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Un ricordo della divina Callas a quarant’anni dalla morte: in Master Class, Terrence McNally ripercorre la vita, l’arte, l’ascesa e il graduale distacco dal mondo del grande soprano greco. Lo spettacolo sarà in scena al Teatro della Cometa dal 20 novembre al 2 dicembre e vede protagonista, nei panni della Divina, Mascia Musy, in scena con e con Sarah Biacchi soprano, Chiara Maione soprano, Andrea Pecci tenore, Diego Moccia pianista. La regia è di Stefania Bonfadelli.

In questa pièce che vede come interprete d’eccezione Mascia Musy – attrice capace di dar voce alla complessa personalità di un’artista dalle mille sfaccettature, al suo carisma e ai toni amari del declino di una carriera inimitabile – Terrence McNally focalizza l’attenzione sulle lezioni che la Callas tenne alla Juilliard School Music di New York, dopo essersi ritirata dalla scena. La grande artista rievoca la propria leggenda pubblica e privata senza risparmio di frecciate, mentre si diletta a usare come cavie e vittime sacrificali gli allievi che seguono le sue lezioni.

Ma tra la stizza orgogliosa e la capacità di commuoversi, c’è posto anche per la trepida complicità con una grande professionista che spasima per la verità dei dettagli e la concretezza della recitazione, intimamente soggiogata dalla musica. Il suo pensiero torna con l’insistenza di un incubo alla durezza degli inizi greci, al periodo della fame e della bruttezza, alle battaglie per sopravvivere, alla fatica tremenda di una carriera circondata dall’ostilità.

La commedia è incentrata sui momenti dell’ascesa al tempio scaligero; la “divina” torna quindi a recitare i suoi personaggi e ci conduce, con un ulteriore passaggio, nell’impasse tormentosa dei rapporti amorosi con gli uomini della sua vita: un paternalista Meneghini e un volgare e spietato Onassis, scendendo molto nell’intimo con l’inevitabile approdo al melodramma.

Siamo abituati ad un mondo confezionato, pieno di orpelli, di fronzoli, di ritocchi, come se per piacere, un oggetto, un’opera o un sentimento debba per forza rispettare dei canoni, quelli di una improbabile perfezione. E poi ci scopriamo maldestramente a nostro agio nel caos, dove se c’è un errore nessuno se ne accorge, dove male che vada, fra qualche tempo tutti si saranno dimenticati di una défaillance.

Così accade che in un tempo in cui si gioca ad aggiungere, a sovraccaricare, a cercare di non lasciare nessuno spazio vuoto, e contestualmente a non lasciare nulla al caso, mi imbatto in “Asylum”, un disco che ha tutte le caratteristiche che cercavo da un po’.

Antonio Raia è un giovane musicista napoletano, suona molto bene il sassofono tenore, anzi fa suonare il suo sassofono tenore, mentre trova la sua strada, quella libera, sgombra da inutili orpelli, mentre impara ad ascoltare quel mondo che lo attraversa, che parla, traendone ispirazione e lasciando che qualcosa (solo qualcosa), resti impigliato in ciò che si traduce in attitudine.  Il suo essere “generoso” nel modo di comporre, si contrappone alla nudità delle esecuzioni.

E’ una scommessa, forse.
Sicuramente è uno scambio, che diventa mezzo per raggiungere uno scopo.
Quale?
Regalare una dose massiccia di sensazioni, calcando delicatamente ciò che è dentro l’animo umano.

Ma per avere in cambio cosa?
Non lo so cosa voi avrete da dare, dopo l’ascolto, ma so di certo cosa gli devo io: una consapevolezza. Quella di essermi sentita al sicuro, al riparo. 

E’ così che parte il mio viaggio in “Asylum” che può essere asilo, ricovero, rifugio.

Il disco ha un vestito sobrio, come quando devi dare valore a ciò che incede, e che sa come lasciare un segno. Ha le tonalità del grigio, un po’ come quella foschia che poi sale e ti rende tutto chiaro.

Un disco registrato nella sala refettorio dell’ex asilo Filangieri di Napoli. Molto di questo disco gira intorno alla passione pulsante di questa città, che ha un suo linguaggio, una sua forza, una sua poetica. Anche il suono che esce dal sassofono di Raia ne ha una, ed è quella che riflette passione e talento, note scritte ed improvvisazione, pezzi di tradizione e standard jazz.

Un disco registrato in presa diretta, in compagnia dell’acustica del luogo, vuoto e pronto a rimandare nei microfoni piazzati per la registrazione, il suono di un sassofono che racconta un jazz contemporaneo, in cui le regole sono appuntate in respiri lunghi, in modulazioni calde, in ricercatezza di spazi sonori che scrivono un percorso tra pezzi conosciuti, ma concepiti secondo una modalità che ha ricercato (e trovato) una timbro unico. E poi la melodia, quella scritta di pugno da Antonio Raia, che si insinua a loop dentro un desiderio.

Ognuno ha il suo.

Anche Antonio probabilmente ne aveva uno, mentre concepiva questo progetto; forse trovare una strada per dar forma a delle sensazioni che erano rimaste al chiuso troppo a lungo e si sa, le cose belle vanno tirate fuori e fatte decantare, per poi goderne. E per un musicista, la strada giusta è sempre quella delle sonorità, che diventa una porta. Io quella porta l’ho aperta e sono finita lì, all’interno di questo disco, come se fossi in quel luogo, seduta a terra in pochi centimetri quadrati, avvolta da pezzi originali nell’esecuzione, creativi, senza però mai abdicare dalla tecnica. Perché solo chi conosce bene quella, può permettersi di sperimentare, di soffiare in un sassofono dandagli così tante voci, alcune strozzate altre così liriche che quasi ci si commuove.

La creatività di Antonio Raia, che è un’ampia espressione artistica, non si esaurisce alla fine delle esecuzioni, resta sospesa per un po’, per poi cadere lenta sull’ascoltatore che ne prende in consegna le intenzioni e le custodisce.

Sono 12 le tracce. Due classici napoletani “Torna a Surriento” e “Dicetencello Vuje”, uno standard jazz, “Misty” che vanta innumerevoli interpretazioni e che a mio avviso non è stato scelto a caso; e poi pezzi originali. 

C’è un senso nella scelta dei brani e nell’ordine in cui sono eseguiti. C’è un amore per le origini, vi è il racconto di una storia, quella di chi parte, di chi cerca rifugio, di bambini in un giardino, di ninne nanna.

Refugees”, che si inerpica su un suono che vibra, balbetta su sonorità mediorientali, che “attraversa”, cerca spazio, e si adagia in “The children in the yard”, dove come su un’altalena il sax sale e scende, in maniera ostinata, per poi trovare riposo in “Lullaby” e lì, si sente prorompente il suono che canta e incanta, che culla e addolcisce, che abbassa toni e luce, che avvolge.

Chi sarà la Giulia, a cui sono dedicati i 2 minuti più intensi ed appassionati di questa opera? Forse non lo sapremo mai, ma ha tirato fuori dal compositore il miglior intento possibile. In “To Giulia” le note sono soffiate e calde, sono lunghe, fatte con un solo respiro, e dopo aver disegnato un profilo, si spengono in note maggiori.

C’è da dire che se anche questo lavoro discografico non ha conosciuto post-produzione, ed è scevro da qualsivoglia ritocco – oltre che privo di qualunque tipo di aiuto che di solito si attinge dalla tecnologia delle sale di registrazione – un plauso va al Renato Fiorito, tecnico del suono che ha saputo come piazzare strategicamente i 10 microfoni che sono serviti per catturare il suono del sassofono di Raia.

Prima di avviarmi al finale, da appassionata di jazz quale sono, mi viene da dire che la scelta di “Misty” è sicuramente passata attraverso quella nebbia, che un po’ ti confonde, ti rende poco visibili i passi, ma se sai dove andare, sai anche “cosa ascoltare” intorno a te. Nella versione contenuta in Asylum, il tema è libero, inteso come “liberato” da schemi ed è affidato a svisate che si fanno strada nella foschia.

Asylum”, un lavoro di pazienza, di anima al singolare, e poi di anime al plurale, con tutto quello che una moltitudine di anime può produrre in fatto di respiri, di affanni e di gocce di vita lasciate andare senza sapere dove si poggeranno, né come sublimeranno. 

Quello spazio così grande, con quel senso di libera armonia, eppure così piccolo se si pensa a cosa ha saputo accogliere nel tempo, prima di far spazio al silenzio. 

Un silenzio rotto da quel sassofono che sa essere travolgente o accomodante, irascibile e amabile. 

Nella mia vita ho imparato che le cose buone, sono fatte con qualcosa e con qualcuno, per qualcosa o per qualcuno” – dice Raia nelle note.

Quel “qualcosa” non è solo un esperimento originale realizzato in musica, ma è un atto poietico che non si esaurisce quando i suoni si spengono e resta il silenzio. Quel “qualcosa” è fatto con la complicità di tutto il bello che lo attraversa, e per coloro che vorranno entrare da quella porta che Antonio Raia lascia accostata e che si varca perché quando lui soffia in quel sassofono, c’è da restare incantati.

“Asylum” esce il prossimo 16 novembre; fossi in voi andrei ad aprire quella porta lasciata accostata, dalla quale escono sensazioni; 

E tu, che sensazione sei? 

 

Simona Stammelluti

Ormai non ci facciamo più caso; viviamo il mondo virtuale come se fosse un luogo qualunque, quando invece ha delle sue precise regole, che non rispettiamo perché non le conosciamo, e perché ci dimentichiamo (o forse non ci abbiamo mai pensato) che quella dimensione che tanto ci attrae e alla quale non riusciamo più a fare a meno, prevede una prossemica, ossia la gestione delle distanze entro le quali consumiamo i rapporti (virtuali).

Per lui, Emanuele Fadda, classe 1972, docente di semiotica e linguistica all’Università della Calabria, scrivere questo libro “è stato più una necessità che un dovere” – come lui stesso sostiene.

Fatto sta che questo libro, molto ben scritto, dovremmo leggerlo tutti, con attenzione. Ci aiuterebbe a gestire quella precisa dimensione  – che è il mondo virtuale – e i rapporti che da essa derivano;  quei rapporti che spesso riescono a trasformarci, a condizionarci, a farci dire e fare cose senza quasi che ce ne si accorga, mentre restiamo vittime (consapevoli) di vicinanze spesso asfissianti, pur stando geograficamente lontani.

Questo libro, non è un manuale … sia chiaro. Non ci sono consigli spiccioli su come fare o non fare, su cosa fare o non fare, su come risolvere alcuni quesiti che forse qualcuno dei lettori si sarà posto mentre naviga in un mare di situazioni che sembrano sempre fare al caso nostro, salvo che nei casi in cui si avverte di essere finiti in una trappola; perché intrappolati sì, lo siamo, in quello spazio ridotto, esposti costantemente allo sguardo e alle azioni altrui.

Troppo lontani, troppo vicini – elementi di prossemica virtuale (è questo il titolo del libro) è un’analisi approfondita di come si trasforma la realtà,  quando lo spazio tra noi e gli altri diminuisce e la distanza si annulla. Così accade, per esempio, quando decidiamo di far entrare qualcuno nella nostra sfera privata, intima, senza però avere tutte le armi sensoriali (che abbiamo a disposizione nella vita reale), per poterla gestire quella distanza, dentro situazioni che sembrano semplici, quasi scontate, ma che al contrario, proprio quando sono virtuali, possono avere delle conseguenze che quasi mai teniamo in considerazione.

Il libro mette a disposizione del lettore tutta l’esperienza dello studioso, del semiologo, insieme alla sua diretta esperienza di utente, che quella dimensione sociale e virtuale la abita, la studia e la interpreta, e che allo stesso tempo l’asseconda ma con delle dinamiche precise.

La bravura di chi scrive, sta nell’accompagnare il lettore nelle tre parti del libro: nella prima, “Spazi”, in cui spiega come i luoghi virtuali, al pari di quelli fisici, necessitano di alcune regole che possano aiutare il fruitore a gestire le diverse distanze, che sono pubbliche, sociali, ma anche personali ed intime; oltre che a gestire gli spazi comuni condivisi che inevitabilmente innescano una qualche minaccia.

Leggere questo libro aiuta a far luce su quei quesiti che di tanto in tanto ci poniamo, ma senza volerle per davvero le eventuali risposte.
E allora se le risposte non le vogliamo (perché è più facile così) perché dovremmo leggerlo questo libro? – direte.
Perché al suo interno non ci sono risposte, ma semplicemente un invito ad una riflessione su come si possa starealla meno peggio – dice Fadda – in un mondo dal quale non si deve e non si può sfuggire”.

L’autore attinge a citazioni, ad altri testi per spiegare alcune dinamiche, e poi spalanca le porte di mondi forse già attraversati, ma tracciando altri percorsi, interessanti e a tratti indispensabili – a mio avviso – per coloro che ancora non hanno compreso quanto stare tutti in uno stesso posto, a fare tutti la stessa cosa, può renderci vulnerabili, manipolabili e senza dubbio, meno indipendenti.

Emanuele Fadda

Nel libro si parla dei rischi che si corrono, ma non per come farebbe uno psicologo, un sociologo, un media trainer, ai quali l’autore non si vuole sostituire, non fosse altro perché i rischi di cui si parla sono principalmente quelli di quando si sbaglia la prossemica.  

Più siamo, meno distanza c’è tra uno e l’altro.
Una distanza virtuale è asfissiante quanto quella fisica?
Sì, spiega Fadda, anche se non si è fisicamente nello stesso posto, si disegna con la propria presenza una mappa di ciò che l’affollamento costituisce.

Alcune definizioni, in questo libro sono illuminanti, invitano ad entrare in una nuova dimensione, diversa però da quel mondo in cui viviamo ogni giorno, quell’ambiente digitale di cui non conosciamo alcuni anfratti, e non li conosciamo perché ci siamo stati sempre di dentro, da quando si è formato, come se fosse un acquario;  nuotiamo, ci spostiamo ma alla fine siamo sempre lì, dove l’identità personale si sbiadisce e il limite tra vita reale e virtuale si fa sempre più sottile.

Leggere questo libro è come uscire da lì dentro, insieme ad una guida che ti spiega cosa si nasconde spesso alla nostra consapevolezza, stanandone alcuni dettagli indispensabili.

Sorvegliamo o siamo solo sorvegliati?
Che cosa ci accade da quando siamo sempre in scena? E cosa accade nei retroscena?
Che vuol dire “metterci la faccia”, nel mondo virtuale?

Sembra facile rispondere a queste domande.

Provateci, e  poi leggete il libro; scoprirete che vi conoscete molto meno bene di quanto immaginiate e conoscete alcune dinamiche virtuali, molto meno bene di quanto non ne foste convinti fino a prima di leggerlo, questo libro.

C’è una seconda parte – che ho molto apprezzato –  in questa opera, che racconta quanto simili siamo ad alcuni primati e dunque al mondo animale, mentre dimentichiamo alcune norme base dello stare in gruppo, quando non calibriamo nel modo opportuno le distanze nella comunicazione interpersonale, quando siamo maldestri, come se non conoscessimo neanche l’esistenza, di un galateo.

Branchi” si intitola questa seconda parte.

Quanto vale ricevere likes?
Cosa comporta in fatto di potere sociale?
Chi sa cos’è il clickbaiting?

Così su due piedi magari non ne sapreste dare una definizione. Neanche io ne sono stata capace prima di erudirmi attraverso le pagine di questo libro. Eppure ci condiziona in una maniera che non immaginereste mai. Ci sono meccanismi che si attivano prima ancora che ce ne rendiamo conto. Ma se li si conosce, forse li si possono ridimensionare … forse, perché forse siamo ancora in tempo.

Quante situazioni risolviamo con il contatto fisico?
Anche i bonobo fanno così.

E come i bonobo nasciamo altruisti ma poi mutiamo, sospendiamo la fiducia generalizzata, impariamo ad essere indifferenti, un po’ anche per difenderci. Eppure restiamo istintivi. E più lo spazio e ridotto e più diventiamo aggressivi, abbiamo reazioni subitanee.

Ma da un semiologo, da un esperto di linguistica, ci si aspetta un finale che abbia un sapore prettamente empirico, una conclusione che si possa mettere in pratica, e che passi attraverso un segno.

“Segni”, la terza e ultima parte di questo volume, che mette al centro l’essere umano che governa le proprie azione perché parla, e perché in seno alla società, il umano nasce.

“Il linguaggio è il nostro campo di battaglia” – dice Fadda. E’ la lingua che costituisce l’immagine e il modello di ogni potere mediatico.

E’ vero, non è un manuale questo, ma insegna un bel po’ di cose. Per esempio a recuperare ragionevolezza e senso del limite, insegna come essere meno elefanti e a muoverci con più leggerezza in una dimensione piena di cose che cadono e che potrebbero finire in frantumi, e non sono oggetti.

E’ un libro che racchiude in se una forza … la stessa che appartiene a chi dell’uso corretto della parola e del linguaggio ne ha fatto uno significativo e raffinato stile di vita.

 

Simona Stammelluti 

La Compagnia InControVerso, nata da una fusione tra cultura teatrale italiana ed armena, porta sul palco del Teatro Cometa Off dal 13 al 18 novembre 2018, lo spettacolo A PORTE CHIUSE – quando il teatro respira a ritmo di tango… dal testo di Jean Paul Sartre, un dramma – coreografia, nuovo genere di prosa e danza, che farà rivivere sul palco l’inferno, attraverso il tango.

Protagonisti Sargis Galstyan, che è anche autore delle coreografie, Marine Galstyan, che firma anche la regia, Eleonora Scopelliti, Lorenzo Girolami, Vittoria Rossi, Federica Biondo, Lorenzo Zaffagnini.

Una rappresentazione del tutto originale che si fonde con il tango, sulle musiche di Astor Piazzolla, René Aubry, Gothan Project e Mariano Mores e restituisce all’opera dinamiche e ritmi accattivanti. Un canale espressivo più diretto per trasmettere l’angoscia e la disperazione dei personaggi, specie quando il dolore li rende muti. In assenza di parole il corpo si ribella e libera il suo linguaggio. Nasce una nuova ricerca teatrale che unisce diverse arti e le sintetizza in un unico stile espressivo.

La regia ha integrato il testo con numerose scene di danza, in cui il tango, nell’interpretazione più personale che tecnica della regista assume un ruolo dominante sia nella scelta della musica, sia nella qualità dei movimenti. La danza restituisce all’opera una dinamica, un ritmo ed un fascino accattivanti. Da questo esperimento nasce una nuova ricerca teatrale che unisce discipline diverse e le sintetizza in un nuovo stile espressivo: non si tratta né di sola prosa, né di un musical, né di uno spettacolo di danza. E’ un dramma- coreografia che contiene in sé elementi di ognuna di queste forme artistiche. 

L’inferno sono gli altri

Due donne e un uomo, Ines, Estelle e Garcin vengono spediti all’inferno: una stanza con una sola porta, chiusa, e all’interno tre sedie. Qui i personaggi s’incontrano e scontrano per la prima volta. Hanno storie diverse ma in comune la ragione per cui sono lì a condividere quel vuoto. Immaginavano l’inferno come un luogo di torture fisiche e in assenza di queste si credono per un attimo salvi. Ma la sofferenza non si fa attendere e presto si accorgono di quanto sia feroce l’espiazione. Inizia una lenta e crudele presa di coscienza della propria colpa e il dramma personale di ciascuno viene allo scoperto. Ecco il vero inferno! E’ tutto nella loro mente, è un dolore eterno che si consuma nella loro psiche.

NOTE DI REGIA

“La realtà busserà alla tua porta – come dice Sartre – tutti siamo liberi di poter scegliere, e compiendo le nostre scelte, scegliamo noi stessi, solo le azioni decidono chi siamo’.

A porte chiuse è quella realtà che si trova al di là della tua porta, prima o poi l’apriremo tutti e scopriremo la nostra vera e più profonda anima, quell’anima che per tutta la vita cerchiamo di celare. L’arte ha una missione: emozionare, colpire la sensibilità del pubblico, stupirlo e in un tempo relativamente breve, lasciare un segno indelebile nell’animo di ognuno”.

Il tema dell’opera è profondo, interessante, intrigante, ma soprattutto attuale e racchiude l’anima di tutti i tempi, passato, presente e futuro. Siamo all’inferno, osservatorio privilegiato della paura umana, dove si espiano le proprie colpe. L’uomo teme la tortura fisica e reagisce in base al suo istinto primordiale.

La paura di dover scontare le nostre colpe per mezzo di una sofferenza senza fine appartiene ad ognuno di noi e ci tormenta già durante il corso della vita. Perché il tango? Le dinamiche che s’instaurano tra i personaggi richiamano l’espressività intrigante e passionale del tango.

Marine Galstyan

E’ partita il 25 ottobre scorso una tournée nazionale che vede i SeiOttavi in scena nella nuova edizione dello spettacolo Le Rane di Areistofane, interpretato da Salvatore Ficarra e Valentino Picone, e che approderà a Napoli, Roma, Genova, Brescia, Empoli, Pescara e Ancora.

Da domani 7 fino al 18 novembre saranno al teatro San Ferdinando a  Napoli;
Dal 20 al 25 novembre al Teatro della Corte a Genova;
Dal 27 novembre al 9 dicembre al Teatro Eliseo a Roma;
L’11 dicembre al Teatro Excelsior a Empoli (FI);
Dal 12 al 16 dicembre al Teatro Sociale di Brescia;
Il 18 e 19 dicembre al Teatro Massimo  di Pescara;
Dal 20 al 23 dicembre al Teatro delle Muse a Ancona.

Il regista Giorgio Barberio Corsetti lo ha riallestito per i teatri all’italiana dopo lo straordinario successo al Teatro Greco di Siracusa.

Il riallestimento dello spettacolo, prodotto dall’INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico, è curato dal Teatro Biondo di Palermo insieme al Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale e Fattore K.

I SeiOttavi sono un gruppo di sei voci che hanno fatto del contemporary a cappella il loro modo di esprimersi. L’esecuzione è caratterizzata, oltre che dalla polifonia, dalla riproduzione, con le soli voci, di effetti strumentali, sonori, onomatopeici e di mouth-drumming e beat-box.

Sono loro che firmano ed eseguono dal vivo le musiche che accompagneranno il viaggio dei due comici nell’oltretomba, vestendo i panni delle Rane e degli Iniziati.

Riuscire a far ridere con un testo di 2500 anni fa, il senso della scommessa è tutto qui: prendere il testo di Aristofane, un vecchio pezzo d’argenteria teatrale, e lucidarlo fino a farlo splendere nuovamente, come se fosse appena forgiato. Le Rane, sfrondato dagli anacronismi, dimostra che per il genere comico può esistere una manifattura a lunga conservazione, che consenta di ridere anche oggi, e consapevolmente, di un testo classico.

Aristofane ne “Le Rane” affronta la Commedia con toni sarcastici, sardonici e quasi sempre amari. Il tema è quello della Città, Atene, che vince la guerra contro Sparta, ma che, nei fatti, vive un periodo di profonda sconfitta, per decadenza, per abbandono dei principi sociali e morali. La disputa tra Eschilo ed Euripide, è il pretesto per la denuncia dell’allontanamento della società dai valori della poesia e dell’arte che regolano lo sviluppo dei popoli.

Nasce su questa premessa la musica de “Le Rane”: sonorità da commedia, certo, senza però trascurare una profonda “serietà” confacente ai temi trattati.

Quando intervengono le Rane a infastidire Dioniso nel suo viaggio verso l’Ade, la musica è sfottente e irritante; “saltella” da una modernità sciocca ad ammiccanti citazioni anacronistiche. Il suono rispecchia il gracidare a volte volgare e irriverente, a volte simpatico e scanzonato, a volte intimidatorio.

Il coro degli Iniziati invece ha tutto un altro sapore. Gli Iniziati sono il popolo critico e scontento. Arriva da lontano e si fa sempre più presente come un gigante che fa tremare la terra con il suo passo inesorabile. Ballano ma non sono felici, si ubriacano ma sono moralisti, intervengono quasi sempre contro il più debole e cambiano continuamente idea. A volte sono comici, ma la comicità ha dietro sempre qualcosa di serio, di grave.

I SeiOttavi nello sviluppare le atmosfere delle musiche di scena e dei cori, spaziano da sonorità più classiche, quasi da corale, a quelle più moderne. La varietà dei suoni non tradisce l’atmosfera generale della scrittura, che risulta essere sempre molto evocativa di un tempo lontano in cui però si tratta di temi di grandissima attualità.

 

 

 

Parlano di me“, uno spettacolo teatrale diretto dall’attore Marco Zingaro, alla sua prima regia. Attore, performer e regista pugliese trapiantato a Londra. Diplomato presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, ha intrapreso una carriera Internazionale. In Italia a teatro lo rivedremo da gennaio 2019 al fianco di Maria Grazia Cucinotta, Vittoria Belvedere e Michela Andreozzi, come protagonista maschile in FIGLIE DI EVA diretto da Massimiliano Vado.

Recentemente ha iniziato la sua prima esperienza come regista in “Parlavano di Me”. Lo spettacolo già tradotto in lingua inglese è una co-produzione tra NOZ Performing Company (di cui Marco ne è co-fondatore) e il Teatro Nazionale della Toscana.

“Parlano di me” è  interpretato da Francesca Nerozzi, artista poliedrica pistoiese. La sua formazione iniziata dal balletto classico in giro per l’Europa, spazia dal cinema al teatro al canto. Fa parte del trio vocale swing “Ladyvette” protagoniste della fortunata serie Rai 1 “il Paradiso delle Signore”. Vanta anche collaborazioni con il trio “le Sorelle Marinetti” e ruoli da protagonista femminile in numerose produzioni teatrali e cinematografiche Nazionali e Internazionali. Attualmente  Ladyvette stanno lavorando alla realizzazione del loro primo disco e del secondo spettacolo teatrale dal titolo “In Tre” che debutterà a marzo 2019 al Teatro della Cometa.

In oltre Nel 2017 fonda assieme al suo compagno attore e Regista Marco Zingaro la NOZ Performing company, compagnia teatrale di teatro fisico, dalla quale fusione di esperienze  artistiche e dalla penna di Giuseppe Grattacaso prende vita lo spettacolo  “Parlavano di me”, che ha debuttato in occasione di Pistoia capitale della cultura 2017 riscuotendo un grande successo di pubblico e critica.

Lo spettacolo che sarà all’Altrove Teatro Studio di Roma dal 9 all’11 novembre, è un racconto nato dalla penna di Giuseppe Grattacaso e tratto dall’omonimo libro edito da Effigi.
Grattacaso è Docente di lettere al liceo linguistico e scrittore. Salernitano di nascita ma pistoiese d’adozione, ha pubblicato i libri di poesia Devozioni – 1982, Se fosse pronto un cielo – 1991, Confidenze da un luogo familiare – 2010,  La vita dei bicchieri e delle stelle – 2013, (premio Pontedilegno Poesia). É autore del blog di poesia “Mosche in bottiglia” e collabora alla rivista online Succedeoggi.

“Parlavano di Me” è una confessione appassionata di una giovane donna a sua madre. Nel suo microcosmo dove regnano leggerezza e spensieratezza ma soprattutto banalità e frivolezza, la giovane donna incontrerà personaggi bizzarri dagli atteggiamenti superficiali, cinici e dettati dall’invidia. A causa di questa umanità esaltata e inconsistente lei cercherà conforto e riparo in sua madre, una presenza che appare costante e determinata al fianco della figlia. Inconsapevolmente solo attraverso una banale cronaca degli eventi in contrasto con il suo crescente turbamento, giungerà con timore e tenerezza a svelare la propria reale condizione.

Da uno così ti aspetti qualsiasi cosa; musicalmente parlando.

Perché Avishai Cohen è un artista che sa in che direzione andare, perché ha il talento, puro, ad indicargli la via.

Lui, contrabbassista e compositore, leader di uno del trii più suggestivi del panorama jazzistico mondiale, che da un sontuoso interplay da vita ad una implacabile triangolazione sonora, capace di intessere inquieto fervore e austero lirismo, si è presentato al Festival Internazionale del Jazz di Barcellona – giunto alla 50esima edizione – con un quintetto e un progetto musicale che merita di essere raccontato.

E’ il 1° novembre, e il Barts, locale dove storicamente si suona il jazz, è completamente pieno. Sia la parte antistante il palco, sia i posti a sedere sono esauriti. C’è gente arrivata da tutto il mondo; al mio fianco un gruppo di statunitensi, dietro di me sono tedeschi. Un signore inglese di mezza età si domanda ad alta voce perché quella disposizione del palco. Come non notarla: la batteria sulla pedana, due tastiere, nessun piano, nessun contrabbasso. E’ indubbio ormai che non si tratta di una performance in trio e allora sale la curiosità di scoprire cosa si consumerà su quel palco.

Dopo una breve presentazione, è il momento di sapere, di scoprire, di vivere quel concerto che è in quintetto, con Avishai Cohen che suona il basso elettrico e il suo gruppo che di lì a poco, insieme a lui racconterà un progetto che trasforma il contrabbassista che ci sembra di conoscere così bene, in un cantante, in un tastierista, in uno show man, lontano da quella figura austera a cui dobbiamo il piacere di un jazz che abbiamo imparato a codificare tra sensualità e inventiva.

La voce di Avishai Cohen che canta è talmente bella che a tratti imbarazza, e ti viene da domandarti quando avrà incominciato a farlo ed anche perché.

Saluta il pubblico in spagnolo, la risposta che ne riceve lo fa sorridere. Sul palco si sente a casa, perfettamente a suo agio; è disinvolto, eclettico, ammiccante. la sua conoscenza musicale appare infinita. Il suo progetto è virtuoso, è appagante, si divide tra pezzi in inglese e altri in lingua ebraica. Ci sono pezzi originali e qualche cover, che a mio avviso sono significativamente più belle delle originali.

Con lui sul palco, così come lui li presenta, Karen Malka corista, che lui bacia sulla bocca, Shai Bachar alle tastiere, suo grande amico, Marc Kakon, virtuoso chitarrista e  Jamale Hopkins uno dei più bravi batteristi in circolazione. “Per essere la miglior band, bisogna avere il miglior batterista” – dice Avishai ed è difficile dargli torto, quando ad accompagnarlo c’è davvero uno dei migliori. I suoi musicisti non sono jazzisti puri, ma sono capaci di grande groove. L’atmosfera e le vibrazioni sono tipicamente anni 70, e non a caso il suo nuovo progetto discografico si intitola proprio 1970 ed è da quello che vengono i pezzi eseguiti, durante il concerto a Barcellona.

Le esecuzioni mostrano arrangiamenti che profumano di sound anni 70, ma si avvertono forti tutte le influenze, dalla musica afroamericana, al soul; le sue radici israeliane definiscono alcune armonie e raccontano gli arrangiamenti che sono cuciti attraverso una relazione quasi spirituale.

Song for hope” apre il concerto. Pezzo originale, convincente nel testo e nel contesto. Canzone di speranza, musicalmente perfetta nel tempo, si avverte l’uso del charleston della batteria, ma è la voce di Cohen che ruba la scena.

Gli assoli di batteria, durante la performance sono spesso al servizio dei pezzi in cui Avishai canta in arabo. Così come in uno dei pezzi più belli a mio avviso, che è “It’s been so long” … quel tempo che passa e qualcosa che resta. La voce di Karen così leggera e vellutata che si fonde con quella del bassista che è profonda e piena. Un 3/4 che conquista nella parte strumentale quando la chitarra usa gli effetti per disegnare le scale. Durante il concerto si strizza l’occhio al jazz, Avishai Cohen è un jazzista straordinario, e questa novità è solo un vezzo artistico che nulla toglie alla magia di quando suona in trio.

Fanno finta di andare via quando è ancora troppo presto. Poi restano, convinti. Il contrabbassista fa un omaggio ad un suo grande amico, Gerry Gonzales, trombettista e batterista portoricano, scomparso lo scorso 1 ottobre, che lui stesso definisce come un genio del jazz e del flamenco.

Regala “Vamos pa’l monte”, con un assolo di basso, che restituisce proprio la capacità musicale del musicista israeliano.

Il momento più alto della serata, quello che quasi commuovo per quanto è bello, è l’esecuzione di “Remembering” che siamo abituati a sentire eseguito dal trio, e che a Barcellona ha avuto un vestito nuovo ma stessa anima, senza stravolgimenti. Stesso tempo, stesso pathos e quel basso elettrico è andata a fondo, ha messo in evidenza il tema con evoluzioni che poi hanno lasciato il posto all’improvvisazione che è arrivata prorompente fin nello stomaco. Il giro armonico delle tastiere ha fatto da tappeto e la batteria in sordina ha messo gli accenti a ogni giro di cui Avishai Cohen si è servito per suonare quello struggimento nelle note gravi. Intriga, mentre suona e imbracciando il basso elettrico, assume una postura che lo rende irresistibile.

E’ un vero show.

Il chitarrista si trasforma in rap e canta in francese, il piano è hammond, il basso è in evoluzione e le due voci, quelle di Marc Kakon  e di Karen diventano una dimensione allucinogena.

La voce di Avishai è precisa, dinamica e coinvolgente quando canta in arabo, con perizia tecnica, mantenendo gusto ed equilibrio armonico.

C’è l’elettronica, ci sono gli effetti speciali, c’è il groove, c’è il dinamismo del funky, c’è il jazz che trasuda dalle corde del basso di un grande artista. C’è una complicità in questo progetto e c’è la consapevolezza di potersi permettere qualunque incursione nel mondo musicale fuori dalle porte del jazz in cui lui, resta impeccabile.

Prima di lasciare il suo pubblico, Avishai canta a cappella una canzone spagnola … nudo al cospetto del silenzio che regna in teatro.

Eccolo Avishai Cohen, l’uomo e l’artista che si mostra, nelle intenzioni di una serata in musica, con in dosso un paio di jeans ed una maglietta e quel talento che non muta, se muta il modo di regalare emozioni.

Lui, che nel 1970 è nato, ha raccolto la sua esperienza e l’ha soffiata sul pubblico, con cui ha saputo instaurare un dialogo raffinato e contemporaneo.

E se il contrabbassista è solito giocare con il controtempo, ma per sottrazione, in questo concerto si è divertito a isolare suoni e dettagli, riuscendo a pieno a riassumere in due ore di concerto, la sua costante innovazione.

 

Simona Stammelluti

 

In scena al Teatro Vittoria dall’8 al 18 novembre – in prima nazionale – Mobidic di Karl Weigel, per la regia di Massimo De Rossi, anche protagonista insieme a Roberta Anna.

“Questo Mobidic (così come si pronuncia in italiano) non è una rivisitazione del capolavoro di Herman Melville, né una riduzione per il teatro, tanto meno una parodia. Forse, si potrebbe parlare di un “contagio letterario”. Il Moby Dick originario affiora a tratti in questo testo per poi immergersi velocemente con un colpo di coda e sparire.” E’ lo stesso Weigel a dare alcuni indizi sulla sua opera.

Mobidic è un testo di straordinaria poesia e bellezza di un giovane autore italo-tedesco in grado di costruire dialoghi memorabili per una commedia lieve e avvincente carica di suspense e con un finale del tutto inatteso. Un’autentica rivelazione. Il testo scorre piacevole e leggero sulle due vie del dramma e della commedia. Mi ha subito conquistato la struttura cinematografica del testo e la verità dei bellissimi dialoghi. Per quanto riguarda il ritmo narrativo e l’ambientazione, Mobidic s’ispira vagamente al genere Film Noir, mentre la storia trae origine da un fatto di cronaca realmente accaduto” – dice il regista.

Mobidic non è dunque una riduzione per il teatro del capolavoro di Melville. La storia trae origine da un fatto di cronaca realmente accaduto. Un affermato e maturo manager a causa di un’improvvisa amnesia dissociativa regredisce all’età di 16 anni. Non ricorda più il suo nome, non ricorda più nulla della sua vita o quasi. È notte, si rifugia in un Cafe Theater. Tutta la commedia è incentrata sul rapporto di complicità e amicizia che s’istaura tra la giovane cassiera del teatro e il misterioso “smemorato” detto il Professore. Mobidic è un testo di straordinaria poesia e bellezza, scritto da un giovane autore di cinema e di teatro italo-tedesco in grado di costruire dialoghi memorabili per una commedia lieve, avvincente e carica di suspense. Il testo scorre piacevole e leggero sulle due vie del dramma e della commedia e conquista per la struttura cinematografica del “racconto”. Il Cafe Theater con la sua musica, le sue luci, la sua atmosfera incantata, è vissuto dai due personaggi in modo opposto: come luogo assolutamente quotidiano da parte della ragazza e in modo del tutto ingenuo e naif da parte del Professore. La menomazione di cui egli è vittima (si comporta come un adolescente) diviene stimolo all’immaginazione, lo induce a formulare nuovi progetti. Anche se avranno la durata di un sogno, poco importa. È una commedia costruita sul filo ininterrotto della suspense, ma anche della costante ironia, della comicità assurda. La situazione notturna immerge poi il racconto in un’aura surreale, quasi incantata. Finché, alle prime luci dell’alba…

Lo spettacolo è una produzione di Fondamenta Teatro e Teatri di Francesco del Monaco e Cristiano Piscitelli, con la Direzione artistica di Giancarlo Sammartano e la Direzione organizzativa di Fulvio Ardone. Fondamenta Teatro e Teatri  è il progetto di Fondamenta La Scuola dell’Attore che favorisce il naturale passaggio dalla formazione alla professione.

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Teatro Vittoria
Roma, Piazza Santa Maria Liberatrice, 10 (Testaccio)

orario del botteghino: lunedì dalle ore 11 alle ore 13 e dalle 16 alle 19. Dal martedì al sabato dalle ore 11 alle ore 20. Domenica dalle ore 11 alle 13.30 e dalle ore 16 alle 18 (solo per lo spettacolo del giorno)

Info: 06 5740170 – 06 5740598
Prenotazione biglietti solo via telefono

Orario spettacoli: dal martedì al sabato ore 21.00. tranne martedì 13 ore 20.00 – mercoledì 14 ore 17.00. Domenica ore 17.30 –

Biglietti: platea 28 euro , galleria 12 euro. – Riduzioni 21 euro  e 18 euro.

 

 

 

Al via domani, 24 ottobre, con la grande parata inaugurale,  l’Oktoberfest Calabria in tour, evento ufficiale Paulaner.

Rende (Cs),  alla pari di città come Monaco, Parigi, Marsiglia, Madrid, Barcellona e Cuneo, è tra le sette tappe europee dell’Oktoberfest grazie alla certificazione Oktoberfest Ufficiale Paulaner nel Mondo.

Nell’area mercatale di Villaggio Europa è tutto pronto per ospitare la Prima Edizione dell’Oktoberfest in tour Calabria, organizzata da Wisea Eventi con il patrocinio del Comune di Rende, della Provincia di Cosenza, della Camera di Commercio di Cosenza e di Confindustria.

Dopo la spettacolare parata e l’apertura del padiglione, si darà il via a 12 giorni di divertimento per tutti, con eventi culturali, popolari e commerciali che trasporteranno letteralmente i partecipanti, nelle atmosfere bavaresi.

A stappare la prima botte e a dare inizio ai festeggiamenti, sarà il sindaco Marcello Manna. A mezzanotte ci sarà lo spettacolo pirotecnico, con grandi effetti scenici e giochi di colore.

Domenica 28 ottobre alle 10,30 la Santa Messa cittadina e subito dopo la Fanfara dei Bersaglieri, nel parco dell’evento.

Domenica 4 novembre, nella serata di chiusura una grande sorpresa colorerà di magico, il cielo di Rende.

Non mancheranno il Luna Park aperto tutti i giorni dalle ore 15 e il sabato, la domenica ed il primo novembre dalle ore 11, per far sì che anche i più piccoli possano divertirsi sulle giostre in momenti meno affollati.

Divertimento assicurato per tutti con gli autoscontri, i dischi volanti, la ruota panoramica più alta d’Italia e grandi attrazioni per i più audaci.

E la Wisea Eventi in collaborazione con il Comune di Rende e la Sidevents di Cuneo hanno pensato proprio a tutto: venerdì mattina dalle ore 11,00 giri gratuiti sulla ruota panoramica per tutte le persone con disabilità.

 

Gli italiani non partecipano alle attività culturali. Ormai questo è un dato di fatto. Non fosse altro che a fronte dei numeri forniti dal rapporto annuale di Federculture, presentato ieri 22 ottobre alla Camera di Commercio di Milano, e che fa il punto sul sistema dell’offerta e della produzione culturale in Italia.

Sono ancora molte le criticità del sistema nella gestione della cultura, così come è evidente una disparità tra Nord e Sud, nella fruizione della cultura da parte dei cittadini.

I dati non sono per nulla entusiasmanti:  7 italiani su 10 non vanno al cinema, non entrano in un museo né visitano siti archeologici.

Dati critici dunque, rispetto alla partecipazione alla cultura: perché se  il 40 % circa degli italiani è inattivo culturalmente, (con picchi di 80% nel settore teatro, e 90% in quello dei concerti classici),  sale all’82% il dato che riguarda il sud Italia dove sono 8 italiani su 10 a tenersi ben lontani dalla cultura e dall’arte.

In Sicilia poi, si spende tre volte meno in cultura di quanto non si faccia in Trentino Alto Adige, dove una famiglia spende per i servizi culturali 190 euro, mentre in Sicilia solo 60 euro.

In Italia si spende in cultura poco più del 6 % e siamo ben lontani dalle cifre della Svezia, per esempio, che supera l’11%.

Peggio dell’Italia sanno fare solo la Grecia, il Portogallo e il Lussemburgo.

Allora ci si chiede come mai la quota di spesa dedicata a cinema, teatro, concerti da una famiglia media italiana è aumentata del 3,1%

Semplice.
Al botteghino si spende di più, circa il +0.71 perché aumentano i prezzi, non gli ingressi, che invece diminuiscono di circa 4 punti percentuale.

Le attività di spettacolo in genere, scendono anch’esse di 2 punti e mezzo.

E la lettura?  

La quota di chi legge almeno un libro all’anno cresce, seppur di pochissimo, diminuiscono però i cosiddetti “lettori forti ossia quelli che ne leggono di solito più di uno al mese.

Rassicuranti i dati del turismo culturale che rappresentano il 35,4 % della spera totale per il turismo. Sono i turisti a far aumentare la spesa culturale, che sale dell’11%. Crescono del 10% i visitatori di musei statali.

A parlare in merito ai dati e alla gestione della cultura  è Andrea Cancellato, Presidente di Federculture che ammette di “non aver apprezzato  che il settore turismo sia passato dal Ministero dei Beni culturali alle Politiche agricole”.

 Per Claudio Bocci, Direttore di Federculture, “ci vorrebbe una cabina di regia a Palazzo Cigi”.

E le amministrazioni comunali?

Sì perché anche loro dovrebbero incentivarla, la cultura. Ed invece la spesa in cultura della amministrazioni comunali scende del 4 % rispetto al 2015 e anche le erogazioni delle fondazioni bancarie sono al -9% rispetto al 2016.

Per i fondi pubblici, lo stanziamento del Mibac è stato confermato sui 2 miliardi, anche nelle previsioni del 2018.

Intervistati, 7 europei su 10 dichiarano che “vivere in luoghi dove si promuove la cultura, in luoghi ricchi di attività culturali, contribuisce all’innalzamento della qualità della vita“.

Per questo Federculture rinnova l’appello al Parlamento per una rapida ratifica alla Convenzione di Faro, che promuove e sostiene  il concetto di comunità-patrimonio culturale, volto all’ampliamento della partecipazione dei cittadini, fattore che implica una gestione che abbia al centro l’impresa culturale, intesa come trait d’union tra tutela, valorizzazione, conservazione e fruizione pubblica dei beni culturali.

Tanti stimoli e tante idee nuove, insieme a risorse ereditate dal passato e poi ancora conoscenze e tradizioni in continua evoluzione, accomunate dalla volontà di contribuire all’attribuzione di un nuovo valore al patrimonio culturale, mirando anche ad una nuova sinergia tra attori pubblici, istituzionali, associazioni e privati.

 

Simona Stammelluti