Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 5 di 94
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Ho recuperato uno dei film che destava in me maggiore curiosità e non solo per il debutto nel cinema di Elodie, ma perché da sempre interessata al modo di fare cinema del regista pugliese Pippo Mezzapesa.

La visione non mi ha delusa, ma devo ancora capire se classificarlo tra i film che rivedrei.

Una cosa però è certa: è un film da vedere.

Ma veniamo alle caratteristiche del film.

Girato in bianco e nero che scontorna in maniera efficace la storia di famiglie di mafia del Gargano, che vivono di pastorizia e di malaffare. La sterilità dei loro gesti, privi di morale, si contrappone alla fertilità delle morti che lasciano dietro di sé; l’ossimoro che segna le vite di famiglie composte da padri padroni che uccidono per vendetta e di figli spesso costretti contro la propria volontà a diventare a loro volta assassini, ma per scelta altrui. Vendette, faide e un amore che non doveva essere, sono la trama di un film che si nutre di suoni, espressività e riprese fatte ad arte.

E così mentre il regista passa dal grandangolo al macro con talento e leggiadria, il suono che scandisce i minimi dettagli, regge una storia che è scarna di dialoghi, proprio come accade nella realtà delle vicende raccontate. Nella mafia le parole usate sono sempre le stesse, quelle che imbruttiscono il vivere e trasformano il bene in male.

Così l’amore di Andrea per Marilena – appartenenti a cosche che fa sempre si fanno la guerra – diventa l’ennesimo pretesto per continuare ad uccidere in nome di un onore che di onorevole non ha nulla.

Pippo Mezzapesa anima il film con attori di grande calibro; Michele Placido, Tommaso Ragno, Francesco Di Leva (sempre appropriato) e poi ancora Francesco Patanè, Lidia Vitale anch’essa molto brava ed una inedita quanto incredibile Elodie che sembra nata per il cinema, con quella faccia che buca lo schermo, la sua fisicità accattivante, la voce adeguata alla narrazione e quel carattere che si presta a tratteggiare una storia nella quale il ruolo della donna è predominante se non essenziale, ad alcune vicende.

La cavalcata dei buoi, ripresa ad altezza reale, le inquadrature che scrutano, indagano animi e paure, indiscrete e affilate sono dettagli che fanno della pellicola un piccolo capolavoro.

Un film di scelte; molte sbagliate, alcune mediocri. Un film che si esprime in lingua madre, nel dialetto del Gargano e con espressioni crude, disdicevoli, e al contempo perfetto per il tema trattato.

Le feste, lo sfarzo e quel mondo tutto dorato impastato col sangue che è lo stemma caratteristico di famiglie mafiose che credono di poter essere fedeli ai loro codici d’onore, salvo poi scoprire che non tutto è come sembra.

Mezzapesa questo aspetto lo scandaglia con maestria e lo sottolinea anche senza il colore del sangue. Gli basta puntare la macchina da presa sui dettagli, sui profili, sulle mani sporche tanto quanto le coscienze.

Il segno distintivo dello sfregio del volto, è così evidente che tocca lo spettatore tanto da farlo empatizzate con chi della famiglia offesa, resta. E poi, altro giro, altra corsa, altro giro di vite, altra corsa a chi sopravvive.

E gli animali simbolo di stragi annunciate.

Il regista ha studiato bene luoghi, storie e simbologie. Ha ricamato la sua di storia, con l’autenticità dei codici mafiosi.

Le figurine con le facce della cosca avversaria, tenute su con le punes una volta “finito il lavoro”. Il perenne ricordare allo spettatore che quelle persone, quei mafiosi vivono, pascolano il gregge e uccidono, seguendo un ordine cronologico dall’alba al tramonto.

La trasformazione dell’amore in odio, la cancellazione di ogni forma di rispetto, nella pellicola è sottolineata da un dettaglio. Tutto studiato alla perfezione. Ogni fotogramma è studiato e poi animato.

Di padre in figlio, in sorte la morte come unico bene da tramandare.

Molto bello il finale, che racconta il riscatto di colei che per amore mette tutto a rischio.

Il film è ispirato alla prima pentita di mafia del Gargano che ha fatto luce sulla malavita delle cosche. Oggi vive in una località protetta con tutti i suoi figli, che erano destinati ad uccidersi tra di loro, perché nelle loro vene scorreva sangue di famiglie diverse, ma oggi vivono felici con la loro madre.

“Ti mangio il cuore” è un racconto ben ricamato, ed ogni trama è realizzata in maniera da creare il giusto pathos.

Molto adeguata anche la colonna sonora, scritta da Elisa Elodie Joan Thiele ed Emanuele Triglia, interpretato da Elodie e Joan Thiele.

Non so perché ma ogni settimana mi imbatto in storie che vale la pena raccontare.

Storie che commuovono e che in qualche modo recano in sé una morale.

Questa domenica la storia riguarda due amici, che la malattia ha provato a separare senza però riuscirci.

Rob Barrow e Kevin Sinfield sono due ex rugbisti, amici, che per una vita intera hanno condivido non solo la vita di squadra, ma anche una visione di futuro, oltre a tutti i momenti che l’esistenza pone dinanzi, quelli belli e quelli meno belli.

Una storia di amicizia questa, nel senso più puro e profondo perché l’amicizia prevede anche la capacità di prendersi cura dell’altro nei momenti bui, nelle avversità, sopportando anche quel senso di impotenza che assale, quando chi ami si ammala.

Tre anni fa infatti Rob viene colpito da una malattia che lo porterà all’atrofia muscolare, costringendolo alla totale immobilità, e dunque alla sedia a rotelle. La stessa che Kevin nelle immagini che hanno fatto il giro del mondo, spinge con tutto l’amore e la commozione di cui è capace.

Kevin da quando Rob si ammala, comincia a correre; fa sette maratone in un anno. Corre non solo per sfogare la rabbia, per trovare sé stesso, ma anche per raccogliere fondi per la ricerca che si occupa di quella malattia rara che fino ad allora non avevano mai neanche sentito nominare. Così organizza la maratona di 42 km a Leeds, nel Regno Unito. Tantissimi vanno ad assistere alla gara, molti partecipano. C’è anche Rob, sulla sedia a rotelle. Lui non si muove, non parla neanche più, ma c’è, è un tutt’uno con Kevin che spinge la sua carrozzina per tutti i 42 km e che prima di tagliare il traguardo, tra gli applausi della folla presente prende in braccio il suo amico fraterno, donandogli quasi un senso di libertà, e così insieme attraversano il traguardo, la meta che fu loro nel rugby, onorando quel legame che li aveva sempre uniti.

Un senso di famiglia, incastonato nella parola amicizia. E quelle parole che Kevin sussurra all’orecchio del suo amico, mentre lo stringe a sé, sicuro che lui capirà, perché nell’amicizia vera ci si comprende sempre, anche nel silenzio.

Nelle immagini video in quel gesto si avverte tutta la complicità, la forza e la commozione che investe due amici veri.

Questa storia mi ha fatto pensare a tutte quelle volte che ci si riempiti la bocca con la parola amicizia, salvo poi girarsi dall’altra parte quando colui che chiamiamo amico ha bisogno di aiuto, di sostengo, di non essere lasciato solo. I social hanno alterato il senso della parola “amicizia” ormai si è “amici” anche di persone delle quali non conosciamo quasi nulla, mentre invece ci si dovrebbe soffermare più spesso sulla necessità di riscoprirsi amici come Rob e Kevin e gioire di quel privilegio.


Ogni volta che lei parte, io sono in ansia. Lei, Pina Belmonte, ama tanto quella terra, la Palestina, la terra santa è la sua seconda casa. Lì lavora, aiuta gli altri, integrata perfettamente in quel difficilissimo tessuto sociale.
Ogni volta che parte le faccio giurare di tenermi sempre aggiornata, non solo come giornalista ma come amica (giornalista) che sa bene quali siano le difficoltà di quella parte del mondo.
E quindi quando mi arrivano messaggi come quello che ho ricevuto oggi pomeriggio, sento il bisogno di dare spazio alle sue parole che sono un racconto vero, di quello che sta accadendo in Israele e nella striscia di Gaza.

“Siamo nel caos più totale, Simona mia; Nel corso delle ore la situazione potrebbe precipitare anche qui a Gerusalemme. I razzi arrivano da Gaza vicino Gerusalemme; il numero dei morti non li conosciamo con certezza, perché cambiano di ora in ora. Un morto in Israele, Gaza ha più di 30 morti e centinaia di feriti. Si sapeva di una mediazione da parte dell’Egitto, ma non vi è stata nessuna tregua, nessun cessate il fuoco. Israele bombarda Gaza che risponde con i missili. La sicurezza qui è davvero precaria”

In queste ore bisogna attenersi alle istruzioni di sicurezza dettate dalla leadership del Fronte Interno israeliano.
A Gaza le attività sono ridotte, le attività educative non si possono fare; Per molti servizi, all’interno degli edifici non ci possono essere più di 50 persone alla volta. Le spiagge sono chiuse al pubblico. Tutti devono essere preparati e saper agire per proteggere sé stessi e gli altri. Appena si riceve l’allarme, bisogna entrare nel rifugio e restateci 10 minuti.

Cosa sta succedendo in Israele?

La situazione non è buona. Anzi, Israele è sull’orlo della peggiore tragedia della sua breve storia, peggiore di qualsiasi guerra finora accaduta: la morte della sua democrazia e il collasso totale del sistema.

La cosiddetta “riforma giudiziaria”, è un colpo di stato antidemocratico, la presa di un potere illimitato da parte di un governo democraticamente eletto, composto però da criminali condannati, fanatici messianici, opportunisti corrotti e ultra nazionalisti, che rivoltano la democrazia contro sé stessa e contro i cittadini di Israele.

La “riforma giudiziaria”, zeppa di bugie,  è in effetti un tentativo di indebolire e controllare la Corte Suprema, che nel caso di Israele è l’unico equilibrato organo di controllo che gli israeliani hanno.  A differenza di altre democrazie, Israele non dispone di una Costituzione, di una seconda camera, di una legislazione statale e di altri enti che possano limitare il partito al potere. Senza una Corte Suprema indipendente, i cittadini sono alla mercé di ogni capriccio del governo. In realtà, questo altro non è che dittatura.

Centinaia di migliaia di Israeliani provenienti da ogni angolo della società sono nelle strade a manifestare in tutto il paese e in tutto il mondo; sventolando bandiere israeliane, sono scese in strada a Tel Aviv,  per protestare contro i piani del governo di revisione del sistema giudiziario. Per più di tre mesi, centinaia di migliaia di persone sono scese in strada settimana dopo settimana per manifestare contro il piano, bloccando le principali autostrade e le strade cittadine mentre accusavano il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu di spingere il Paese verso la dittatura. Netanyahu ha rinviato il piano il mese scorso, dopo che le proteste antigovernative di massa si sono intensificate e hanno persino minacciato di paralizzare l’economia.

Questo gesto così potente ed impressionante, è stato l’unico raggio di luce in questo incubo. Il colpo di stato governativo e le terribili leggi sulla dittatura – che ricordano l’Europa prima della seconda guerra mondiale – hanno portato piloti di caccia, soldati di riserva, medici, avvocati, la comunità high-tech, la comunità imprenditoriale e bancaria, gruppi di donne, artisti, la comunità LGBT, ebrei osservanti moderati, famiglie in lutto, sopravvissuti all’olocausto, attivisti di ogni tipo e altri ancora, a protestare con una forza che Israele non ha mai conosciuto dalla sua fondazione 75 anni fa.

Pericolose coalizioni antidemocratiche di opportunisti politici, leader autoritari, fondamentalisti religiosi, ultra nazionalisti e criminali brutali, seminano il caos in tutto il mondo. Quando una democrazia come Israele, che supera di gran lunga le sue dimensioni in termini di impatto globale, cade vittima di tali forze che implodono dall’interno, l’effetto a catena è enorme e terrificante.

La morte di una democrazia è come un virus che attacca il corpo. Non è solo devastante, è anche contagioso. In perfetta analogia con la pandemia di Covid 19, tutti i paesi non dovrebbero solo stare attenti e proteggere sé stessi … ma anche tendere la mano e aiutare, proprio come ha fatto il mondo durante la pandemia, condividendo conoscenze, informazioni e medicine.

Perché sappiamo tutti che i virus si diffondono come il fuoco e finché uno di noi è infetto, nessuno di noi è al sicuro.

Per gli ebrei di tutto il mondo la situazione è ancora più complicata. Israele è stato il figlio dell’amore del popolo ebraico, da esso nutrito, sostenuto e difeso, la manifestazione di un sogno antico, ad esso intrinsecamente connesso e che riflette i suoi valori e la sua etica. Per  molti Israele è una casa e, con tutta la sua complessità e le sue sfide, niente di meno che un miracolo. Ora tutto ciò è a rischio. Se il colpo di stato avrà successo, gli Ebrei diventeranno molto più vulnerabili che mai.

E poi, c’è il futuro del popolo palestinese, che ha già sofferto così tanto sotto decenni di occupazione.

L’attuale governo ha dichiarato guerra alla pace, eliminando ogni speranza di una soluzione dei due Stati e lasciando il popolo palestinese esposto a orribili atti di violenza senza alcuna salvezza in vista. La bomba a orologeria che è il conflitto israelo-palestinese, minaccia la stabilità dell’intero Medio Oriente e, come tale, del mondo intero.

La famosa cantante Noa, ha chiesto che in tutto il mondo si levi la voce a sostegno della decenza, dell’uguaglianza e della democrazia.

“Fate sapere al governo israeliano che la sua rivoluzione antidemocratica, l’oppressione, il fanatismo e il razzismo non sono ammissibili per la comunità internazionale e non sono i benvenuti nei vostri confini.Fate sapere al governo israeliano che non sarete in grado di condurre affari o filantropia come al solito se questo golpe antidemocratico non sarà fermato. E ricordate, il governo non è il popolo. Noi, il popolo, stiamo combattendo per la democrazia e la libertà… i nostri valori condivisi. Sosteneteci, in ogni modo possibile. Abbiamo Bisogno di voi”.

Il capo della Chiesa cattolica romana in Terra Santa ha avvertito in un’intervista che l’ascesa del governo di estrema destra del primo ministro Benjamin Netanyahu ha peggiorato la vita dei cristiani nella culla del cristianesimo.

L’influente patriarca latino nominato dal Vaticano, Pierbattista Pizzaballa, ha dichiarato all’Associated Press che la comunità cristiana di 2000 anni della regione è stata oggetto di attacchi crescenti, con il governo più di destra nella storia di Israele che incoraggia gli estremisti che hanno vessato il clero e vandalizzato le proprietà dei religiosi.

L’aumento degli incidenti anticristiani arriva anche quando i gruppi di destra, galvanizzati dai loro alleati al governo, sembrano aver colto l’attimo per espandere gli sforzi per stabilire enclavi ebraiche nei quartieri arabi di Gerusalemme est.

Ma i cristiani affermano di ritenere che le autorità non proteggano i loro siti da attacchi mirati. E le tensioni sono aumentate dopo che la polizia israeliana si è scontrata con i palestinesi nel complesso della moschea di Al-Aqsa sul Monte del Tempio, scatenando l’indignazione tra i musulmani e uno scontro regionale la scorsa settimana.

Per i cristiani, Gerusalemme è il luogo in cui Gesù fu crocifisso e risorto. Per gli ebrei, è l’antica capitale, sede di due templi ebraici biblici. Per i musulmani, è dove il profeta Maometto ascese al cielo.

Dalle ultime notizie parrebbe che un accordo di cessate il fuoco mediato dall’Egitto sia stato raggiunto tra Israele e Gaza che entrerà in vigore alle ore 22:00. Secondo quanto riferito da fonti egiziane e israeliane, l’accordo di cessate il fuoco obbliga entrambe le parti a non colpire le case ed i civili.
Ma questo non significa che nei giorni a venire, non vi possano essere altre escalation di violenza.

 

Da ieri c’è un pensiero che mi tiene in pena.
Non so precisamente perché questa notizia mi abbia sconvolto così tanto. Non è la prima volta che faccio i conti da vicino con un male incurabile e non è solo dispiacere quello che provo; c’è anche una riflessione alla quale mi ha indotto la notizia della malattia terminale di Michela Murgia. O forse non la notizia, ma il modo in cui ha deciso di comunicarla.
Perché la famosa scrittrice ed attivista non ha solo raccontato di essere malata, ma ha anche calato il velo, ha avuto quel coraggio che manca quasi a tutti, ossia quello di fare i conti non solo con ciò che sarà ma con ciò che si è sempre stati, e che si sarà fino all’ultimo respiro.

Il coraggio non si compra da qualche parte “un tanto al chilo”, ti raggiunge quando diventa necessario averlo come compagno di viaggio, e riesce a rendere tutto così chiaro che quasi ci si sente avvolti da una sorta di serenità, perché alla fine come diceva Aristotele: “Se c’è una soluzione perché ti preoccupi? Se non c’è una soluzione perché ti preoccupi?” Facile a dirsi. La verità è che il sentimento umano è così profondo e complesso che il passaggio dalla paura alla consapevolezza non è affatto semplice.

Le sue parole, che vengono fuori dall’intervista rilasciata al Corriere della Sera circa la sua malattia dalla quale non può più scappare, arrivano come un balsamo, quasi a placare il dolore di chi deve accogliere quella notizia. Nessuna pietà, solo una gran voglia di abbracciarla e dirle “grazie” per averci fatto comprendere che conta più come si è vissuto che come si muore e che il dolore non redime, ma mette alla prova. E così mentre lei parla di sé stessa, ad interrogarci siamo stati tutti (io almeno l’ho fatto), su ciò che siamo, che siamo stati, sull’amore che proviamo, sulle maschere che siamo costretti a portare, sulla cultura che non sempre difende le donne e sul coraggio (che quasi mai abbiamo).

Racconta di non volersi difendere da quel male, di non voler attaccare la malattia, e di aver scelto di curarsi per guadagnare tempo. Ed io se potessi quel tempo glielo dilaterei, affinché fosse tanto, tantissimo. A 5o anni, dice di aver vissuto tante vite, di avere ancora dei desideri, e ricordi preziosi. E poi ancora l’amore provato e ricevuto, le sue passioni, la casa grande comprata per poter stare tutti insieme, i dieci posti letto, il mutuo negato perché malata e quel matrimonio che arriverà perché lo Stato vuole un nome legale che possa prendere delle decisioni.

Nella sua vita la Murgia non è stata mai simpatica a tutti; per le sue prese di posizione, le sue opinioni, le sue “critiche”. Ma in fondo così è, così si fa; si procede, si raccolgono i frutti ed anche le critiche, le battute d’arresto e le ripartite, e si convive con le opinioni contro, ed anche  con le paure.
Eppure lei sembra non averne.
O forse le ha già metabolizzate, mentre io mi vesto di inquietudine e di dispiacere. E continuo a domandarmi dove lei trovi tutta questa forza. Che domanda scontata, direte. Forse quella forza la trova nella consapevolezza che la vita ha un senso mentre scorre, a prescindere da come scorra e da dove e come vada a finire. E se il mare è calmo o in tempesta, la rotta resta sempre quella che punta al cuore. Di chi si ama.

Perché l’amore resta la risposta a tutto. Anche quando non vi è logica, quando regna il caos dentro, quando arriva la disfatta. L’amore rende supereroi. Fa miracoli. E questo si percepisce dalle parole di Michela Murgia. E allora diventano insegnamento.
Io la capisco quando dice che la cosa che più teme è il non essere più presente a sé stessa. È una cosa che spaventa anche me. Quel sentirsi scivolare fuori dai propri pensieri, dalla capacità di scegliere, di comprendere, di riconoscere. Quel sensazione in cui si smette di sentirsi parte di un contorno che ognuno vivendo disegna nei minimi particolari, per poi finire risucchiati chissà dove.

Non ci pensiamo mai alla morte; per esorcizzarla, per spirito di sopravvivenza. Eppure arriva e quando è “fuori tempo” costringe a fare i conti con ciò che è stato, ma anche con ciò che sarà.
Io penso spesso alla caducità della vita; invecchiando cerco di “stringere il cerchio”, di trattenere l’essenziale, di essere migliore. Ma credo anche alla fatalità, alla possibilità che alcune cose accadano proprio quando non si è pronti.
E allora grazie a Michela Murgia – con la quale spesso  e su molte questioni non sono stata d’accordo – per averci consegnato attraverso le sue parole, una chiave di lettura sulla vita e su cosa fare quando la morte ti guarda negli occhi e tu devi dire chi sei.

La serenità di Michela Murgia, forse tra qualche tempo mi raggiungerà, ma ad oggi provo una grande amarezza, perché la vita non sempre ti da un asso nella manica, e lei, ad oggi gioca a carte scoperte, con in mano la regina di cuori.

 

Negati i benefici amianto ai figli non a carico, Bonanni: “superare questa discriminazione

Siracusa, 4 maggio 2023 – La Corte di Appello di Catania ha confermato la sentenza di condanna dei Ministeri della Difesa e dell’Interno a riconoscere vittima del dovere il motorista navale Salvatore Arcieri.

Arcieri, di Augusta, in provincia di Siracusa, si è arruolato nel 1957 all’età di 16 anni in Marina dove ha svolto servizio per 6 anni, si è imbarcato sulle navi “Mitilo”, “Chimera” e “Vittorio Veneto” per più di 15 mesi.

Il motorista è morto nel 2009 all’età di 68 anni a causa di un mesotelioma pleurico per l’esposizione ad amianto, con il quale è stato a contatto negli anni di servizio presso la Marina Militare. L’asbesto si trovava in tutti i luoghi frequentati dal militare, sulle navi e a terra. Per questo dopo la sua morte sua moglie, Vincenza Pungello, e i suoi 5 figli si sono rivolti all’Osservatorio Nazionale Amianto e al suo presidente, l’avvocato Ezio Bonanni, per ottenere i benefici amianto.

La Procura di Padova che ha svolto le indagini ha spiegato che l’uomo “è stato impiegato nella diretta manipolazione di materiali in amianto, anche in forma di lastre e cartoni, presenti nella protezione delle paratie tagliafuoco, dei pavimenti e dei locali a motore, con esposizione anche indiretta e ambientale, in assenza di prevenzione tecnica e di protezione individuale”.

In primo grado il Tribunale di Siracusa ha riconosciuto i benefici amianto a tutti i ricorrenti. I ministeri, però hanno presentato ricorso, respinto dalla Corte di Appello di Catania, tranne in un punto, “quello del risarcimento per i figli non a carico, negato a 3 dei 5 figli di Arcieri (Sebastiano, Laura e Dario) perché al momento della morte del padre non erano conviventi. Una discriminazione, un vuoto normativo che va colmato al più presto”, ha dichiarato Bonanni comunque soddisfatto della sentenza che conferma ancora una volta la presenza di amianto sulle navi della Marina e il nesso causale con il mesotelioma che ha ucciso tanti militari.

Il militare – si legge infatti nel dispositivo – era privo di informazioni circa il rischio amianto e svolgeva la sua attività di servizio in luoghi chiusi ed angusti”.

Non ce l’aspettavamo – ha commentato la figlia Laura, secondogenita ed esclusa dai benefici amianto – abbiamo un po’ l’amaro in bocca. Non pensavamo di essere esclusi, per questo faremo ricorso in Cassazione. Mi sembra discriminatorio, non ci sono figli e figliastri, tutti noi abbiamo sofferto per la morte di nostro padre, avvenuta prematuramente a causa dell’asbesto e di una Marina militare che è stata matrigna. Per colpa dell’amianto mio padre si è ammalato e se n’è andato in 3 settimane e abbiamo ricevuto una giustizia a metà”. Gli stessi giudici nell’accogliere il ricorso sul punto hanno scritto: “La l. n. 266 del 2005 non ha provveduto all’unificazione della categoria delle vittime del dovere con quella delle vittime della criminalità organizzata, avendo solo fissato l’obiettivo di un progressivo raggiungimento di tale fine”.

L’Ona continua a lavorare anche per aggiornare la mappatura, anche attraverso l’app http://app.onanotiziarioamianto.it Si può richiedere al link https://www.osservatorioamianto.it/assistenza-legale/ o al numero verde gratuito 800 034 294.

In scena gli allievi del laboratorio con uno studio sulle opere del famoso drammaturgo tedesco

Lo spettacolo Anima da tre soldi della compagnia teatrale Libero Teatro a causa di un problema tecnico logistico cambierà date e luogo. Andrà in scena infatti dal 22 al 24 maggio nella sala teatro del DAM – Dipartimento Autogestito Multimediale all’Unical e non più, come precedentemente previsto, dal 10 al 12 maggio al Tau – Teatro Auditorium. I biglietti già acquistati in prevendita nei punti indicati e online saranno rimborsati dall’agenzia InPrimaFila di Cosenza e si potranno riacquistare per le nuove date secondo le stesse modalità a partire dalla prossima settimana. La compagnia ringrazia l’associazione culturale Entropia – Dam dell’Unical per la disponibilità concessa del teatro.

Anima da tre soldi è il titolo del nuovo lavoro diretto da Max Mazzotta, un omaggio all’autore tedesco, che vedrà sul palco gli allievi del laboratorio di ricerca teatrale tenuto dal regista cosentino in questi mesi all’Unical in collaborazione con Disu – Dipartimento di Studi Umanistici e Cams – Centro Arti Musica e Spettacolo dell’Università della Calabria e incentrato su due delle più importanti opere del famoso drammaturgo, “L’anima buona del Sezuan” e “Opera da tre soldi”. Una riscrittura dei testi brechtiani, rivisitati in chiave contemporanea tra canzoni hip hop e street dance. Nelle vesti dei personaggi di Brecht, Chiara Maltese, Elisa Marta, Giuseppe Tenuta, Pasquale Mammoliti, Ruben Terzo, Salvatore Romano e Vincenzo Marco Caparelli.

«Chi vuole intraprendere un percorso di ricerca e di studi sul teatro tornerà sempre a Brecht – spiega Mazzotta – per riconquistarne la poetica, per riaffermarne i principi del teatro epico, del concetto di “terza persona”, del teatro sociale, dell’effetto di straniamento e del teatro di regia. Tanti i suoi insegnamenti, una vera e propria scuola. L’Anima da tre soldi è un confronto dialettico tra due Brecht diversi, – continua – quello giovane, visionario e istintivo, che descrive nell’“Opera da tre soldi” l’appiattimento della coscienza tramite l’ironia dei Songs e il sarcasmo dei protagonisti; e quello più maturo de “L’anima buona del Sezuan”, che costruisce una storia sotto forma di parabola, dove bisogna guardare alla bontà, non come “capacità a fare del bene” ma come “capacità di sublimare e difendere le qualità umane”. E’ stato un faticoso e bellissimo percorso di studio, – conclude il regista – un’esperienza didattica e di crescita, un mondo per dare voce a Brecht attraverso la dedizione, la sensibilità e l’amore di sette giovanissimi ragazzi che hanno dato e scoperto se stessi attraverso questo autore e il suo modo di vedere il teatro e il mondo»

di Lelio Castaldo e Simona Stammelluti

Non era mai successo negli ultimi anni che si dovesse rinunciare all’evento clou dell’anno, ossia la festa del 1 maggio con il Parklife, festival patrocinato dal comune di Rende (Cs).

Migliaia di biglietti venduti e tantissimi giornalisti giunti in città per assistere all’evento presso il parco fluviale che nelle scorse edizioni, è stato un punto di riferimento culturale della Calabria, nonché quello più vissuto e desiderato da tutti i giovani della regione.

Ma quest’anno le condizioni climatiche che sono andate via via peggiorando nel corso del fine settimana, per culminare in una giornata odierna piovosa e fredda, hanno costretto gli organizzatori ad annullare l’evento, anche per una questione di sicurezza. Ma si pensa già a recuperare l’evento in un giorno prossimo, appena si potrà capire quando nello specifico.

C’è stato molto poco oggi, a ricordare la primavera Rendese, e pertanto si è dovuto rinunciare al ricco programma dell’evento, che prevedeva musica, intrattenimento e tanto colore.

Ma per fortuna, in città si è potuto visitare la galleria Nazionale di Cosenza, rimasta aperto proprio in occasione del Primo Maggio, insieme solo ad altri due musei in Italia.

Alla galleria si accede attraversando il centro storico della città, ed è situata all’interno di Palazzo Arnone, un imponente edificio che risale al Cinquecento, e nei suoi spazi si possono ammirare opere risalenti all’arte del XVI al XIX secolo, di pittori nati in Calabria, come Pietro Negroni, Marco Cardisco, Francesco Cozza e di artisti napoletani che hanno influenzato la pittura locale. Di grande interesse è il nucleo costituito dalle opere di due protagonisti del Seicento: il calabrese Mattia Preti e il napoletano Luca Giordano.

All’interno della Galleria d’arte, vi sono opere di Umberto Boccioni, che testimoniano l’attività dell’artista dal 1906 al 1915, ossia, dagli anni della formazione fino alla sua piena affermazione come autore futurista.

Il museo si è arricchito nel tempo di opere che sono state donate, ma anche di nuovi acquisti, come quelle di Giorgio de Chirico, Emilio Greco, Antonietta Raphaël, Pietro Consagra, Mimmo Rotella, Bizhan Bassiri.
Il museo espone, in comodato d’uso, la collezione Intesa Sanpaolo, che dalla piccola tavola raffigurante “Cristo al Calvario e il Cireneo”, attribuita a Lazzaro Bastiani al pastello “Gisella” di Umberto Boccioni ripercorre le maggiori correnti artistiche dal Quattrocento al Novecento.

Nel museo è possibile anche imbattersi in opere contemporanee, che mostrano le espressioni artistiche del territorio, come quelle di Berlingieri, Telarico e il famosissimo Alfredo Pirri.

All’interno della galleria si svolgono spesso degli eventi in collaborazione con il conservatorio Stanislao Giacomantonio di Cosenza.
Un gioiello di arte, incastonato dunque in un centro storico ricco di bellezze, che comprende anche il bellissimo teatro di tradizione Alfonso Rendano, che affonda le sue radici nel rinascimento.
La pioggia di questo primo Maggio, non ha tolto la possibilità di godere dell’arte, che con sfumature diverse, impreziosisce questa terra di Calabria, che merita di essere visitata e raccontata. Sempre.
Lelio Castaldo e Simona Stammelluti 

 

 

Il teatro Pavarotti di Modena gremito, un silenzio assoluto e l’arte di saper rendere tutto credibile.
Ieri sera in scena Spellbound Contemporary Ballet con “L’arte della fuga” una performance capace di mantenere alta l’attenzione del pubblico per un’ora e dieci minuti, tempo nel quale si consumano sensazioni che sorprendono e appagano. Nessuno da quella dimensione artistica però, vuole fuggire.

Il coreografo di fama internazionale Mauro Astolfi affida agli otto straordinari ballerini in scena – Lorenzo Capozzi, Alessandro Piergentili, Miriam Raffone, Mario Laterza, Giuliana Mele, Mateo Mirdita, Anita Bonavida, Martina Staltari – il suo concetto di “fuga” che si ispira all’opera incompiuta di Bach, “L’arte della fuga”, che per l’occasione è stata reinventata dal compositore Davidson Jaconello, che non la stravolge ma tesse una trama che si arricchisce di parole sussurrate, mentre il tema musicale regge i complessi movimenti dei performer che utilizzano ogni intenzione ed ogni respiro, per rendere il senso della prospettiva.

La fuga intesa in ogni sfumatura possibile, sia essa fisica o emozionale, che coinvolge paure, sentimenti e possibilità, ognuna delle quali reca in sé cause ed effetti, probabilità e conseguenze.

Un continuo divenire, un fuggire da qualcuno o da qualcosa, in cerca di una opportunità, una gioia, una consapevolezza, una terra promessa, un futuro meritevole di essere vissuto. O semplicemente la fuga da sé stessi, oltre tutto ciò che crea imbarazzo, oltre quel mondo che ci vuole tutti uguali, omologati e stanchi.

Un muro in scena, che contrariamente alla sua natura di immobilità e invalicabilità, si muove, apre varchi; usa i ballerini per essere attraversato, scomposto, ricomposto, e che nasconde, che ingoia e poi risputa nel mondo la fragilità umana, la forza di volontà, la fuga, la rincorsa, la vittoria e la sconfitta, un tempo incerto ed uno di pace. Forse.
In scena tutto si scompone, per poi ricomporsi; i ballerini vestiti in abiti apparentemente impeccabili, si svestono, si maltrattano, di riprendono e si “scoprono” dentro un tempo scandito che plasma, che ostacola, ma che tiene insieme il vivere. E così anche gli abiti divengono un “non luogo” dal quale fuggire.
I movimenti armonici, precisi, ammalianti e carichi di pathos voluti dal coreografo, sono il frutto di un grande lavoro di scrittura scenica, tecnica e complicità, di memoria e sentimento e viene da domandarsi come facciano ed essere così impeccabili e al contempo così intensi. La qualità del movimento, che diventa spesso veloce e pieno di dettagli, che si nutre della musica senza mai dimenticare il tema, è un modo unico ed appagante per proiettare il pubblico in una dimensione altra, quasi uno stato estatico che conduce letteralmente verso una condizione di bellezza che in alcuni casi è speranza.

E così quel tappeto verde – arrotolato e portato in spalla da un ballerino che da una uscita di sicurezza attraversa la platea per poi portarlo sul palco –  dopo essere stato scosso, cavalcato, fatto sussultare, diventa la conclusione di una fuga, di una qualsiasi delle fughe che ci tengono svegli per una vita intera e che alla fine ci conducono dentro, sotto, altrove.

Durante lo spettacolo, i danzatori si mimetizzano, seducono, lottano, raccontano di relazioni, di solitudini e poi si sorreggono, gravitano su sé stessi, dentro momenti corali o in assoli in cui mostrano tutta la loro versatilità e quella bellezza che è artistica perché propria di quel linguaggio del corpo, che sa essere esaustiva tanto quanto il potere della parola.

Una eleganza sublime abita il palcoscenico.

Ieri sera ho visto l’arte prendere forma, costruire una storia, incantare.
Merito di Mauro Astolfi che sa sempre come sorprendere il suo pubblico, e dei suoi straordinari ballerini che mettono in scena ogni sera non solo l’arte, ma anche la cultura, ed il linguaggio del corpo che, come in questo caso, sa fare meraviglie.

Dopo un silenzio impeccabile, al termine della performance applausi a scena aperta. Meritatissimi.

Mi viene da dire che nel modo di creare e di concepire la danza di Mauro Astolfi si racchiude a mio avviso la volontà di mettere a fuoco conoscenza, competenza e verità. Perché in fondo l’arte, non mente mai.

 

Le foto sono tutte di Cristiano Castaldi 

 

 

Primavera dei Teatri ritorna in scena nella sua consueta collocazione primaverile.

Il festival diretto da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, presenta oltre 40 eventi di spettacolo dal vivo tra teatro, danza, musica, performance, residenze creative, workshop e reading.

 

Torna in primavera – nel suo periodo originario – dal 27 maggio al 4 giugno a Castrovillari, la XXIII edizione di Primavera dei Teatri, festival dedicato ai nuovi linguaggi della scena contemporanea, organizzato da “Scena Verticale” la compagnia di Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano.

Come da tradizione, sono tanti gli spettacoli di famose compagnie italiane e straniere che nascono da Primavera dei Teatri come autentica anteprima degli eventi futuri del panorama teatrale. Un cartellone ricchissimo. Il festival è oggi un “avamposto” a Sud della drammaturgia contemporanea e della nuova creatività, un laboratorio di incontri e confronti tra artisti di diversa estrazione e generazione. Oltre 40 eventi di spettacolo dal vivo tra teatro, danza, musica, performance accompagnati da residenze creative, workshop, reading, presentazioni di libri e convegni: 16 debutti assoluti, 4 anteprime, 4 coproduzioni e 3 progetti internazionali.

 

Il festival si conferma essere una straordinaria vetrina della cultura nazionale e internazionale. Lo schema della multidisciplinarità, che ha riscosso da sempre il consenso del pubblico e della critica, resta quello degli anni precedenti, ma con una importante novità: il ritorno del festival nella sua collocazione annuale originaria, con tutti gli eventi distribuiti nella consueta cornice di Castrovillari.

 

Tanti sono gli elementi che concorrono a rendere una manifestazione prestigiosa e riconoscibileaffermano i direttori del Festival Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisanoil territorio in cui nasce e attecchisce, la peculiarità del progetto, una direzione rigorosa e coerente nelle scelte, la magia degli spazi utilizzati. Uno di questi elementi è senza dubbio la sua collocazione temporale nell’arco dell’anno. È per questo motivo che abbiamo voluto fortemente che Primavera dei Teatri tornasse alla sua collocazione primaverile, anche prendendoci il rischio di non attendere l’avviso pubblico regionale sugli eventi che da anni sostiene economicamente il festival per 2/3 del suo budget. Primavera dei Teatri, che apre ogni anno la lunga stagione festivaliera in Italia, deve poter assolvere alla funzione di presentare e accompagnare i debutti nazionali, di tante compagini artistiche, in questo preciso momento dell’anno e non può vanificare il lavoro di programmazione di un anno che un evento culturale come questo necessita“.

Si parte il 27 maggio con il seminario di drammaturgia per autori e attori cura di RAFAEL SPREGELBURD. Le residenze artistiche prenderanno il via il 28 maggio e saranno: WHITE ACTS (progetto, coreografia, danza: Roberta Racis), SPOKEN DANCE (Coreografi e Interpreti: Noemi Dalla Vecchia e Matteo Vignali), SMART WORK di Armando Canzonieri, regia Gianluca Vetromilo e LA CONSAGRACION DE NADIE (Drammaturgia, regia e interpreti Gonzalo Quintana e Micaela Fariña).

 

Tra teatro e danza, nazionale ed internazionale, gli spettacoli avranno inizio martedì 30 maggio con la prima nazionale di BIG IN KOREA, drammaturgia Francesco d’Amore e Luciana Maniaci, regia Kronoteatro, con Tommaso Bianco e Maurizio Sguotti e con CANTO ALLE VITE INFINITE, sempre in prima nazionale, drammaturgia, regia e interpretazione di Elena Bucci, progetto in collaborazione con Marco Sgrosso.

 

Mercoledì 31 maggio sarà la volta DONNA DI DOLORI di e con Patrizia Valduga in scena con Daniela Piperno (primo studio di un work in progress guidato da Antonio Calbi) e a seguire lo spettacolo in prima nazionale UMANITÀ NOVA -cronaca di una mancata rivoluzione, con Giuseppe Carullo, regia Cristiana Minasi, drammaturgia Fabio Pisano.

 

Giovedì 1° giugno appuntamento invece con la danza con ALCUNE COREOGRAFIE ideazione, regia e videocoreografia di Jacopo Jenna, collaborazione e danza Ramona Caia. Poi Federica Carruba Toscano sarà PENELOPE, con la regia e drammaturgia di Martina Badiluzzi, mentre in prima nazionale debutterà I GRECI, GENTE SERIA!  COME I DANZATORI con Roberto Scappin e Paola Vannoni.

 

Venerdì 2 giugno tre prime nazionali: i PERSIANI di Eschilo – la tragedia più antica del mondo, con Silvio Castiglioni, canti Marina Moulopulos, spazio scenico e regia I Sacchi di Sabbia; Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari proporranno LIDODISSEA, mentre la Compagnia occhi sul mondo sarà in scena con LA SINDROME DELLE FORMICHE.

 

RE PIPUZZU FATTO A MANU_MELOLOGO CALABRESE PER TRE FINALI di e con Dario De Luca e Gianfranco De Franco sarà in scena sabato 3 giugno, giornata che vedrà esibirsi anche – in prima nazionale – Lisa Ferlazzo Natoli in CITTÀ SOLA di Olivia Laing, riduzione e drammaturgia Fabrizio Sinisi, regia Alessandro Ferroni e Lisa Ferlazzo Natoli. La giornata di sabato vedrà anche in scena Saverio La Ruina protagonista dello spettacolo da lui scritto, VIA DEL POPOLO e a seguire FELICISSIMA JURNATA, uno spettacolo di Putéca Celidònia, drammaturgia e regia Emanuele D’Errico.

 

L’ultima giornata di festival, domenica 4 giugno, sarà la volta di STORIE DI NOI di Beatrice Monroy, regia di Giuseppe Provinzano, BEAT FORWARD di Igor X Moreno X Collettivo Mine e WELCOME TO MY FUNERAL, nuova creazione di Brandon Lagaert (danzatore della Peeping Tom Company) per Equilibrio Dinamico Dance Company.

 

Anche quest’anno il cartellone multidisciplinare propone inoltre importanti reading, presentazioni di libri e convegni: le letture delle opere poetiche di Marica Roberto e Daniel Cundari, la presentazione del libro UNO STRAPPO NELLA RETE articoli di Renato Nicolini per Tuttoteatro.com a cura di Mariateresa Surianello e ancora NOTTURNO SCALDATI progetto a cura di Valentina Valentini, LE POLITICHE PER LO SPETTACOLO DAL VIVO TRA STATO E REGIONI, libro a cura di Marina Caporale, Daniele Donati, Mimma Gallina, Fabrizio Panozzo, la conversazione tra Rossella Menna e Daria Deflorian sul libro QUALCOSA DI SÉ su Daria Deflorian e il suo teatro; per finire i consueti appuntamenti musicali serali tra DJ Set, GLORIOUS4 in concerto, SAMUELE CESTOLA e FABIO NIRTA.

 

Considerato uno degli appuntamenti più importanti del panorama teatrale italiano, Primavera dei Teatri è diventato un punto di riferimento imprescindibile per operatori, critici, artisti e per il pubblico proveniente da tutta Italia e dall’estero. Primavera dei Teatri vuole contribuire al processo di rinnovamento del linguaggio scenico nazionale e internazionale e operare per il ricambio generazionale nel campo delle arti performative. Allo stesso tempo, il festival vuole dare il suo contributo alla crescita democratica, sociale e culturale del suo territorio e di tutto il Mezzogiorno. Il festival fin dalla sua prima edizione è stato sostenuto dal Ministero per i beni e le attività culturali.

 

È sempre così, quando una persona – con tutti i suoi limiti di essere umano – finisce nel fango, trascina con sé anche gli ideali. E questo non va bene mai. Perché gli ideali proteggono il futuro, ci aiutano a pensare ad un mondo migliore, a credere che ce la si possa fare, e che il male prima o poi perirà sotto il peso dell’altruismo, dell’onestà e della gratitudine.
Ed è per questo che prendiamo le distanze dagli eventi che portano le persone a sbagliare, tenendoci stretti gli ideali.
Per noi giornalisti è davvero molto difficile dover tornare sui propri passi come ci è toccato fare nei giorni scorsi, ed è ancora più difficile per noi giornalisti che raccontiamo la terra di Sicilia, la terra di mafia.

E così in questi giorni ci è toccato raccontare una storia, un fatto di cronaca, molto diverso da quello che avevamo raccontato nel 2020, in piena pandemia; era la storia di Daniela Lo Verde, la preside della scuola “Falcone e Borsellino” nel quartiere Zen 2, uno dei più disagiati di Palermo, dove lei si recava ogni mattina per coordinare gli aiuti alle famiglie dei suoi studenti.

Per tutti quella preside era la faccia bella e pulita di una terra messa sotto scacco dalla mafia, veniva intervistata dalle tv di mezzo mondo e nominata Cavaliere del Lavoro dal Presidente Mattarella ed ogni volta ripeteva sempre lo stesso “Slogan”: “noi insegniamo legalità persino durante la ricreazione”.
Tutti abbiamo creduto alle sue parole, anche Bruxelles tanto che ogni volta che la preside Lo Verde partecipava ai bandi europei per avere dei fondi destinati ai suoi ragazzi, li otteneva sempre e nessuno mai aveva dubitato della sua “buona volontà”.

Eppure, malgrado sia stato difficile crederci, la realtà era molto lontana da ciò che lei stessa raccontava, e a sbugiardarla non solo le accuse di peculato e corruzione che l’hanno portata ad essere arrestata, ma proprio le intercettazioni che non lasciano scampo a dubbi e che fanno rabbrividire

“Ci arrivano soldi da tutte le parti – esultava con il suo vicepreside – e tu lo devi dire che io sono quella speciale”.

Ma questo non era un perdonabile sussulto di vanità di una persona che si ritrova al centro dell’attenzione per merito, ma era la malsana euforia di chi si crede onnipotente e quindi in diritto di fare ciò che vuole, anche rubare.

Ma non è vero che vince il male, non sempre.
Non è vero che in terra di mafia sono tutti corrotti e collusi.
Non è vero.
È vero invece che esistono gli ideali di legalità che si nutrono di gesti quotidiani e coraggiosi, come quello di una ex collega della preside Lo Verde, che qualche settimana fa si è presentata dai carabinieri, denunciando (parola sconosciuta a chi pensa che sia meglio la protezione della mafia che della giustizia) perché – come lei stessa dirà – non può più tacere e racconta che “Daniela ruba ai ragazzi”.

I carabinieri piazzano le telecamere e capiscono subito che le parole della donna non sono pettegolezzo o maldicenza, ma la cruda, becera, disgustosa realtà, quella che tenta di distruggere gli ideali di legalità e giustizia.

Le intercettazioni sono agghiaccianti.
Le parole che Daniela proferisce alla figlia fanno davvero cadere le braccia perché la dimostrazione di quanto per davvero lei fosse così bassa ed infima da rubare ai suoi ragazzi:

Questa cosa di origano mettila pure, per casa. Quei gelati puoi prenderli e metterli nei sacchetti. La giardiniera e le patatine per la casa al mare

E poi ancora dice alla figlia:

lo vuoi il computer? ora ce lo grattiamo. 

E poi a tradirla sono anche le telecamere che la riprendono mentre carica tutto il “malloppo” nel bagagliaio della sua auto.

La preside Lo Verde aveva messo le mani su tutto ciò che era destinato ai ragazzi e ai corsi europei che non sono però mai stati realizzati, e dopo aver falsificato anche le firme dei suoi alunni che a quei progetti non hanno mai partecipato.

Questa storia – una come tante, direte – ci fa male, ci fa sentire traditi ed anche un po’ stupidi, soprattutto noi giornalisti che abbiamo raccontato una “faccia pulita” che non esisteva e che in realtà, era completamente accordata ai gesti beceri e disonesti, che sono il distintivo della filosofia mafiosa.

E fa male anche quella chiacchiericcio che si insinua nel racconto di questa storia, la voce di quella parte di Sicilia – dalla quale noi da sempre prendiamo le distanze – che ridicolizza i paladini della giustizia, facendo passare il concetto che tanto la giustizia non vincerà mai, che tanto la legalità in quella terra non esiste e chi vi crede è solo un illuso, perché le cose non cambieranno mai.

Ma ognuno di noi fa le cose che sa fare nel proprio piccolo e noi lo facciamo dalle pagine del nostro giornale, perché può cadere un simbolo (o presunto tale) della giustizia, ma potrà mai cadere un ideale, per il quale in molti ci battiamo, nel silenzio di giorni comuni, raccogliendo sforzi e storie, credendoci ancora, fino in fondo. E non sarà il fallimento di un singolo a toglierci la forza di continuare a raccontare e ad insegnare ai giovani a capire bene da che parte stare.