Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 46 di 90
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Compie 80 anni, domani 20 agosto, Enrico Rava, sicuramente il jazzista italiano più conosciuto e apprezzato a livello internazionale.

Annunciata per il 6 settembre, l’uscita del suo nuovo albumper ECM, intitolato “Roma” e registrato dal vivo lo scorso novembre con Joe Lovano, all’Auditorium Parco della Musica di Roma.

Da sempre impegnato nelle esperienze più diverse e più stimolanti, Enrico Rava è apparso sulla scena jazzistica a metà degli anni sessanta, imponendosi rapidamente come uno dei più convincenti solisti del jazz europeo. La sua schiettezza umana ed artistica lo pone al di fuori di ogni schema e ne fa un musicista rigoroso ma incurante delle convenzioni.

La sua poetica immediatamente riconoscibile, la sua sonorità lirica e struggentesempre sorretta da una stupefacente freschezza d’ispirazione, risaltano fortemente in tutte le sue avventure musicali. Nella sua lunga carriera, Rava ha collaborato, non solo con i più grandi jazzisti mondiali, ma anche con personaggi di caratura come Andrea Camilleri, Michelangelo Pistoletto, Francesco Tullio Altane Bernardo Bertolucci.

 I festeggiamenti per l’ottantesimo compleannodi Enrico Rava sono cominciati ad aprile, con l’inizio del tour mondiale  Enrico Rava 80th Anniversary – Special Edition che toccherà, oltre l’Italia, anche gli Stati Uniti e l’Argentinain autunno, paesi dove Rava ha vissuto diversi anni alla fine degli anni ‘60. In questo tour, Rava ha voluto raggruppare i musicisti che più gli sono stati vicino negli ultimi anni, per rivisitare i brani più significativi della sua carriera, rivisti in un’ottica odierna e interpretare nuove composizioni scritte per questa occasione.

Dopo aver conquistato con questo tour le platee di tutta Europa e i principali Festival Jazz italiani, Enrico Ravasarà nuovamente in concertoad agosto, anche con altre formazioni, il 24 agosto a Geadara (PU), il 27 Eilat in Israele; a settembre, il 15 ad Alghero (SS), il 25 a Pisa; a ottobre, il 10 a Ingolstadt in Germania, il 20 a Soriano (VT), il 31 ottobrel’1 e il 2 novembre a New York per i 50 anni di Ecm, il 5 novembre a Milano, dal 15 al 17 novembre in Argentina, il 22 novembrein Belgio, il 4 dicembre a Bari e il 10 dicembre a Roma.

 Il nuovo album “Romadocumenta l’incontro tra il decano del jazz, Enrico Rava e Joe Lovano, magistrale sax tenore statunitense dalle origini siciliane, in occasione del loro penultimo concerto del tour europeo, avvenuto all’Auditorium Parco della Musica di Roma, nel novembre 2018. Qui, Rava e Lovano hanno alle spalle un vivace quintetto che comprende il pianista Giovanni Guidi, il batterista Gerard Cleaver, e il bassista Dezron Douglas (al suo esordio per ECM). L’album “Roma” suggella il rapporto con ECM, con cui Rava collabora e incide dal 1975.

 Sono passati ormai più di 50 anni da quando Enrico Rava apparve, dapprima sulla scena italiana e poi in quella mondiale, collaborando con artisti del calibro di Gato Barbierie Steve Lacy, con cui passò una breve stagione a Buenos Aires insieme ai sudafricani Johnny Dyani e Louis Moholo.

Poi venne il lungo soggiorno a New York dove incontrò e collaborò con artisti come Roswell Rudd, Carla Bley, John Abercrombie, Cecil Taylor, tra i tanti. Negli anni settanta il rientro in Italia e un inanellarsi di concerti e dischi con i gruppi a suo nome, l’incontro con l’Opera, da lui rivisitata in due splendidi album e quello con il Pop di Michael Jackson, la sua predisposizione a scoprire giovani talenti: nel corso degli anni Massimo Urbani, Paolo Fresu, Stefano Bollani, Gianluca Petrella, Giovanni Guidi, Francesco Diodati, etc., e le collaborazioni con tanti artisti: Lee Konitz, Richard Galliano, Pat Metheny, John Scofield, Dave Douglas, Geri Allen, Cecil Taylor, Miroslav Vitous, Philip Caterine, Tomasz Stanko, Michel Petrucciani, John Abercrombie, Joe Lovano.

Enrico Rava, ha pubblicato anche due libri autobiografici: “Note Necessarie. Come un’autobiografia” in collaborazione con il giornalista Alberto Riva, edito da Minimum Fax nel 2004 e “Incontri con musicisti straordinari. La storia del mio jazz”, pubblicato nel 2011 da Feltrinelli. Infine, è del 2015 il film documentario“Enrico Rava. Note Necessarie” della regista Monica Affatato.

 Nel 2019 Enrico Rava è  stato insignito dell’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana. L’Onorificenza italiana si aggiunge ad altre ricevute negli anni passati all’estero. Infatti, Enrico Rava è stato nominato anche Chevalier des Arts et des Lettresdal Ministero della Cultura francese e Doctor in Music Honoris Causaalla Barkleee School of Music di Boston. Inoltre, è cittadino onorariodella città di Atlanta in Georgia.

 

Bella l’estate, bello lo svago, belle le festività. Ma mentre in tanti si sono divertiti sulle spiagge dell’agrigentino e negli agriturismo dell’hinterland, c’e chi ha lavorato per la collettività.

E così dopo le dichiarazioni di compiacimento del sindaco circa l’efficienze a la celerità con la quale sono stati ripristinati i luoghi, viene da lodare  il lavoro impeccabile degli operatori ecologici della Iseda che non solo hanno lavorato alacremente nel giorno di ferragosto ritirando la spazzatura sin dalle prime ore del mattino, non lasciando dunque i cittadini con la spazzatura davanti le proprie abitazioni in un giorno di festa, ma sono stati in grado di riportare allo stato di decoro e pulizia i luoghi nel post festività, dimostrando quanto ben  organizzato ed efficiente sia il lavoro svolto con competenza ed abnegazione, al servizio della collettività.

Ci piace sottolineare come un servizio del genere possa costituire un fiore all’occhiello per la città e che l’esempio di efficienza consumatosi in queste ore piene di eccessi, possa essere applicato anche ad altri ambiti, non ancora così ben organizzati.

 

Simona Stammelluti

Ti accorgi subito di essere in Palestina, sia dal paesaggio che dall’architettura. Un deserto con 4 palme e due case, ti dice che sei in Palestina. Paesaggio che contrasta con il territorio israeliano che è sempre rigoglioso e abbondante di vegetazione. L’architettura israeliana è monotematica e monocromatica. Sembra di stare in una immensa caserma a cielo aperto, mentre in Palestina le case sono più elaborate dal punto di vista estetico – ma siamo lontani dal buon gusto – e dall’immancabile presenza di dossi artificiali.

Nei cieli palestinesi, non vola nulla che non sia israeliano o che gli israeliani non vogliano.

Ma la cosa che colpisce di più sono proprio i contrasti.
I palestinesi saranno pure più rozzi ma più affabili, gli israeliani stanno sempre lì con quell’aria austera che ti guardano dall’alto in basso, perché si sentono in cima ad una ideologica catena alimentare. Le scene sono quelle in cui la freddezza lascia il posto solo alla prepotenza, alla supponenza. Nei supermercati i militari e i civili armati israeliani, mostrano come in far west le armi, con atteggiamenti che ricordano il famoso personaggio interpretato da Lee Van Cleef.

Si pensi a Gerico: è deserto. Eppure sulla collina si intravede tra verde e palmeti la parte di territorio israeliano.

Questi i racconti di chi sul territorio si alterna, per lavoro, per turismo o per motivi umanitari. E anche se vai per motivi umanitari, però puoi fare ben poco, perché comunque non puoi far entrare in Palestina nulla che gli israeliani non vogliano. Si è dunque vittime dei capricci – o forse di esigenza? – degli israeliani che centellinano e razionano qualunque bene di prima necessità al popolo palestinese; dall’acqua all’energia elettrica, soffocando anche quel minimo di economia locale.

E poi c’è lei, Pina Belmonte, (leggi qui l’intervista) che vive da anni tra l’Italia e la Palestina dove lavora. La conosco e la stimo da un po’ di tempo ed è colei che con estrema lucidità mi racconta una realtà che è così tagliente da divenire invisibile.
Lei, che ha la possibilità di vedere cosa accade in Palestina, da vicino, vicinissimo.

Dal mese di maggio nella striscia di Gaza la situazione è sempre più complicata. Le notizie in Italia arrivano sempre un po’ distorte, quando arrivano.  Israele ha ristrutturato i check-point che sono più umani solo a livello estetico, ma la sostanza non cambia. Ristrutturati, con la musica di sottofondo, tutto computerizzato con la possibilità di un maggiore controllo da parte degli israeliani. Così quando un palestinese da Gerusalemme va a Betlemme, gli viene fatta la foto digitalizzata. Sui display le facce di tutti, anche quella di Pina che per fortuna mostra solo il suo passaporto senza essere passata letteralmente allo scanner.

I pellegrini non mancano mai, in quei luoghi, anche fuori dalle festività religiose. E’ una terra così bella, ma così tanto difficile – racconta Pina –  dove le maggiori religioni convivono per forza o per volere, insieme. E’ una terra che non si ferma mai, soprattutto Gerusalemme, tranne che un paio di ore a notte. E’ sempre in movimento, è un mix tra la preghiera del muezzin che si innalza, mentre sulla città vecchia di Gerusalemme nello stesso tempo suonano le campane, mentre gli ebrei vanno a pregare al muro del pianto.

Quando varchi la porta della città vecchia di Gerusalemme, potresti capire in quale quartiere ti trovi anche solo dagli odori, senza usare la vista.

E’ il luogo più sacro che possa esserci, eppure è bagnato dalla violenza, dal sangue.

E’ una terra piena di contraddizioni. La libertà religiosa non viene rispettata, nessun permesso è stato concesso ai cristiani per poter uscire dalla striscia di Gaza e recarsi a pregare a Gerusalemme. E’ la terra della violazione dei diritti umani. Le perquisizioni vengono fatte per strada, soprattutto ai palestinesi, dai 14 anni in su; alcune volte vengono fermati nelle postazioni, ma spesso vengono fermati per strada, sbattuti contro un muro e perquisiti, mentre i passanti guardano; e questa è una grande violazione dei diritti umani. Tutta questa violenza per semplici controlli.

Israele sta attento a garantire la sicurezza ai pellegrini e ai turisti, perché meno turisti arrivano meno soldi ci sono per Israele. Pina guarda oltre, si sofferma a guardare i soldati, a vedere cosa c’è oltre la divisa. Spesso è una scelta, poche altre volte no.

Per molti è una sorta di “previdenza sociale”. La maggior parte di loro a stento arriva a 20, 22 anni, e che imbraccia armi più grandi di loro e quasi ti viene da chiederti se siano realmente capaci di gestirle in piena sicurezza.

“Mi ha toccato una scena di un soldato – mi racconta Pina – Era in turno, in servizio. Era il venerdì della settimana santa ortodossa. C’era una marea di gente; ho notato questo soldato che si è messo in disparte e sotto il berretto aveva nascosto un libro e con la mano davanti alla bocca, pregava. Non so dirti di che religione fosse. Non penso fosse ebreo. Non tutti i soldati o poliziotti sono israeliani, ci sono anche arabi e te ne accorgi quando salgono sul pullman, perché sono più gentili e fanno la carezza ai bambini, anche”.

E poi ci sono quelli che abituati solo a dare ordini, non si aspettano il rimprovero di chi si cura del decoro dei luoghi, mentre viene detto loro che nel Santo Sepolcro non si può entrare con un gelato in mano.

E’ di domenica la notizia di incidenti e cariche di polizia sulla Spianata delle moschee. La Mezzaluna Rossa, riferisce di 20 palestinesi feriti e contusi. Attraversando la città vecchia di Gerusalemme, si respira un clima di perenne tensione. Polizia e soldati israeliani ovunque, dislocati anche sui tetti della città; tensione alla porta di Damasco, alla vigilia della festa islamica dell’Al-Adha. I Palestinesi protestano per il possibile ingresso – non autorizzato dalla polizia – di religiosi nazionalisti israeliani sulla spianata della moschea di Al Aqsa in occasione del Tisha B’av, la ricorrenza ebraica della distruzione del Tempio. Intanto coloni ed estremisti ebrei, hanno sfilato con le loro bandiere e canti, in prossimità della città vecchia.

Eppure gli occhi di Pina sanno scorgere sempre immagini di speranza, di piccoli dettagli di rispetto della vita. E così ci mostra le immagini di un mendicante che dona la sua elemosina, per omaggiare la bellezza della musica, suonata per strada, da una violinista.

E mentre Pina continua ad osservare con i suoi splendidi occhi neri, questa terra così bella e così piena di contraddizioni, il mondo, fa finta di non vedere.

Su questa terra a diritto alla vita, su questa terra, signora alla terra, la madre dei principi, la madre delle fini. Si chiamava Palestina si chiamava Palestina. Mia signora ho diritto, che sei mia signora, ho diritto alla vita.

[M. Darwish]

Di connubi così perfetti ne ho visti davvero pochi, durante la mia carriera.

Parlo del connubio perfetto tra location e kermesse, traArmonie d’Arte Festival e l’intenzione di promuoverla l’arte, la cultura, la musica nella sua forma più alta, in una terra come la Calabria, che ha bisogno impellente di iniziative culturali, di impegno e competenza per risorgere e per ritrovare la strada verso una crescita chepiù che necessaria, è indispensabile.

A rendere tutto questo possibile ci ha pensato il direttore artistico del Festival, Chiara Giordano che ieri sera, salutando il pubblico presente nella splendida location del Parco Archeologico Scolacium a Borgia (Cz) ha spiegato come questo Festival nasce proprio con l’intenzione di coltivare la cultura della bellezza nel suo significato etico ed estetico e in maniera collettiva, mentre ognuno fa la sua parte e mentre si lavora ormai da 18 anni “nell’arte e per l’arte”, attraverso diversi stili artistici, ognuno dei quali capaci di decretare anno dopo anno il successo di questo “lavoro d’insieme”.

Ieri sera l’esibizione della cantautrice portoghese Dulce Pontes, è stato un piccolo capolavoro, malgrado qualche problema di microfoni. Un piccolo capolavoro incastonato nella consapevolezza che il talento è molto simile ad una missione: va intrapreso, poi lasciato andare e in ultimo condiviso. La Pontes è una cantante che si esprime in tanti modi, che ha una spiccata personalità musicale, capace di catalizzare l’attenzione, e di portare l’ascoltatore nel suo mondo, fatto di note, di musica popolare, di fado, che è il suo vestito più bello. Una voce da mezzo soprano che sconfina in acuti a volte a voce piena a volte in falsetto, un’estensione vocale ampia, che racconta in maniera prorompente tutto quel “sentimento” quella “saudade” che narra di emigrazione, di lontananza, di separazione, di dolore, di sofferenza. In quel mood Dulce Pontes ha portato il suo pubblico, con quella padronanza della scena, mentre si muove e riempie lo spazio che condivide con due chitarre e un contrabbasso, con i suoi strepitosi musicisti, il chitarrista Daniel Casares e Yelsy Heredia al contrabbasso.

Sono tanti i momenti in cui la cantante portoghese incanta con i duetti voce e chitarra, quando lascia che il vibrato classico del canto della terra che fu di Cesaria Evora, si insinui tra il cambio di tempo e il controcanto che rende tutto così pulsante. Si apprezzano tutte le sue sfumature vocali, sia quando esplode il canto gitano, sia quando l’escursione vocale lirica, mette tutto a tacere.

Regala momenti di grande arte, con pezzi del suo repertorio, alcuni dei quali durano oltre 10 minuti, senza stancare mai; reinterpreta anche i temi famosissimi del Maestro Morricone con il quale ha collaborato.

Un’artista con la voce nelle sue radici, e il cuore altrove … lì dove serve, dove poi esplode, mentre lei resta costantemente in cammino, perseverando con originalità e talento.

Tutto perfetto ieri sera, mentre sogno una Calabria che possa trovare in un Festival come Armonie D’Arte, una porta dalla quale far entrare una chance, attesa troppo a lungo

 

Simona Stammelluti 

 

Sapevo che sarebbe stato difficile.
Non è un libro che si legge in una notte.
Se ci riesci vuol dire che non hai un cuore.

Prima di aprirlo, quel libro, lo tengo chiuso sulle gambe.
Guardo la foto di copertina, senza alcun ritocco.
Riconosco Luigi in quella sua espressione, nella quale c’è tutto il suo vissuto, c’è tutto quello che sa dire. Il titolo è esaustivo, penso di aver capito cosa mi attende. Ma sono una lettrice seriale, e so che spesso in quelle pagine sotto la copertina, c’è sempre qualcosa a cui non si è pronti.

Prima di incominciare, ripenso a come e quando ho conosciuto Luigi Leonardi; ricordo tutto, ogni dettaglio delle parole che ci siamo scambiati, e ho bene a mente la voglia che “resiste e persiste” di porgli ancora delle domande. Potrei scriverlo io, un libro su Luigi Leonardi; forse un giorno lo farò, perché la sua storia, non è uguale a tutti quelli che vivono sotto scorta. Ha in comune qualcosa con loro, ma la sua storia contiene dei dettagli che ti annientano, ti scorticano vivo, ti costringono quasi ad apprezzare tutto quello che hai. Quanto siamo banali, mentre detestiamo le nostre vite, a volte, alla continua ricerca di qualche “emozione forte” – penso.
Emozione forte, che può essere nel bene o nel male.

Ripenso a come alcuni incontri, possano cambiarti la vita.
Forse perché alcune vite sembrano avere una sceneggiatura intrinseca, mentre i protagonisti di quelle vite, vorrebbero solo avere un’esistenza come tutti gli altri.  Il libro ancora non l’ho aperto, e già la mia percezione del vivere è mutata.

Sono stata Luigi Leonardi per giorni; 12 per l’esattezza.

Sono stata Luigi Leonardi per tutti i giorni che mi sono serviti per leggere il suo libro “La paura non perdona“. Per tutti quei giorni in cui ho letto e riletto il suo libro, mentre ripercorrevo per scelta alcuni passaggi, facendomi sempre più male, sono stata Luigi Leonardi, sentendo su di me tutto il dolore, la paura, l’inquietudine, lo sconforto, lo sgomento, e poi il coraggio di un uomo che ha affrontato una vita diversa da come l’aveva immaginata, ma che non si è mai arreso, non si è mai piegato alle logiche che conducono un essere umano quasi sempre a fare le scelte più semplici, affinché si palesi una sorta di sopravvivenza indolore.

Il dolore, Luigi Leonardi, lo ha provato sulla sua pelle, nella sua esistenza, dentro il suo cuore. Poi lo ha fatto in mille e mille pezzi, lo ha fatto esplodere, scrivendo questo libro e lo ha donato ad ogni lettore affinché ne conoscesse i dettagli, affinché tutti si avesse contezza di come si può scegliere da che parte stare,  facendo i conti con la realtà che spesso ha i contorni di un incubo, e poi insegnando che ci si deve annientare a volte, per risorgere.

Cos’ha questo libro, dunque, in più o di diverso, da tutti quelli scritti in forma autobiografica da coloro che vivono come Leonardi, sotto scorta? Io li ho letti tutti, quindi posso rispondere con lucidità e cognizione di causa.

Intanto c’è una cosa che io sapevo già da tempo, ma adesso posso dirla con assoluta certezza.
Luigi Leonardi conosce l’arte della scrittura.
Sa scrivere meravigliosamente bene.
E’ un dono il suo, ed io sono contenta che abbia deciso di scrivere questo libro, perché leggere il suo modo di mettere insieme le parole è un vero piacere, oserei dire un privilegio.

Ma questo libro è bello anche per un altro motivo, forse il più importante.

Non è un libro romanzato. Non vi sono frasi d’effetto, non vi sono pezzi descritti ad arte per fare breccia nell’attenzione del lettore, non vi è la volontà di calcare la mano affinché si possa palesare una sorta di commozione. Quella arriva da sé, è così prorompente che ad essa ci si può solo arrendere. La bravura di Leonardi risiede nella capacità di raccontare la sua vita sin nei minimi dettagli, anche quelli più scomodi, ponendo il lettore sin da subito nella condizione di “farsi coraggio”, perché se non ne assumi alcune dosi, non ce la fai ad andare avanti nella lettura, non ce la fai ad arrivare alla fine. Ti dice tutto, Leonardi, ti sfida a conoscere la verità, quella che a volte fa così male che si fa finta non sia mai esistita, perché è più facile così.

E se nella vita vera, fuori dal libro, mai, neanche per una volta ho sentito Luigi Leonardi piangersi addosso per quella che è la sua vita sotto scorta, per le ingiustizie che ha subìto, per la sofferenza gratuita a cui è stato sottoposto, per il dolore che lo ha portato sul fondo, così nel suo libro è facile riscontrare tutta la sua personalità, il suo carattere, il suo coraggio.

Ma c’è anche altro.

C’è la sensibilità di un uomo che ha visto di tutto, che ha subìto di tutto, ma non si è mai incattivito; c’è la lucidità di chi sa che in alcuni momenti, il modo in cui agisci, decreta il giusto finale.

Questo libro è un racconto dettagliato di un imprenditore di successo, che vede la sua vita piegarsi sotto le richieste estorsive della criminalità organizzata. E il racconto di una esistenza che si sgretola quando incontra sulla propria strada la camorra, che viene giù a pezzi, che ti sotterra sotto un cumulo di macerie. E’ il racconto di un uomo che viene abbandonato e lasciato solo anche dalla sua stessa famiglia, che lo addita come “traditore” quando sceglie di denunciare, di fare la cosa giusta. E’ il racconto di ricordi che a volte sono così lontani ma così vividi da diventare taglienti, capaci di ferire. Ma Luigi è quello che si rimette sempre in piedi, che impara a soffrire e a trasformare quel dolore e tutte le delusioni che si susseguono, in una rivincita costante.

E’ un eroe dagli occhi belli, Luigi Leonardi, non è mai divo.
In molti lo diventano, sfruttando quella notorietà che inevitabilmente investe, quando si diventa un personaggio pubblico, quando si finisce negli articoli di cronaca e di approfondimento.

E’ un uomo che mette in fila giorni e ne disegna l’orizzonte, Leonardi.
Ha imparato a non arrendersi, anche quando lo Stato non ha saputo difenderlo per come avrebbe dovuto. Non ha mai gettato la spugna, non ha mai piegato la testa, non è mai sceso a compromessi … mai. L’ha inclinata all’indietro, a volte, la testa, per far scivolare via le lacrime, quelle che non si potevano mandare indietro, quelle che gli ricordavano di essere solo un uomo, davanti ad una macchina enorme e spietata chiamata camorra.

“La paura non perdona”, dice Luigi Leonardi dalle pagine del suo libro di cui consiglio vivamente la lettura.

Io leggendolo ho imparato che la verità deve contemplare anche i nostri propri errori, che quanto più guardiamo da vicino una cosa, tanto più perde potere sulle nostre paure. Ho imparato che la notte può essere assassina o madre, di quelle che danno la vita, senza rinnegare mai di averti messo al mondo.

 

Simona Stammelluti 

 

Ho letto davvero di tutto, in merito. Finanche descrizioni dettagliate del traffico cittadino, pur di non prendere una posizione netta, sul nuovo modo di fare musica di Thom Yorke, frontman dei Radiohead, in giro con il suo “Tomorrow’s Modern Boxes“, che ieri sera si è esibito a Roma nella cavea dell’Auditorium Parco della Musica.

Io non faccio fatica a dire con obiettività, che se non avete visto questo concerto, poco male, se invece non avete mai visto un concerto di Pat Metheny, forse sarebbe il caso di rimediare …  ed anche al più presto.

E adesso con calma vi dico perché questo concerto – al netto di alcune cose – non è destinato ad entrare nella storia.

Partiamo da un presupposto, ossia che un grande artista come Thom Yorke – perché tale è  – può permettersi tutto, anche il lusso di non piacere ad alcuni addetti ai lavori. In fondo non è difficile ricordare quanti grandi artisti, hanno presentato progetti che sono piaciuti ai fans, ma meno a chi fan non è, e dunque guarda ad un’opera con la lucidità di chi non deve per forza perdonare tutto al proprio idolo.

Thom Yorke è strepitoso. Questa è la prima cosa che va detta, a scanso di ogni equivoco e la sua voce, così delicata, sottile, ammiccante e intonatissima, sa sempre come lasciare un segno. Sembra solo, su quel palco, ma non lo è; insieme a lui, Nigel Godrich, produttore degli album dei Radiohead e un bravissimo Visual Artist olandese, che risponde al nome di Tarik Barri. Che ci fanno allora questi tre signori sul palco, se non vi è traccia in questa performance di ciò che è appartenuto al famoso gruppo?

Mi verrebbe da dire che chi come me è nato negli anni ’70, (Yorke è del 1968) non fa fatica a ricordare quello che accadeva nei primi anni ’90, nelle discoteche, quando la tecno dettava la moda, quando la musica nelle sale da ballo svisava verso la acid-house. Ecco, il muro di suono è più o meno quello. Il cantante fa un tentativo – a mio avviso non completamente riuscito – nel dimostrare di poter fare a meno di un gruppo. Campiona e riproduce tutti i suoni possibili, la base ritmica è completamente campionata, ogni tanto imbraccia la chitarra, altre volte – rare – siede al piano elettrico e dice al suo pubblico, con questa performance, che non c’è posto per la nostalgia. Non v’è traccia del repertorio dei Radiohead; viene proposto il repertorio di Thom Yorke solista. A prescindere se quel repertorio lo si conosca o meno, si fa fatica a capire dove finisca un brano e dove inizi l’altro, considerato che il ritmo scelto dal cantante, polistrumentista e compositore inglese è sempre lo stesso, i beat che battono non cambiano mai inclinazione.

Lui balla, è esagitato, balla a tempo, in quel ritmo sempre così serrato. Sembra di essere in una enorme discoteca sotto le stelle, di quelle tecno, nella quale però nessuno balla ma in tanti restano ipnotizzati. La sua voce è suadente, capace di non lasciare scampo al piacere che si nutre di quel suo essere così affascinante ed intonato. Suona la chitarra ammiccante, come se fosse uno strimpellatore di note a caso, e questa cosa mi è particolarmente piaciuta. Gli echi wawa sono suggestivi tanto quanto i  favolosi visual che sono la parte portante dello show di Yorke. I suoni e le immagini dialogano durante tutto il concerto. I Visual sanno essere morbidi e poi acidi, tenui e policromatici, eccitanti e meditativi. Ci sono tutti, e sono tutti stratosferici, ipnotici, convincenti.

E’ sicuramente una esperienza visiva e sonora di grande impatto. Yorke è a suo agio, e regge le due ore di concerto senza perdere un colpo. E’ generoso, Yorke, regala due bis. La scaletta la mette insieme un po’ come è sua consuetudine, ossia non regalando nulla che il pubblico si aspetti. Pesca nel suo repertorio da solista, in un excursus ampio dal 2006 al 2014, fino al suo ultimo disco “Anima” uscito pochissimi giorni fa. Non mi sembrava che i fans riuscissero a cantare qualcosa, ma sicuramente seguivano il pathos del loro beniamino, che sapeva come coinvolgerli.  Le mani erano spesso in alto, quasi come ad acclamare il loro messia. Questo è la dimostrazione di come quando si diventa un big, quando vi è un imprinting nel mondo della musica, ci si può permettere di sperimentare tutto quello che si vuole, perché la fedeltà si manifesterà sempre prorompente.

Parla in italiano, Yorke, forse facilitato dal fatto di avere una compagna italiana.  Ringrazia Roma, con la sua “siete straordinari, ci vediamo presto“. Nei bis Yorke regala “Suspirium” – colonna sonora del film remake firmato da Luca Guadagnino, e poi incanta seduto al piano elettrico con “Dawn Choruscon quella sua voce che chissà da quale meditazione arriva, ma finisce dritto dentro lo stomaco di chi ascolta e che chiude gli occhi per poi lasciarsi andare. C’è anche “Black Swan” tra i pezzi che esegue.

E’ tutto un filo conduttore, è tutto dentro un loop, che tiene tutto insieme, che porta la firma di un grande artista, che forse in quell’eccesso ha trovato la traduzione di ciò che di nuovo aveva da dire. O forse voleva dire solo che alla fine si finisce per immaginare tutto in quella dimensione tra fantascientifico e psichedelico, tra natura che diventa landa desolata e paesaggi lunari che restano ancora inesplorati.

Abbiamo visto tutto questo su quel wall, abbiamo sentito un progetto nuovo che ci vuole un po’ per capire se sia davvero efficace. Resta uno scenario artistico impalpabile, quasi sfuggente rispetto ad alcuni schemi, a tratti primordiale.

Ecco, c’è sicuramente una voglia di tornare indietro.

Ed io spesso ieri sera ho chiuso gli occhi, per fare un salto nel passato, ma lì, alla fine degli anni 80, non lo avevamo un artista pazzesco come Thom Yorke.

 

Simona Stammelluti

 

 

 

E’ stato e resterà il più grande nome della musica brasiliana, perché anche tutti i bravissimi che sono venuti dopo – Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa e Roberto Carlos – si sono ispirati a lui, e agli inizi lo hanno preso ad esempio, imitandolo.

Fu un genio della bossa nova, la samba che incontra il jazz e che riesce a far entrare la musica brasiliana, nella mappa musicale del mondo.

João Gilberto ha cambiato e modernizzato la musica brasiliana nel 1958 presentando al mondo il diverso ritmo, quella che fu la sua bossa nova che è stata una vera e propria rivoluzione in fatto di cadenza del samba sulle corde della chitarra, quelle cadenze ridotte al minimo, mentre tirava fuori un suono leggero, originale, armonioso e raffinato, agilissimo com’era a ritardi e progressi armonici.

E’ stato un grande musicista, e anche quando cantava, con quella sua voce così morbida e perfettamente calibrata, si comportava come un musicista. La lezione al mondo la diede con i suoi tre album, una sorta di “santissima trinità” della discografia brasiliana. Chega de saudade (1959),  O amor, o sorriso e a flor (1960) e João Gilberto (1961) . Sono questi i dischi in cui un genio diventa mito. In questi tre dischi c’è la sintesi del ritmo samba che esce da quella sua chitarra che evocava sempre il suono ritmico del tamburo di quel particolarissimo genere di musica.

João Gilberto era un perfezionista, e forse proprio questa ricerca della perfezione lo ha reso così geniale. Eppure ebbe un carattere molto poco socievole, un temperamento particolarmente distaccato nei confronti del mondo. Era nel silenzio della solitudine infatti, che metteva a punto le sue canzoni. Lui, che ha avuto in vita l’orecchio assoluto, e che sapeva ascoltare più di chiunque altro, e “sentiva” ciò che nessuno ha sentito mai, e per questo è riuscito a cambiare la musica brasiliana, divenuta eterna nel 1958 con lo spirito della bossa nova.

Questo è anche il motivo per cui Caetano Veloso ha ragione quando dice che, “meglio del silenzio, solo João Gilberto“.

Molti jazzisti hanno incrociato il loro cammino artistico con Gilberto. Pensiamo al sassofonista Stan Getz, ,che invitò Gilberto e Jobim a collaborare a quello che divenne uno degli album di jazz più venduti di tutti i tempi, “Getz/Gilberto“. Il disco consacrò a livello internazionale anche Astrud Gilberto, moglie di João , grazie alla composizione di Jobim, “The Girl From Ipanema“, che la fece diventare un’icona della musica internazionale pur non essendo dotata di particolari doti vocali. Fu quello un disco di una leggerezza spiazzante, un’anestesia dalla grigia quotidianità; la morbidezza ovattata del cool jazz dei Getz, coniugata al ritmo della samba, che dona un concentrato di musica calda, imbastita sulla tipica venatura malinconica carioca, che dà al lavoro un sapore agrodolce, rendendolo assolutamente accattivante.

Lui è andato via, a 88 anni, in un giorno di luglio, ma a noi restano Insensatez, Aguas de março, Desafinado, Rosa Morena; a noi resta una narrazione tecnica, imbastita sull’amore e che sa di eternità.

Simona Stammelluti 

Era il 26 marzo del 2018 quando il segretario provinciale del sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria di Bologna, scriveva al direttore della casa circondariale e alle autorità competenti tutte, per segnalare i tanti problemi legati alla gestione del Caseificio “Liberiamo i sapori” inaugurato nel 2016, grazie alla legge Smuraglia che concede alle imprese che investono nelle strutture penitenziarie, o che assumono detenuti, dei benefit fiscali.

Il progetto per la realizzazione del suddetto caseificio era stato realizzato anche grazie al cospicuo investimento del Ministero della Giustizia.

Nella segnalazione si evidenziavano le problematiche derivanti dal fatto che il casaro (persona non detenuta) lavorava  da solo, senza detenuti, e il personale di Polizia penitenziaria però, era costretto comunque a vigilare sulla attività lavorativa.

Inoltre l’accesso all’istituto avveniva spesso senza preventiva comunicazione, che invece era necessaria per consentire la giusta programmazione del servizio, costringendo il personale a fermarsi oltre l’orario di lavoro, e sovente a coprire più posti di servizio.

Ma non era tutto. Perché lo stesso personale era chiamato a gestire e a contenere gli effetti del crescente malcontento dei detenuti che lamentavano la mancata firma del contratto di lavoro e il mancato pagamento degli stipendi, le numerose ore di straordinario. Già qui ci sarebbe da chiedersi – se tutto ciò corrispondesse a vero – come sia possibile che all’interno  di una struttura detentiva, istituzione statale e presidio di legalità, possano tollerarsi simili gravissime inadempienze.

Fatto sta che tutto questo, accadeva oltre un anno fa. Ma lo scorso 29 giugno, il medesimo sindacato scrive ancora agli organi competenti, dopo aver appreso della chiusura dell’azienda casearia sita all’intento del carcere Felsineo.

Il SiNAPP evidenzia nella lettera, come da tempo il suddetto ordine si è occupato delle problematiche connesse alla cattiva organizzazione dell’azienda che, per logica di consequenzialità, ha avuto crescenti ricadute negative sull’organizzazione del lavoro dei Poliziotti penitenziari.

E pensare che proprio i Poliziotti penitenziari sono stati i primi a credere, nella fase iniziale, alla buona riuscita dell’attività, in un ambiente tanto particolare, dove il lavoro può davvero restituire speranza e dignità alle persone detenute e, conseguentemente, serenità e sicurezza per gli stessi Poliziotti.

Dunque l’enfasi iniziale, ha lasciato purtroppo il posto al fallimento del progetto.

Restano, pertanto, degli interrogativi e delle domande che attendono delle risposte, perché – come si legge nel comunicato –  il carcere non puo’ e non deve fabbricare carcerati, ma cercare di restituire alla società uomini riabilitati e, possibilmente, avviati ad una professione e/o un percorso di studio e di reinserimento.

Questa, una delle tante situazioni difficili che si consumano nelle carceri italiane, che seguiremo anche nei giorni a venire.

Di questo film, la storia di Federica Angeli – la giornalista di La Repubblica che ad oggi ancora vive sotto scorta perché minacciata dalla mafia di Ostia – avrebbe potuto benissimo farne a meno. Un film che non solo è privo di pathos ma che non rende assolutamente giustizia al coraggio della Angeli, al carattere della giornalista d’inchiesta e alla tenacia del suo vivere.

Un film quello di Claudio Bonivento, assolutamente didascalico, semplicistico, fatto di frame incollati; un’accozzaglia di momenti, messi insieme come se si dovesse portare a casa un compitino. Una Claudia Gerini nel ruolo della Angeli che probabilmente ha fatto del suo meglio, mentre mima una vita che è difficile da trasportare in un film se non sorretta da una sceneggiatura solida, e che invece in questo caso fa acqua, ha degli enormi buchi nel racconto, rendendo non credibili alcuni dialoghi, e banalizzando quelle situazioni drammatiche che hanno visto Federica Angeli sfidare, nella realtà, il clan degli Spada.

Pur conoscendo molto bene la storia della Angeli – sulle cui vicende ho scritto  tanti articoli, nella piena volontà di dare il giusto rilievo ai fatti, alla verità, alla vita della giornalista – mi sono immedesimata in chi quella storia non la conoscesse affatto. Anche la malavita è raccontata in maniera poco incisiva nel film e mi domando perché la Angeli, che ha collaborato alla stesura della sceneggiatura non si sia ribellata a quelle scene così misere, semplicistiche. Mi riferisco ai momenti clou della storia, quando per esempio viene sequestrata, minacciata di morte, e quando le viene intimato di lasciar perdere. E quello è uno dei momenti più toccanti che sono accaduti, quando la giornalista ha raccontato la sua vicenda nelle scuole, o durante i convegni. Momento toccante quando lo ha raccontato alle TV in innumerevoli trasmissioni.

Già il libro – che merita un plauso sicuramente perché è un documento di denuncia – mi era apparso particolarmente romanzato. E dunque questo finale – il film intendo – diventa un inutile tentativo di osannare la donna, non il suo ruolo nella vicenda. E se si pensa che il film è tratto da una storia vera, mi viene da dire che se ci fosse stato un “liberamente tratto” nei titoli di coda, sarebbe stato  meglio.

Il film ha l’aspetto di una fiction figlia di mamma Rai, di quelle da prima serata di fine stagione.
Il film non a caso è stato prodotto dalla società di produzione Laser Digital Film insieme a Rai Cinema. Le performance attoriali sono scarse, forse anche perché le parti assegnate non erano adeguate. Francesco Pannofino relegato in quattro battute nel ruolo del caporedattore, Francesco Venditti che interpreta il ruolo del marito della Angeli, che non convince neanche nella scena di sesso quando fa una sorta di “agguato” a sua moglie che rientra a casa tardi prima delle vicende che la renderanno nota alle cronache.  Lo stesso Mirko Frezza, sguaiato ma non credibile nel ruolo del boss.  E’ un film claustrofobico anche per i set che sono stati utilizzati, e per le luci.

Il film si svolge tra l’appartamento della Angeli, la redazione del giornale e il giardinetto dove i figli della giornalista sono soliti giocare. Non si vede cosa accade ad Ostia, non si vede Ostia. Una sola scena del mare e due passaggi, che dovrebbero raccontare la malavita: giornali bruciati ad una edicola e la richiesta del pizzo alla proprietaria di un bar che – non si può non notarlo – ha una somiglianza spaventosa con quella che è stata per molti anni, la sostenitrice numero uno della Angeli nella vita vera. La mafia ostiense, banalizzata con un film, per non parlare dei carabinieri che tentano di dissuaderla da sporgere denuncia verso chi l’ha minacciata di morte.  Non si vede la vita nella redazione, non si vede cosa pulsa nella città di Ostia, non si raccontano la paura, l’omertà, i giri spietati tra le fila dei colletti bianchi; insomma … mancano intere tappe che erano invece necessarie per la riuscita del film. La semiotica del testo filmico ridotta all’osso. Il film parte con una anacronia, una analessi a caso,  per poi tuffarsi in un incipit in medias res così banale da non essere credibile.

Neanche la fotografia è degna di nota. I colori sono cupi, i volti sempre per metà in ombra, ma non è certo quello che rende la suspense che, nella pellicola è pressoché assente. Non esiste un campo contro campo, è tutto realizzato in maniera statica, per non parlare della voce fuori campo che banalizza alcuni momenti che invece andavano sottolineati e messi in scena.

Chi conosce la Angeli non la riconoscerà mai in questo film.  Troppo perfettina come figlia, moglie, madre, che sta al posto suo in maniera mansueta quando le tolgono l’indagine, che ha coraggio sì, ma quasi con il freno a mano tirato. Lei, che invece è una che ruggisce, che le sue paure se le mette in tasca e che sa fare bene il suo lavoro e che è una determinata, che punta l’obiettivo, costi quel che costi.

Nel film non vi è traccia di quello che accade sui social, per esempio, dove molto di questa vicenda ha avuto corso, ma si da fa però una vera e propria sponsorizzazione all’associazione #noi che ormai segue e sostiene la Angeli da diversi mesi. Mi è sembrato fuori luogo anche il passaggio delle foto di famiglia (quella vera) alla fine del film come se si avesse necessità di ribadire che quella storia era la sua, proprio la sua, a scanso di equivoci.

Insomma,  A Mano Disarmata non appare un’opera all’altezza dello scopo che risiede senza dubbio, nell’impegno civile e nel documento di denuncia, circa una condizione che affligge molti giornalisti italiani ad oggi sotto scorta.

Simona Stammelluti 

La Sicilia.
Bella da togliere il fiato.
Terra di sole e di mare, di cibo buono e profumo di agrumi, di dolci e aria salmastra.
La Sicilia.
L’Etna, la Valle dei Templi, San Vito lo Capo, la riserva dello Zingaro, la Scala dei Turchi, il Teatro Massimo, Favignana, i faraglioni di Acitrezza, Ortigia, le Gole dell’Alcantara … e potrei continuare all’infinito.
La Sicilia.
La terra di Luigi Pirandello, di Leonardo Sciascia, di Giovanni Verga, di Ettore Majorana, di Renato Guttuso, di Vincenzo Bellini.
La Sicilia. 
La regione a statuto speciale, che in materia di autonomia e competenza esclusiva, contempla anche urbanistica e lavori pubblici.
La Sicilia, così bella che non mi meraviglio se un norvegese scelga di visitarla in lungo e in largo, decidendo, per esempio, di fare scalo all’aeroporto di Punta Raisi e, dopo essersi goduto a pieno la splendida Palermo, decida di prendere a noleggio una macchina e di fare un salto ad Agrigento nella Valle dei Templi.

Qui scattano due opzioni. O sto zitta, o parlo.
Facciamo che parlo, perché di stare zitta, davanti a tanto scempio, dopo averla percorsa quella strada, proprio non ci riesco.
La Palermo-Agrigento, non è una “strada a scorrimento veloce” come risulta sulla carta, ma è una condanna, una specie di missione, che costringe coloro che la percorrono ad imbattersi in un vero e proprio viaggio della fortuna. Ci vogliono circa 2 ore e tre quarti (se va bene) per percorrere 106 km.

Caro norvegese, che atterri a Palermo e vuoi vedere la Valle dei Templi, sappi che le due arterie  – la Strada Statale 121 e la Strada Statale 189 – sono collegate senza soluzione di continuità, e la tratta non è solo inadeguata per un eventuale traffico veloce, ma è un vero e proprio continuo cantiere a cielo aperto. Deviazioni, interruzioni, semafori, strade che si restringono e che impediscono un viaggio su strada che possa dirsi tale in un paese civilizzato. Perché se fossimo nei paesi del terzo mondo, allora si potrebbe anche far finta di niente, ma che nell’Isola più grande d’Italia, in una terra che del turismo dovrebbe farne il fiore all’occhiello e che dunque dovrebbe essere in grado di accogliere al meglio i suoi turisti, non è contemplabile che a tutt’oggi non siano stati completati i lavori di ammodernamento, rendendo dunque quella strada quasi impraticabile.

Quella come altre, si intende.

Per la serie che sai quando parti e non sai né quando né se, arriverai.

I grovigli di deviazioni, persi dai navigatori, semafori che tengono a bada un traffico selvaggio, ruspe ovunque e nessuna pompa di benzina; pertanto, caro norvegese, se sei a riserva, e speri di poter far rifornimento lungo il tragitto, sappi che rimarrai per strada.  Per non parlare della pericolosità di quella strada, di quei viadotti sospesi, che se rappresentano un percorso della fortuna di giorno, si immagini cosa possano diventare quelle strade di notte. C’è una viabilità difficile e poco sicura; ma c’è anche un calo di traffico veicolare, con ricadute – ovviamente – anche economiche sulle attività delle zone interessate dalla tratta.

Chi conosce quella tratta, la evita, dunque, fa percorsi alternativi. Ma il norvegese che non lo sa, la percorrerà in quelle condizioni. Ma a parte i turisti ignari, ci sono professionisti pendolari che devono fare quella strada tutti i giorni, destino che tocca anche a quelle persone che per motivi di salute (vedi i dializzati, i malati di cancro)  devono recarsi negli ospedali e quindi sono costretti ad affrontare questo scempio, perché di scempio si tratta.

E tu, crocerista che con le navi da crociera giungi a Palermo e pensi in un’oretta, di raggiungere la bella Agrigento, che so, per fare un bagno vicino alla Scala dei Turchi, sappi che non ce la farai mai, che è un sogno che dovrai archiviare e che dovrai farti  bastare la passeggiata a Via Maqueda a Palermo.

Chi ha la titolarità di quei lavori?
L’Anas, con il gruppo Cmc che ne ha in carico il progetto. Soldi non ce ne sarebbero per ultimare i lavori del maxilotto. Sarebbero previste numerose opere, in particolare una galleria artificiale, 5 nuovi viadotti, 12 svincoli, oltre ad interventi di restauro, miglioramento sismico e adeguamento di 16 viadotti e ponti esistenti. Ma ad oggi – come anche ieri e ieri l’altro, e come domani e quello ancora dopo – la situazione resta e resterà chissà per quanto così, sospesa nel nulla.

Eppure nel febbraio di quest’anno, attraverso una nota diffusa dall’Ansa,  il Gruppo Cmc in merito al caso della Palermo-Agrigento, dichiarava che sarebbero ripartiti i lavori. Era febbraio, siamo a giugno.

Viene da domandarsi perché questa situazione non rappresenti un’emergenza sul tavolo del governo. Un’avventura o una vergogna?

[E così tornando a casa, dopo aver attraccato a Villa San Giovanni, imboccata la Ex Salerno-Reggio Calabria, mi sono sentita come sulle strade della California]

 

Simona Stammelluti