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Foto Matteo Rasero/LaPresse
09 Febbraio 2019 Sanremo, Italia
Spettacolo
Festival di Sanremo 2019, serata finale
Nella foto: Mahmood – Soldi, vince il Festival di Sanremo 2019

“Perché Sanremo è Sanremo!” recitava un vecchio slogan della Kermesse ai tempi in cui alla direzione artistica c’era Pippo Baudo che di mestiere faceva il presentatore. Oggi che si sono sdoganate molte professioni, cimentandosi tutti in tutto, anche gli slogan non sono più gli stessi.

E stata questa, l’edizione più cliccata, più discussa anche sui social, perché come sempre accade nessuno lo vede, Sanremo, perché per molti è la morte della musica, è trash, è inguardabile ma alla fine tutti ne parlano, a volte anche per sentito dire, senza averne visto neanche un minuto. O forse tutti lo vedono, ma molti fanno finta di non averlo visto, per stare dalla parte di quelli chic che mi piacerebbe invece sapere che tipo di cultura musicale hanno e cosa ascoltano per davvero, quando nessuno si interessa a loro.

Certo è che questa edizione, che ha avuto tante pecche, che non è stata sicuramente tra le meglio riuscite dell’ultimo decennio e che è peggio forse anche di quella condotta nel 1989 dai figli d’arte,  – così come raccontavo nel mio articolo di sabato notte –  verrà sicuramente ricordata per le assurde polemiche circa il vincitore e tutto quello che il popolo italiano è riuscito a scatenare praticamente dal nulla e sul nulla. Cose all’italiana, insomma. Perché se si fosse discusso, nei talk e sui social di quanto avesse meritato o meno Mahmood di vincere la kermesse, forse tutto quel discutere avrebbe anche avuto un senso, ma continuare a discutere, ad offendere e a credere anche a un complotto (così come in tanti hanno anche fatto) da’ il polso di quando si sia finiti in quella striscia invisibile tra assurdo e grottesco.

Il festival di Sanremo incorona il 27enne milanese Mahmood, di madre sarda e padre egiziano, i network traboccano di rabbia e sdegno – “Il festival della canzone italiana non lo deve vincere uno straniero” – e i patriottici avrebbero votato “Il Volo” arrivati terzi e “Ultimo” arrivato secondo, per arrestare l’ascesa dello “straniero” senza però riuscirci. mMa straniero cosa? Che è un bel giovanotto italiano!

Non è stato il Pd, né le élite a consegnare la vittoria al giovane cantante italo-egiziano, ma la semplice ripartizione di voti che sono arrivati dalla giuria demoscopica, quella di qualità (?) e quella del voto a casa che costa la bellezza di 0,51 centesimi a voto. Tutto secondo le regole, un vincitore deciso “dal Popolo”.

Le contestazioni sono iniziate al teatro Ariston di Sanremo e sono continuate fuori di lì per giorni, tant’è che a 36 ore dalla fine della kermesse ancora si parla di chi ha vinto e perché, con molto improbabili motivazioni.

Ultimo a cui bruciava non aver vinto,  se l’è  presa con i giornalisti, Salvini ha dichiarato che avrebbe preferito vincesse Ultimo, la sua ex, la Isoardi dichiara invece che la diversità di cultura genera cose belle. Già in inizio di serata Salvini aveva cinguettato: “Secondo voi chi vince? Io dico Ultimo”. Seguiva una faccina sorridente. Ma dopo la mezzanotte il vicepremier ha espresso il suo disappunto con un gioco di parole: “Mahmood, mah…” E dopo incalza ancora: “La canzone italiana più bella?!? Io avrei scelto Ultimo, voi che dite???“. Al post sono seguiti in pochi minuti, nonostante la tarda ora, oltre 2 mila risposte, naturalmente degli orientamenti più vari.

La cosa che lascia perplessi è che si è fatto una bagarre sul nulla, su un ragazzo italianissimo che canta la sua storia, a modo suo e che vince perché il sistema di votazione del festival così ha deciso senza oscurantismi, senza mosse strategiche arrivate da chissà dove … e va benissimo così.

Sarebbe stato interessante invece sapere cosa si pensi di Mahmood dal punto di vista musicale, di come canta, cosa e con che stile, se piace o meno quel che fa a prescindere dai suoi tratti somatici. Sarebbe stato interessante interrogare uno ad uno quelli che hanno gridato al complotto, chiedendo loro perché avrebbero preferito invece Ultimo o la Bertè, cosa ricordano delle loro canzoni, cosa ascoltano di solito e cosa c’è che non va nella canzone vincitrice del festival che – a mio avviso – si inserisce a pieno titolo in un festival sotto tono, con canzoni senza troppa armonia, dove i testi erano miseri tranne alcune eccezioni (giustamente evidenziati dai premi speciali messi in palio dall’organizzazione sanremese) e che ha portato in gara fino alla fine, tutti e 24 i concorrenti senza scrematura, costringendo pubblico e giuria a sciropparsi per cinque lunghi giorni tutto ciò che il paniere sanremese aveva scelto a proprio gusto.

Sanremo non è più quello di una volta, quello dei presentatori che facevano i presentatori, delle vallette belle e mute, dei fiori sul palco, della canzone “sanremese”, degli ospiti che arrivavano da tutto il mondo, delle radio che nel palinsesto avevano le canzoni di Sanremo e così imparavi a memoria quelle che ti piacevano di più. Ma non mi si venga a dire che in passato è stato tutto “puro” perché a Sanremo abbiamo avuto Anna Oxa, Malika Ayane, e nessuno ci faceva caso però, perché si guardava alle canzoni, ancora. Oggi si filosofeggia, poi si inveisce contro un nemico che non esiste e ci si schiera, ahimè sempre dalla parte sbagliata.

 

Simona Stammelluti 

 

 

I finalisti erano Il volo, Ultimo e Mahmood 

Vince Mahmood con “Soldi” una canzonetta bella e pronta per l’Eurovision.

Una edizione del Festival di Sanremo piuttosto scadente.  Con presentatori improbabili presi in prestito al cabaret che – a mio avviso –  non sono stati all’altezza del ruolo. 

Baglioni c’ha provato a ricordarci  tutte le sante sere, che belle canzoni ha scritto, ma doveva evitare di cantare, perché alla fine arriva il momento in cui bisogna farsi da parte. Avrebbe potuto limitarsi a fare il direttore artistico. 

Il livello delle canzoni è stato scarso, come mai così negli ultimi 10 anni. 

Sempre più presenti i figli dei talent, sinonimo de fatto che si preferisce sostenere quelli, anziché le scuole di musica e di canto. E i ragazzi dei talent sono spesso impreparati, e si vede.

Testi inutili, tranne quelli che alla fine sono stati giustamente premiati come quelli di  Simone Cristicchi e Daniele Silvestri, come già evidenziato dalla sottoscritta alla fine della prima serata del Festival. 

Mi è parsa una edizione peggiore di quella presentata dai figli d’arte nel lontano 1989. 

Livello delle performance insufficienti. Tante stonature, sera dopo sera hanno deluso anche quelli che di solito cantano intonati; abiti improbabili, trucco e parrucco senza gusto. 

E basterebbe ricordare che a Sanremo sono stati in gara Tenco, Milva, Claudio Villa, Domenico Modugno, Sergio Endrigo.

Ospiti che forse costavano poco, ma inappropriati alla kermesse, quest’anno.

E a Sanremo sono approdati in passato come ospiti i Queen, David Bowie, Whitney Huston, Sting, Madonna. 

Stacchetti e siparietti banali, melensi e noiosi.

Spariti i fiori dal palco – fatta eccezione per quelli donati alle Lady in gara e non – si salva la scenografia, che il teatro Ariston magico. Buona la regia di Duccio Forzano.

Certo è che quel “69” che poi è anche il simbolo grafico del segno zodiacale dei pesci, e dello Yn e Yang, e tutto quella quasi totale del bianco e del nero, mi dice che si è voluto prendere spunto dal numero dell’edizione per sottolineare la differenza netta del bene e del male, in un particolare periodo storico.

Vince il premio della critica  Daniele Silvestri a cui va anche il premio Lucio Dalla.
Premio Sergio Endrigo a Simone Cristicchi.
Premio Bardotti, miglior testo a Daniele Silvestri
Premio Bigazzi, dato dai maestri dell’orchestra, per il miglior pezzo a Simone Cristicchi
Premio Tim Music a Ultimo 

Impeccabili come sempre i maestri  dell’orchestra della Rai, professionisti a tutto tondo, che sorreggono questa kermesse, sempre e comunque.

Che ritorni il festival del bel canto. 

Noi, lo aspettiamo. 

Buonanotte 

Simona Stammelluti  

Parte discretamente la prima puntata del Festival di Sanremo, con quel “69” che svetta sulla grafica.  Finita l’epoca delle vallette straniere belle e impedite nella lingua, Claudio Baglioni ancora una volta direttore artistico della Kermesse, quest’anno, co-conduce con Claudio Bisio e con Virginia Raffaele che non convince in quella veste, e che rende sicuramente di più nelle performance comiche che le si addicono alla perfezione.

La prima serata vede sfilare i Big, (tanti, forse troppi) tra i quali quest’anno ci sono tanti nomi semisconosciuti, figli dei talent, ma che nulla hanno a che vedere con la figura dei “giganti” che ci si aspetta al Festival della Canzone Italiana. Nek, Renga, la Bertè, con una canzone scritta da Gaetano Curreri, il cui testo delude, Paola Turci, Patty Pravo, Nino D’Angelo tra i nomi conosciuti. E poi ancora la Tatangelo,  Arisa, con un pezzo fuori dal suo stile che non convince, Il Volo,  che sembrano antichi, pur essendo giovanissimi, Simone Cristicchi, con un ottimo pezzo ” Abbi cura di me” con un testo degno di nota scritto a 4 mani con lo scrittore Nicola Brunialti, un inno alla cura e al potere di un abbraccio, e poi Daniele Silvestri che con il pezzo “Argentovivo”, vera e propria denuncia del disagio giovanile.

Tra gli ospiti i due Bocelli, Andrea e Matteo, padre e figlio insieme sul palco dell’Ariston, Giorgia, che canta canzoni non sue, si fa accompagnare poi da Baglioni al pianoforte, ma riesce a sbagliare sulle cose facili, e forse dovrebbe allentare con tutti quei vocalizzi ed evoluzioni inutili.

Gli intermezzi sono noiosi. Bisio si intrattiene sui testi di Baglioni. Sfruttata male la presenza di Pierfrancesco Favino, che con la Raffaele mette in piedi una parodia sui Musical, ma che nessuno ricorderà. Mi è sembrata inutile anche la presenza di Claudio Santamaria a cui ieri sera stava male anche la giacca dello smoking. I  “Claudio” così salgono a a 3, per un omaggio insieme alla Raffaele al Quartetto Cetra, che fu sempre emblema di bravura, ironia ed eleganza. Nella vecchia fattoria, Baciami Piccina, Donna, Musetto, Vecchia America. Brava la Raffaele ed anche Baglioni, nel medley. Ricordano Tata Giacobetti. In platea sua figlia e la moglie Valeria Fabrizi.

Federica Carta, Ex Otago, Achille Lauro, Boomdabash, Zen Circus, Enrico Nigiotti, gli altri nomi in gara, Motta,Ghemon, Einar, Ultimo, Irama. Nulla di particolarmente rilevante. Proveremo a capire se nelle successive puntate, qualcosa possa restare nell’attenzione di pubblico e critica.

Gli outfit lasciano a desiderare. Su tutti l’abito fucsia fosforescente della Pravo, che portava a spasso anche una improbabile pettinatura, dissonante con la sua età e con ciò che fu.

Impeccabile come sempre la fantastica orchestra della Rai, chiamata a suonare dal vivo tutti i brani, sera dopo sera, che resta il pilastro della kermesse. Ottimi anche alcuni direttori d’orchestra.

Alla prima serata un voto che non va oltre il 7, ma soprattutto perché lasciano molto a desiderare i testi. E se gli arrangiamenti magari arrivano ad un ascolto successivo, quando si esce dalle mura dell’Ariston, i testi si avverte subito essere di poco spessore, spesso senza troppe parole nuove, e quelle usate, il più delle volte sono usate male. Fatta eccezione – a mio avviso – per i testi delle canzoni di Cristicchi e Silvestri.

Anche quest’anno c’è il televoto e si sa, il popolo italiano vota “a senso” o “a fiducia”. Spietati restiamo noi addetti ai lavori che passiamo al setaccio proprio tutto quello che viene mostrato e che da sempre, è meno bello di come può apparire.

Ma siamo solo alle prime battute.

Simona Stammelluti

 

 

 

La solidarietà che ancora commuove, quella che arriva da dove non l’aspetti ma che quando arriva travolge e lascia senza parole. Così  arriva anche il ringraziamento dell’Arcivescovo di Bologna, Monsignor Zuppi, che ringrazia a cuore aperto i detenuti per aver partecipato a quella che è stato una vero e proprio atto di carità.

E’ accaduto infatti che i detenuti della casa circondariale di Bologna, hanno voluto donare quel poco che avevano, facendo una colletta, per aiutare i poveri e i senzatetto della città. Un gesto di solidarietà verso chi è nell’indigenza. Anche i detenuti versano in stato di indigenza, ma non hanno esitato a donare, a raccogliere quel che avevano per donarlo. Un atto di grande generosità che si consuma tra le mura di un carcere, dove regna non solo la colpa ma anche una sorta di redenzione. Il carcere deve rieducare e riabilitare non solo punire per le colpe compiute. E vien da pensare che tra quei detenuti, qualunque sia il reato per il quale scontano la pena, ci siano persone mosse da un sentimento di pietà e di carità verso chi non ha davvero nulla.

E in un periodo storico come questo – che passerà proprio alla storia per indifferenza, odio, razzismo e abbandono – sorprendono gesti come questo e lasciano intravedere una forma di salvezza collettiva, di riscatto umano, nel vero senso del termine, un ritorno all’ “umanità” che mette in moto lo stare tutti “sulla stessa barca”, malgrado si giochi e far credere di essere tutti diversi, per meriti che ancora in molti disconosciamo.

Riscattare dunque, quel termine, prendendocene la responsabilità, ognuno per come può, come hanno fatto quei detenuti, attraverso quella loro scelta così appassionata e consapevole. Tornare ad umanizzarlo, questo mondo, che sta diventando freddo, e al freddo molti ci stanno, che sta diventando cinico, perché questo vogliono farci diventare, che è crudele nelle scelte che contemplano differenze assurde,  come se una vita valesse più di un’altra. La sofferenza, la crudeltà, l’odio, l’indifferenza, l’emarginazione, sono già esplosi sotto una disumanità che cerca di travestirsi da altro, ma non vi riesce più.

Perché la disumanità di consuma sia nelle condizioni di vita di coloro che hanno bisogno della colletta dei detenuti per non morire, e poi nelle scelte spietate di chi può fare e non fa, di chi lascia che si muoia in mare, di chi diffonde odio negli stadi, di chi disprezza un preside gay e decide di punirlo con una scritta sul muro di una scuola.

E invece, chi sta scontando una pena, perché così la legge stabilisce, perché così è giusto, ha dimostrato che si può e si deve porgere una mano. Perché la pena peggiore, resta quella del cuore, l’aridità delle menti e la povertà dell’animo.

Domandarsi da che parte stare, come hanno fatto quei detenuti che hanno accolto l’invito dell’Arcivescovo e che hanno dimostrato che ce la si può fare, se non si perde il senso di questa vita che dà e a volte toglie, ma che non dovrà mai toglierci la speranza.

 

Simona Stammelluti

 

 

Piange Gino Murgi, il sindaco di Torre Melissa in provincia di Crotone dove questa mattina all’alba  sono stati accolti 41 migranti curdi, salvati dal naufragio.

Piange ai microfoni di Radio Capital raccontando quello che ha visto e che ha provato, quello che è accaduto in quella cittadina che ha dato una lezione di umanità senza precedenti.

E’ stata una mattina tremenda” – dice Murgi –  e poi continua il suo racconto. Pioveva, il mare era agitato. Eppure c’è stata tanta umanità profusa, una continua accoglienza e costante sinergia di forze nella coordinazione del salvataggio.

I cittadini in maniera veloce, quasi in un batter d’occhio sono intervenuti. Sono arrivati immediatamente abiti, coperte, pasti caldi. Nessuna forma di indifferenza.

Ma come si fa ad essere indifferenti davanti ad una mamma con un bambino di 3 mesi in braccio?  – Il sindaco si commuove –  come si fa ad essere indifferenti davanti a qualcuno che ti chiede aiuto, che ti dice che sulla imbarcazione ci sono ancora i suoi figli? Ho pensato ai miei figli, ai figli di tutte le persone della nostra comunità”

Alle 4 del mattino i cittadini di Torre Melissa si sono tolti i giubbotti di dosso, e li hanno dato ai ragazzi che scendevano dalla barca.

Questo è il rispetto per la vita – continua Murgi – e non ci dovrebbe essere colore politico in situazioni come queste. Bisognerebbe tirar fuori l’umanità che abbiamo dentro”

Non aveva mai vissuto una situazione del genere il sindaco di Torre Melissa e non dimenticherà mai quei bambini bagnati, infreddoliti, viola dal freddo e dalla paura

 

Simona Stammelluti 

 

I dati dicono che solo a Cosenza – come si legge sulla Gazzetta del Sud – nella notte di capodanno sono stati  46 i minori finiti all’ospedale, vittime dell’alcool. I dati nazionali sull’alcolismo nei giovani sono allarmanti;  1,7 milioni  sino ai 24 anni, di cui 800 mila minori ai quali l’alcool, dovrebbe essere negato, sia nella vendita che nella somministrazione.

Dalla spavalderia del sentirsi adulti al vizio del bere, il passo è breve.

Una volta sola e poi basta, voglio solo vedere com’è“, si trasforma in una consuetudine. Nei locali si beve, a volte senza limite perché è proprio il limite la sfida; e il superarlo, il brivido. Sono tante le forme di autolesionismo e l’alcool è uno di quelle. I giovani paragonano l’essere grandi, alla capacità di superare un limite,  sia esso di velocità, di bottiglie di birra bevute o di sigarette da fumare. Il limite è l’unica spinta che hanno. Perché per il resto, i giovani vivono in un mondo tutto loro, primo di passioni e di voglia di fare, indaffarati nel mettere insieme sfide virtuali e giorni tutti uguali che li fa crescere senza accorgersene, perché troppo intenti ad ignorare le sfide vere, quelle fatta di obiettivi e di traguardi, di fatica e di soddisfazioni. Vivono chiusi nei loro mondi fatti di “black mirror” e di vite dentro uno schermo,  che alterano la percezione dei sensi, tutti. Non sentono, non vedono, non interagiscono se non attraverso il mondo virtuale, o giochi di strategia e di ricostruzioni di mondi rasi al suolo senza un perché. Anche le loro vite a volte vengono rase al suolo, nell’indifferenza generale.

I giovani hanno perso la capacità di pensiero critico, di rispetto delle regole e di percezione dei proprio limiti e delle proprie potenzialità. Spesso sopravvivono a loro stessi, alle loro cattive abitudini e ai loro vizi. Tra questi, anche l’alcool. Ma la responsabilità non è la loro, o meglio non solo. L’alcool è venduto nei supermercati, nei bar, nei locali notturni. Non ho mai visto una commessa chiedere un documento di identità ad un minore che arriva alla cassa con una bottiglia di birra o di superalcolico. Così come non accade nei locali modaioli delle città, dove nessuno controlla quanto bevano i minori o cosa accade dopo che sono andati a spendere la paghetta settimanale, al bancone dei pub.

Eppure qualche mese fa ad Edimburgo l’esperienza vissuta in prima persona mi ha restituito una realtà diversa; quella di un luogo dove le problematiche si affrontano in maniera drastica, e dove la piaga dell’alcolismo giovanile si combatte in maniera rigida, vietando categoricamente la vendita ai minori, e in quel “categoricamente” c’è tutta la perentorietà del caso.

Mia figlia, sedicenne, con me a pochi metri, mette sul bancone di uno “Scotch Experience” una bottiglietta da collezione e un pacco di biscotti al burro. Alla domanda della commessa se fosse maggiorenne lei risponde di essere insieme a sua madre e che quella bottiglia è un souvenir da portare in Italia. Confermai quella versione, eppure da quel negozio uscimmo senza la bottiglietta di scotch, perché – mi dissero – nessuno poteva garantire loro, che usciti da quel locale io non passassi quella bottiglia di alcool a mia figlia.

Così è anche nei locali. C’è un controllo rigido sulla questione alcool.

E allora perché non vi sono gli stessi controlli sul territorio italiano? Perché non si vigila sul rispetto della legge che vieta la vendita degli alcolici ai minori? Dove sono le pesanti sanzioni? Dov’è la chiusura dell’attività per chi reitera? Perché si permette che 46 ragazzi vengano ricoverati a causa dell’alcol, alcuni in coma etilico, e che rischiano di spappolarsi il fegato e rischiando la vita?

Le domande restano sempre troppe, i minori vittime dell’alcool anche.
Sembrerà retorica, ma ormai gli adulti sembrano complici consapevoli dell’immaturità dei giovani. C’è una disattenzione generale, perché è più comodo così,  perché supervisionare sulle vite dei figli, è un compito di cui non conosciamo più l’importanza. Sapere, significa interrogarsi su eventuali errori e ritrovarsi ad ammettere di aver sbagliato, da qualche parte, è cosa da adulti; ecco, sì … da adulti.

Simona Stammelluti

 

 

PFF – Trisonata per corpo femminile e pianoforte, scritto e diretto da Valentino Infuso, con Valentina Cidda, che sarà in tournée fino a maggio 2019, debutterà in prima nazionale a Roma al Cometa Off dal 15 al 20 gennaio

“Prendete la forza espressiva di Jessica Biel, la carica devastata di Lana Del Rey, il rock di Sheryl Crow, la schiettezza di Alanis Morrissette, centrifugate… Ecco ci avviciniamo a questa interprete… Il poderoso testo è un apertura a cuore sanguinante messa in prosa dal regista e drammaturgo con enorme sensibilità e allo stesso tempo crudezza…”

Tommaso Chimenti

Un’opera teatrale perfettamente compiuta che ti ferisce e ti accarezza, fusione ed equilibrio fra vena drammatica e comica, che arriva a vertici inaspettati e travolgenti in un turbinio di emozioni, il tutto impreziosito da momenti di grande virtuosismo interpretativo e brillantezza musicale. Uno spettacolo capace di coniugare con grande sensibilità artistica parole, musiche e movimento in un racconto intenso, sconvolgente. Tutto questo è PFF – Trisonata per corpo femminile e pianoforte, scritto e diretto da Valentino Infuso, con Valentina Cidda, che ne compone anche le musiche originali.

PFF, pronunciato con la f prolungata, come un lungo sospiro che contiene ogni sfumatura emotiva, dal pianto al sollievo, dalla fatica alla resa, dalla disperazione alla speranza, dall’ illusione al disincanto, dalla dolcezza al dolore, dall’inizio alla fine, dalla fine ad un nuovo inizio…è il racconto di una donna, è la storia di una vita, narrata per narrare tante vite…narrata per parlare a tutti, donne e uomini.

 PFF è una favola tenebrosa e delicata, rude e dolcissima, spietata e amorevole…una favola i cui personaggi prendono vita plasmati dall’invisibile ad ogni istante, dove tutto è all’ultimo fiato, senza tregua, dove la storia di una vita si fa tessuto intrecciato di dolore e bellezza, un segreto di liberazione, un’ affresco intimo e profondissimo sull’anima umana…

PFF – Trisonata per corpo femminile e Pianoforte” è un opera alchemica,  e, come tale, drammaturgicamente si compone appunto, di “tre sonate” che insieme incarnano una sinfonia complessa, coraggiosa, sfrontata. Tre parti, tre fasi dell’esistenza, i tre stadi di mutamento dal piombo esistenziale alla ricerca dell’oro che siamo e possiamo Essere…

Nella prima sonata, “Origini” (del male), si  narra la nascita, “la caduta dell’angelo”, l’inizio del viaggio terrestre di una piccola donna che comincia a poco a poco ad essere piegata, logorata, congelata, dalle grandi bugie del mondo degli “adulti”: le aspettative, il giudizio, l’inganno, la prima violenza, la vergogna, la fuga da se stessi, lo smarrimento, la paura, il senso di colpa, la ricerca disperata di un respiro d’amore autentico che manca, manca sempre, manca ovunque, manca da sempre, …

La seconda sonata, “Inferno”, si apre con l’avvio verso la vita da “signorina”, e percorre, attraverso i passaggi del diventare donna, gli schemi che, dal primo germe di dolore originario, vanno a crearsi e ripetersi ostinatamente, sciami di demoni evocati e nutriti costantemente in un anelito inarrestabile di autodistruzione…la tensione alla vita, l’omicidio continuo di ognuno per mano di ognuno, il disincanto, il dolore, la fuga, la rabbia che salva dalla disperazione ma lo fa avvelenando inesorabilmente il cuore…

La terza sonata, è “Guarigione”. La trasformazione. E’ la dissoluzione dell’ego, la fine di ogni pretesa, la consapevolezza incarnata, la responsabilità riconosciuta, l’accoglienza della Bellezza, la resa. E’ un monologo muto, dove il vuoto purifica la parola…e la restituisce scarnificata e leggera, libera e solenne nella sua trasparenza inafferrabile.

PFF è uno spettacolo così perfettamente tessuto da sembrare un essere vivente di per sé palpitante, bruciante, urgente, divorante e fecondo, fiero, vero.

Avevo da tempo il sogno di mettere in scena un monologo che raccontasse una Vita,  attraverso l’interazione unica con il pianoforte, ma non avrei mai potuto realizzarlo senza la geniale scrittura e la straordinaria, folle, pazzesca regia di Valentino Infuso…dichiara l’attrice Valentina Cidda.  

Il Pianoforte, si fa essere in carne ed ossa, fedele compagno di scena, vissuto, attraversato, suonato e suonato magicamente, con le mani, i piedi, il corpo, l’anima, penetrato, abitato, logorato dal sangue e dal sudore e glorificato dalla pace di una trasformazione che è catarsi reale, nuda, e senza filtri.

Note di Regia e drammaturgia.

 Scrivere uno spettacolo per corpo (e anima) femminile e pianoforte. Ecco. Una bella scommessa in principio.

Il viaggio di Piano, Forte, Forte, è iniziato così, “semplicemente”, da un “discorso” intorno all’essere umano. Che si tratti di un viaggio nel femminile, questo è un “dettaglio”, è semplicemente un colore, una sfumatura, ma una sfumatura intensa, potente, di quelle che emanano odore proprio, che ha richiesto a me – e lo ha fatto senza mezzi termini – non la comprensione della sensibilità femminile ma l’emersione spudorata del mio femminile profondo. E di questo ringrazio tutte le donne che sono stato nelle vite precedenti. Ogni esperienza raccontata e rivissuta in scena da Valentina, infatti, è stata scritta attraverso la mia Verità, nulla di quello che racconto io in parole e lei in corpo, voce e sudore, è arrivato nelle sue vene senza che sia transitato per le mie, e, contemporaneamente PFF è PFF proprio perché creato e vivente attraverso ciò che Valentina Cidda è, nel corpo, nella voce, nel sentire, nella musica. Nessun altro potrebbe interpretare questo testo ed incarnare questa regia.”

 Valentino Infuso
 

 

 

 

Ritrovato nelle prime ore di questo pomeriggio nelle acque del porto di Schiavonea (CS)  un Fiat Fiorino che al suo interno custodiva un revolver. Il mezzo è stato recuperato grazie all’intervento degli uomini del nucleo sommozzatori dell’Arma dei Carabinieri

Sembrerebbe un evento poco allarmante se non fosse che segue di pochissimi giorni al ritrovamento nella stessa area marina, di un corpo in avanzato stato di decomposizione, appartenente ad un uomo sulla cinquantina attinto da 3 colpi di arma da fuoco che potrebbe essere quello del Boss coriglianese Pietro Longobucco, scomparso proprio giorni prima del rinvenimento del cadavere.

Quel che contribuisce ad infittire il mistero è la scomparsa del proprietario dello stesso fiorino, che ne aveva denunciato il furto solo pochi giorni prima del rinvenimento del cadavere e che a tutt’oggi risulta ancora irreperibile.

Se dunque gli inquirenti sospettano che si tratti di un presunto omicidio di ‘ndrangheta, considerate le peculiarità del delitto, si infittisce ancora di più il caso della scomparsa del proprietario del furgone.

La scomparsa del proprietario del furgone ha dunque a che vedere con il ritrovamento del corpo e del furgone?

E se si confermasse la mano dell’ndrangheta della piana ionica cosentina negli eventi accorsi, ci sarebbe da chiedersi cosa stia accadendo o meglio, cosa sia accaduto negli equilibri malavitosi della zona.

Resta dunque alla magistratura e agli inquirenti vagliare questa o altra ipotesi per ricostruire il complesso intreccio di eventi, susseguitesi in così breve tempo, e per altro in una ristretta area geografica.

Simona Stammelluti 

 

 

Certo in un periodo come questo, di profonda crisi politica, la Calabria non meritava gli eventi delle ultime ore che vedono il Presidente della Regione Gerardo Mario Oliverio sottoposto alla misura cautelare di obbligo di dimora  nel comune di San Giovanni in Fiore per il reato di abuso di ufficio.

Di tutto ha bisogno questa terra tranne che di perdere una guida in un momento così delicato. Se tutto fosse vero, se la magistratura dimostrasse quanto afferma, sarebbe davvero una sconfitta per questa terra, che sembra non avere più le armi per risorgere.

Fatto sta che il Presidente Oliverio,  indignato ma agguerrito, respinge in toto le accuse, e non ci sta a passare per l’amico degli amici dei mafiosi: “ho speso la mia vita per contrastare la criminalità di ogni tipo e per affermare la legalità e non permetterò a Gratteri o a chicchessia di infangare la mia vita e il mio impegno per il bene comune”.

Parole dette durante una intervista concessa a Rai News 24, ieri da quando Oliverio ha incominciato lo sciopero della fame, come protesta verso questo provvedimento che lo vede coinvolto nell’operazione della Guardia di Finanza di Cosenza in materia di appalti pubblici. L’accusa è abuso d’ufficio, l’inchiesta quella che riguarderebbe due appalti, uno sul tirreno cosentino ed uno un impianto sciistico in Sila. Nei confronti di alcuni indagati viene ipotizzata l’aggravante dell’articolo 7 del metodo mafioso, per aver agevolato la cosca di ‘ndrangheta Muto di Cetraro.

I polveroni sono il vero regalo alla mafia. Tra l’altro l’opera in oggetto delle indagini non è stata appaltata nel corso della mia responsabilità alla guida della regione” – afferma ancora il presidente Oliverio in una nota.

Sembrerebbe che Nicola Morra abbia chiesto le dimissione di Oliverio che rispondendo ad una intervista, si domanda come mai Morra abbia saputo delle indagini prima di lui.

Evidentemente ci sono nuovi poteri che custodiscono segreti e misteri” – dice Oliverio alla domanda di Davide Varì.

Mai mi dimetterò – continua il presidente della Regione – e  non mi dimetterò perché lo devo ai cittadini calabresi e perché non voglio piegarmi a chi sta stravolgendo i principi costituzionali”.

Aspettiamo di vedere cosa accade, anche se questo provvedimento appare un po’ anomalo, considerate le accuse. L’obbligo di dimora nel comune più vasto della Calabria con annesso boschetto dove passeggiare. Intanto vi è la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva.

 

Simona Stammelluti

 

La Piccola Compagnia del Piero Gabrielli – Teatro di Roma, rimetterà in scena per il quarto anno consecutivo L’albero di Rodari per la regia di Roberto Gandini, da Gianni Rodari, di Attilio Marangon; musica di Roberto Gori. Protagonisti: Edoardo Maria Lombardo, Gabriele Ortenzi, Simone Salucci, Giulia Tetta, Danilo Turnaturi. Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Biblioteca Quarticciolo dal 16 al 19 dicembre 2018.

Perdersi tra le pagine dolci e incantate che la penna di Gianni Rodari ha dedicato al Natale, al Capodanno e all’Epifania. Le letture di fiabe e filastrocche drammatizzate dalla regia di Roberto Gandini e adattate da Attilio Marangon prendono vita per la gioia dei più piccoli che, insieme al pubblico dei più grandi, potranno lasciarsi rapire da un universo di fiaba, magici incanti e ricordi lontani. Storie di gioia e felicità, ma anche di solidarietà estrema. Soffici riflessioni sul rispetto dei diritti dei più piccoli. Come quella di un tenero nonno alla ricerca dei giocattoli per i suoi nipotini che si imbatterà in un ambiguo Mefistofele alle prese con un marchingegno che fa scomparire oggetti e persone non graditi ai bambini. O la tenera parabola di un presepe in cui verranno catapultati Toro Seduto, un tamburino e un aviatore con tanto di aereo. E ancora, il racconto della rivolta dei personaggi classici del presepe, pastori e vecchine delle caldarroste, con tre finali possibili a scelta dei bambini, in un divertente gioco del destino saldamente nelle mani dei desideri dei più piccoli.

Letture recitate sotto l’albero alla scoperta dei tesori che le fiabe e le filastrocche di Gianni Rodariraccontano e continuano a conservare, affascinando il pubblico con l’ironia, la fantasia e la capacità di immaginare un mondo migliore. “Credo che le fiabe, quelle vecchie e quelle nuove, possano contribuire a educare la mente. La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo”, sono queste le parole di Rodariche forse si potrebbe dire “valgono anche per i grandi”.

Tessere e frammenti di un suggestivo mosaico di brani dello scrittore di Omegna sul tema del Natale, atmosfere e momenti di magico incanto che si trasferiscono dalla pagina alla scena per raccontare anche storie di solidarietà e vicinanza fra gli uomini. Parole e immagini legate in un gioco fatto di visioni, suoni, emozioni, ricordi, attraverso l’interpretazione di Edoardo Lombardo, Gabriele Ortenzi, Simone Salucci, Giulia Tetta e Danilo Turnaturi, che coinvolgeranno grandi e piccini in un momento di feste, in un periodo dell’anno in cui i ritmi si allentano, ci si riappropria del tempo famigliare e spesso si riflette sul valore delle persone e delle cose.