proprio spazio interiore. Si tratta di un esercizio spirituale affine al silenzio. La pratica improvvisativa è invece un’attività eminentemente sociale, collettiva, prossima all’amore. Si tratta di una relazione incentrata su qualcosa di intimo, misterioso, che per certi versi va oltre la parola. L’insegnamento invece è il superamento del proprio orizzonte di mondo, perché attraverso le nuove generazioni e il lavoro di scambio di conoscenze ed esperienze, qualcosa di noi va oltre la nostra stessa vita, proiettandosi in un futuro al quale non abbiamo accesso. Come si fa ad elaborare una preferenza se si comprendono le differenze che queste tre circostanze mettono a disposizione per arricchire il nostro sentire, nutrire la nostra esistenza?

SS: Penso a quel suo modo di fare musica come ad una catena infinita di sfumature semantiche. Quanti stimoli e quanta immaginazione, oltre al talento servono per collocarsi in una struttura musicale che non sempre è facile racchiudere in una definizione canonica?

EM: In questo tipo di cose ho la sensazione che il talento quasi non esista. L’arte è qualcosa di così complesso che credo si usi il termine talento per nominare tutto ciò che sfugge ad una analisi dello specifico ruolo dei diversi elementi presenti nell’azione artistica. Credo che l’arte se proprio la si vuole ridurre all’attività creativa di una singola persona, quindi rinunciando anche alla “teoria del campo” precedentemente accennata, richieda tutte o una parte di una serie di caratteristiche quali: immaginazione, conoscenze storiche, consapevolezza del contesto, strumenti adeguati, esercizio costante, tempo disponibile, risorse economiche, studio rigoroso e così via. Mi riesce difficile comprendere in quale punto di questa fitta rete appena accennata si anniderebbe il talento, dove opererebbe. Credo che proprio questa complessa rete di istanze diverse, convergenti e divergenti al tempo stesso, rendano utile la presenza di una struttura canonica, uno schema che ne contenga le forze, ma al tempo stesso la singolarità dell’effetto generale di tutte queste forze, richieda sempre un qualche grado di sperimentazione e di conseguente rottura dei paradigmi dati. Come muoversi “correttamente” (se esiste un modo corretto) all’interno di queste molteplici forze, nei margini di soglie condivisibili, credo sia assolutamente inaccessibile.

SS: Se fosse nato a Treviso anziché a Napoli, sarebbe stato lo stesso Elio Martusciello eclettico, colto e convincente che conosciamo oggi?

EM: Come dicevo in precedenza sono convinto che noi siamo il risultato di tutte le esperienze particolari che ci hanno attraversato, quindi do per scontato che se fossi nato a Treviso sarei un’altra persona.

SS: Possiamo conoscere qualcosa circa il suo ultimo progetto con l’orchestra OEOAS?

EM: In realtà non esiste alcun mio ultimo progetto con l’orchestra OEOAS. Semplicemente perché una cosa simile sarebbe contraria allo spirito di quest’orchestra, in quanto tutto quello che fa è frutto di una scelta collettiva e condivisa. Certo può capitare che di volta in volta ci siano alcune persone che prendano iniziative trainanti, ma resta il fatto che le scelte finali sono sempre dell’intera orchestra. Quindi, fatte queste premesse, si può dire che se esiste un ultimo progetto dell’orchestra questo è legato a due musicisti che in questa occasione si sono fatti carico di proporre ed organizzare le prossime mosse da intraprendere. Si tratta dei già citati Antonio Raia e Renato Fiorito. L’idea è molto complessa e passa per diversi step, ma l’obiettivo finale è certamente la realizzazione di un primo album dell’orchestra. Il momento più esaltante di questo lungo percorso è stato sicuramente la settimana di incontri, con la partecipazione di più di 100 musicisti, per le sessioni di registrazioni finalizzate al disco. Io sono stato coinvolto per la mia lunga esperienza in fatto di conduction, ma Antonio mi ha affiancato magistralmente in questo lavoro di direzione. Ora siamo nella fase finale di montaggio e missaggio. Per una parte di noi il risultato sembra estremamente convincente ed inedito per una proposta discografica di un grande organico. Tra un po’ faremo una verifica con gli altri elementi dell’orchestra e poi passeremo alla fase successiva: finalizzazione, produzione e promozione.

SS: Maestro, ce l’ha un sogno nel cassetto?

EM: Molti, troppi. Il più importante però è sicuramente quello di vedere un miglioramento generale per l’umanità, forse sarà inevitabilmente lento, non credo più nelle rivoluzioni (anche perché una trasformazione rapida e radicale del contesto esterno non coincide con un cambiamento rapido dell’interiorità degli uomini), ma vorrei tanto che fosse almeno continuo, inesorabile e globale.

 

Simona Stammelluti 

 

LEO GULLOTTA – photo Adolfo Franzo’

Dal 26 al 28 Aprile 2019, al Teatro ARCOBALENO (Centro Stabile del Classico) di Roma la Compagnia CASTALIA presenta Leo Gullotta in MINNAZZA – MITI E PAGINE DI SICILIA, uno spettacolo di Fabio Grossi.

Lo straordinario Leo Gullotta ci fa rivivere le pagine più belle ed emozionanti della Letteratura Siciliana. Uno spettacolo per voce solista su prose e liriche siciliane, antiche e moderne.

Prendendo spunto dall’immagine antica della Madre Terra, “La Grande Madre”, MINNAZZA è un racconto sonoro che si snoda dalle origini della letteratura dell’Isola dei Ciclopi, fino ai nostri giorni. Un viaggio tra i Miti e il quotidiano, tra il sorriso e la denuncia civile.

Leo Gullotta, accompagnato dalle musiche del maestro Germano Mazzocchetti e dai video realizzati da Mimmo Verdesca, ci guida in un percorso drammaturgico, curato da Fabio Grossi, attraverso gli scritti di Giovanni Meli, Tomasi di Lampedusa, Luigi Pirandello, Luigi Capuana, Pippo Fava, Ignazio Buttitta, Andrea Camilleri e altri illustri scrittori.

Un volo radente sulla letteratura italiana attraverso penne siciliane, che invita a pensieri critici sulla nostra società moderna, confrontandola con riflessioni di oggi e di ieri. Autori e Protagonisti, che con Coraggio hanno difeso le loro idee, prendono forma attraverso la vocalità di un Interprete di schietto atteggiamento e di chiari propositi.