Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 46 di 94
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Lo dico subito: A me, non è piaciuto.

Aveva ragione Fossati in quel 2 ottobre del 2011 quando da Fabio Fazio dichiarò che sarebbe uscito di scena, che non avrebbe più fatto dischi né concerti, che la sua carriera finiva lì, perché non aveva più nulla da dire. 

Non credo che potrei ancora fare qualcosa che aggiunga altro rispetto a quello che ho fatto fino ad ora” – disse.

Ed invece è tornato; sembrerebbe perché non capace di dire di no alla grande Mina, un po’ anche temendo un eventuale divorzio minacciato da sua moglie se non avesse accettato quell’allettante invito. E’ tornato Ivano Fossati, con un album senza titolo specifico. C’è solo un “Mina-Fossati“, due profili disegnati in copertina e 11 brani che sembrano troppo “scritti per l’occasione”. Sembrano scritti perché si doveva, senza particolare ispirazione, ma tant’è, considerato che era stato detto proprio dal cantautore diversi anni fa: “penso di non aver più altro da dire”. 

E allora cosa ha detto Fossati, in questo nuovo album?

Beh per chi conosce bene Ivano Fossati, per chi l’ha seguito in tutte e nelle tante fasi della sua carriera, e per chi come me l’ha amato e contemplato tra i migliori cantautori del secolo, si fa fatica a capire il senso di questo disco, del quale si poteva, forse, fare a meno.

Lui, che ci aveva abituati a brani come “L’orologio americano“, “Carte da decifrare“, “Questi posti davanti al mare“, “Notturno delle tre“, oggi ci costringe a godere(?) di pezzi nei cui titoli ricorrono parole come “luna, stelle, amore, noi due“. Insomma già nella scelta dei titoli non vi è la ricercatezza a cui Fossati in una vita di carriera ci ha abituati, così come ci ha abituati ad interrogarci circa quel che ci voleva dire, nel modo in cui ci consegnava un senso circa l’amore (cantato in maniera mai scontato)  o donandoci un affresco sul mondo, su come gestire un punto di vista, o sulle distanze. Ed invece in questo album le idee sono vaghe, con parole messe insieme spesso a forza e con rime improbabili come nel brano “Farfalle”: “il mio cuore intervistato adesso cosa ci dice, e risponde sono qui e per questo sono felice”.  E se “Nella barca di legno di rosa” passava una barca, qui passa un aereo. Ma è il significato racchiuso in quel “passare” che è completamente diverso, anzi dovrei dire distante.

In questo album non c’è nulla di veramente nuovo (inteso come sonorità) e ahimè neanche nulla di vecchio.
Non c’è la passionalità di Fossati, la melanconia struggente di amori che sembravano passati ma che ancora ardevano sotto le ceneri della distanza; in questo disco l’amore è cantato come se debba per forza assomigliare a qualcosa che fa fatica a compiersi … proprio come questo disco, che non convince fino in fondo.

Alcune dinamiche armoniche finiscono inevitabilmente lì dove ci furono capolavori del passato (la mano artistica quella è)  e la voce di Fossati si sposa bene con quella di Mina che resta una delle voci più belle di tutti i tempi per intensità, estensione, espressività. I gravi di Fossati sono affascinanti come sempre, e nel cantato si riconosce ancora una voluttuosità ed un piacere profondo. Buoni alcuni arrangiamenti, alcune sonorità  ricercate in strumenti solisti o in voci sintetizzate.  Fisarmonica, nuance di  R &B come nel pezzo “Ladro“, ma tendenziamente un album che si alza dentro una impalcatura sostanzialmente pop.

E a noi appassionati tornano in mente i ritmi reggae di “Panama“, gli arrangiamenti soul-jazz di “J’adore Venice“, e quel suo modo straordinario ed inconfondibile di saper andare sempre oltre e di poterci condurre ovunque. 

Se il senso di questo lavoro era dimostrare la grandezza dei due artisti, mi sembra un intento caduto un po’ nel nulla, se invece era l’unico espediente per risentire le voci dei due artisti, allora mi viene da dire che sarebbe bastato mettere su un vecchio disco, per goderne a pieno.

Si saranno sicuramente divertiti loro due, in questo disco, in fondo, che avevano da perdere? Due voci, che si incontrano, si incastrano spesso alla perfezione e poi il resto l’ha fatto l’orchestrazione di Celso Valli, che ebbi l’onore di conoscere a Sanremo nel lontano 1995.

Fossati è stato un gigante nella scrittura di testi, Fossati è stato quello che disse a De Andrè come rendere “Dolcenera” un capolavoro, ma che in questo album – sostanzialmente senza titolo – fa il compitino, ma senza particolare ispirazione. E forse, sarebbe stato meglio declinare l’invito, dire di “no”, e lasciare che ricordassimo quella carriera interrotta, come si confà con i grandi veri artisti, quando era giunto il tempo giusto.

 

 

Inaugurerà la stagione di prosa dello Spazio Diamante in Roma dal 22 al 24 novembre uno spettacolo di Vuccirìa Teatro (una compagnia quasi tutta siciliana)  produzione Fondazione Teatro di NapoliTeatro Bellini: BATTUAGE, drammaturgia e regia di Joele Anastasi, protagonisti: Joele Anastasi Federica Carruba Toscano, Ivan Castiglione, Enrico Sortino.

BATTUAGE, termine coniato per definire i luoghi battuti da persone in cerca di rapporti occasionali. Generalmente, si tratta di luoghi all’aperto o facilmente accessibili da un vasto pubblico, frequentati da singoli o coppie dedite allo scambismo. L’attività del “battere” si dierenzia dalla prostituzione in quanto non presume un rapporto sessuale a pagamento. Vespasiani, parchi cittadini, spiagge, cimiteri, cinematogra, parcheggi, aree di servizio. Non di rado però questi luoghi sono gli stessi frequentati da marchette, prostitute, transessuali che orono sesso in cambio di denaro.

BATTUAGE racconta il luogo in cui è morto anche il desiderio del desiderio. E’ un viaggio aperto all’interno dell’animo umano, declinato nella sua più estrema e profonda oscurità. Brutalità e bestialità si riversano in ogni angolo, scardinando l’ordine morale delle cose. Il popolo di questo luogo-non luogo ci viene raccontato attraverso gli occhi – deformanti – di Salvatore, un giovane lavoratore del sesso. Ma Salvatore, non è una vittima, non è costretto da nessuno. E’ l’esempio di un uomo disposto a tutto: a dissacrare quello che egli stesso ha elevato a sacro; a smantellare a piacimento i suoi valori, le sue idee, i suoi ideali.

Il sesso così diviene l’unico strumento di mediazione tra gli uomini, l’ultimo punto di contatto attraverso il quale fondare delle relazioni. L’universo che ne viene fuori è però uno spazio in cui si riversano mastodontiche solitudini che non vogliono altro che rimanere tali, il cui il desiderio è ormai evidentemente appiattito nello spasmodico sprofondare delle anime dentro se stesse. Il desiderio si tramuta quindi in un affanno distruttivo di quelle relazioni, conferendogli un significato assolutamente anti-sessuale: Il suicidio dell’eros.  Nell’indagine di questa viscerale contraddizione a cui è giunto l’uomo, si colloca quindi la ricerca drammaturgica di Battuage.

Lo spazio scenico diventa metafora del mondo che ospita piccole abitazioniorinatoio degradate: anonimi punti di ritrovo per anonimi esseri umani che abitano dei corpi che sono involucri di una decadenza comune. Un obitorio per vivi (?) occupato da 4 corpi, quelli degli attori che interpretano 8 personaggi, e che potrebbero bastare per raccontare l’umanità intera, incastrata dagli stessi depersonalizzanti meccanismi.  

BATTUAGE prova a raccontare lo sforzo, la deformità e la necessità di queste anime di rimanere ognuna saldamente attaccata a questa propria personale deformità per non auto-definirsi del tutto morte.

La storia di tutte le storie” è il racconto di un viaggio che Arlecchino, Pulcinella, Colombina e Balanzone compiono alla ricerca de ”L’Uomo che non c’è”. Durante il viaggio i quattro protagonisti saranno aiutati da Pierrot e da “Il Bambino sperduto”, mentre verranno ostacolati dai cattivi, Pantalone e Smeraldina. Il viaggio toccherà molte tappe: il paese delle paure, il mercato delle parole, l’ospedale, ecc. Arriveranno poi sulla luna e lì, vedendo il perfido Pantalone che imperversa sulla terra, decideranno di tornare indietro per contrastare la perfidia del loro avversario. Lo spettacolotratto da Gianni Rodari (adattamento di Attilio Marangon e Roberto Gandini), con la regia di Roberto Gandini,sarà in scena dal 21 novembre al 1 dicembre al Teatro India. Musiche di Roberto Gori. Protagonisti gli attori del Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli: Jessica Bertagni, Maria Teresa Campus, Fabrizio Lisi, Edoardo Maria Lombardo, Gabriele Ortenzi, Daniel Panzironi, Fabio Piperno, Giulia Tetta, Danilo Turnaturi.

Ci sono voluti 10 anni ma alla fine la giustizia e la verità si sono finalmente allineate.

Stefano Cucchi fu pestato da due carabinieri fino alla morte. Sono stati loro ad ucciderlo. E’ questa la verità sancita dalla Corte D’assise di Roma che arriva dopo 10 lunghi anni da quel 16 ottobre del 2009, quando il 33enne fu arrestato a Roma per droga e fu restituito alla sua famiglia senza vita dopo una settimana.

Sono stati riconosciuti colpevoli di omicidio preterintenzionale i due carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, nell’ambito del processo per la morte di Stefano Cucchi, morto nel reparto penitenziario dell’ospedale Pertini il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto.

Una pena di 12 anni per i due militari dell’Arma dei Carabinieri, inflitta dai giudici della Corte d’assise di Roma.  Assolto invece dall’accusa di omicidio preterintenzionale l’imputato-teste Francesco Tedesco, condannato a due anni e sei mesi per falso.

Tre anni 8 mesi per falso, inflitti al maresciallo Roberto Mandolini, ex comandante della stazione Appia,  che è stato però assolto dall’accusa di calunnia dopo che il reato è stato riqualificato in falsa testimonianza. Assolto dalla stessa accusa anche il carabiniere Vincenzo Nicolardi.

Assolto uno dei medici, prescritte accuse per gli altri quattro.

I giudici hanno inoltre assolto uno dei cinque medici imputati, Stefania Corbi, per “non aver commesso il fatto”. Prescritte invece le accuse per il primario del reparto di Medicina protetta dell’ospedale dove fu ricoverato il geometra romano, Aldo Fierro, e per altri tre medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Per tutti il reato contestato era di omicidio colposo.

Adesso Stefano potrà riposare in paceCosì Ilaria Cucchi subito dopo la sentenza.
Poi ha continuato: “Oggi ho mantenuto la promessa fatta a Stefano dieci anni fa quando l’ho visto morto sul tavolo dell’obitorio. A mio fratello dissi: Stefano ti giuro che non finisce qua. Abbiamo affrontato tanti momenti difficili, siamo caduti e ci siamo rialzati, ma oggi giustizia è stata fatta e Stefano, forse, potrà riposare in pace. Stefano non è caduto dalle scale, Stefano è stato ammazzato di botte. Questo lo sapevamo e lo ripetiamo da 10 anni”.

E poi ancora: “in questi 10 anni chi è stato al nostro fianco ogni giorno sa benissimo quanta strada abbiamo dovuto fare.Voglio ringraziare Fabio (l’avvocato Fabio Anselmo)  il dottor Musarò e il Dott. Pignatone, la Squadra mobile di Roma, tutte gli uomini e le donne in divisa per bene che insieme a me c’hanno creduto fino all’ultimo momento”

Il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri Giovanni Nistri dopo la sentenza: “Abbiamo manifestato in più occasioni il nostro dolore e la nostra vicinanza alla famiglia per la vicenda. Un dolore che oggi è ancora più intenso dopo la sentenza di primo grado che definisce le responsabilità di alcuni carabinieri venuti meno al loro dovere, con ciò disattendendo i valori fondanti dell’istituzione”. “Sono valori – riprende – a cui si ispira l’agire di 108mila carabinieri che, con sacrificio e impegno quotidiani, operano per garantire i diritti e la sicurezza dei cittadini, spesso mettendo a rischio la propria vita, come purtroppo testimoniano anche le cronache più recenti”.

Commozione per i genitori di Stefano, Rita e Giovanni Cucchi: “Avanti per la verità e la giustizia, lo abbiamo giurato sul corpo martoriato di Stefano. Questo è il primo passo e andremo avanti fino alla fine, ma oggi è già tanto e vogliamo ringraziare la procura di Roma e tutte le persone che ci sono state vicine”. 

Subito dopo la lettura della sentenza un carabiniere, visibilmente commosso, ha fatto il baciamano a Ilaria Cucchi. “Finalmente dopo tutti questi anni è stata fatta giustizia“, ha dichiarato il militare mentre accompagnava i genitori di Stefano Cucchi, anche loro commossi, fuori dall’aula di Rebibbia dove si è celebrato il processo.

 

Carismatico, intenso, un autentico fuoriclasse.

Questo è Archie Shepp, 82 anni suonati e ancora tanto da dare alla musica e al jazz.

Arriva sul palco dell’Auditorium Parco della Musica in Roma poco dopo le 21 a piccoli passi; i suoi anni si fanno sentire nella deambulazione, non certo in quello che è da sempre il suo famoso “soffio”. Il fiammante sassofono – poi si scoprono essere due – lo attende sul palco. E parte un applauso di oltre 5 minuti per accogliere il grande artista.

Indossa un elegante abito grigio e un cappello. Saluta, poi presenta i musicisti prima ancora di dar via  alla performance (cosa rara) e poi incomincia ad incantare.

Con lui sul palco musicisti stratosferici, Carl Henri Morisset al piano, Matyas Szandai al contrabbasso e poi colui che suona con Shepp da più di vent’anni,  Steve McCraven alla batteria, che durante il concerto delizierà il pubblico con un “clap handing and voice”.

Ottimo interplay tra Shepp e il suo quartetto, così come ben calibrati sono i dialoghi tra piano e il sassofono magico del leader. Su e giù per la tastiera Morisset che non si risparmia durante gli assoli e intreccia velocità nelle terzine e nelle scale.

Matyas Szandai suona spesso in loop accompagnando i virtuosismi del sassofonista ma quando gli viene concesso lo spazio per l’assolo le evoluzioni sono ampie e raffinate.

Se ti concentri solo su quello che sta accadendo sul palco di sembra di essere in un jazz club di New York e ti arriva in maniera travolgente tutto il bebop degli anni in cui Archie Shepp incarnava con la sua musica il cambiamento, l’avanguardia e l’impegno politico. Il suo è anche un linguaggio semantico e concettuale.

Durante il concentro i cambi di tempo all’interno dei pezzi sono sofisticati.

Suona un omaggio a Coltrane, “Four for Trane” con un suono corposo, vigoroso, pieno.

Canta, anche per il pubblico dell’Auditorium, il sassofonista virtuoso …  canta il blues. Suona anche il sax soprano, Shepp, oltre al tenore, modula, soffia e lascia andare quel fiato che a volte resta soffio e altre porta a compimento tutte le intuizioni armoniche e stilistiche del suo elettrizzante modo di suonare il sax tenore. 

Durante il concerto si viene investiti da quel suo modo di fare il jazz per nulla filosofico ma estremante concreto;  quel suo “qui e ora”, tra arcate armoniche mai ammiccanti e una strepitosa versatilità.

E’ un concerto fruibile, a tutto groove, un groove possente e scintillante.

Un concerto in cui convivono il soul, la bossa e il blues in maniera accattivante e nel quale le tonalità e i colori della musica di Archie Shepp, sono il segno distintivo del suo ruolo imponente nel mondo del jazz.

Dalle bacchette alle spazzole, e tutta leggiadria di Steve McCraven che usa il rullante e il bordo di esso con un tempo ed una precisione impeccabile sia nel bebop che nel blues.

È emozionante sentire Archie Shepp cantare, cantare in maniera profonda, ogni parola; un cantato rauco, graffiato, convinto ma mai sporco.

Ecco, la voce di Shepp ha una potenza e personalità, che anche due singole note qualsiasi portano l’inconfondibile marchio del suo stile. La sua tagliente eloquenza e la sua impetuosa lucidità, non lascia scampo all’ascoltatore.

Un solo pezzo nel bis per dire che c’è ancora un po’ di tempo per una serata di pura magia.
Applausi a scena aperta, lui che si inchina e poi a piccoli passi va via, lasciando la sensazione di aver assistito ad un concerto indimenticabile, in cui si è ascoltato “la leggenda”.

 

Simona Stammelluti

E’ tutto un pasticcio, di trama e di regia.
Volendo far passare che uno scrittore possa cimentarsi nel ruolo “anche” di regista, non si può accettare che un film tratto da un libro (il proprio libro) abbia una sceneggiatura scritta male, considerato che sarebbe bastato ricostruire i luoghi e trascrivere i dialoghi, che nel film “L’uomo del labirinto” nella sale in questi giorni, sono davvero improponibili e a tratti banali.

Se non fosse per il fatto che sono abituata ad “andare fino in fondo” probabilmente mi sarei alzata e sarei andata via dal cinema al settimo minuti di film, ma l’averlo visto tutto, fino in fondo, mi ha fornito i dettagli per dire perché questo film è brutto sotto tutti i punti di vista.

E’ un film con gravi difetti e ahimè Donato Carrisi non più agli esordi,  non può certo contare sull’indulgenza di pubblico e critica, e pertanto tocca dirlo che come regista è assai mediocre. E’ forse il destino che tocca a chi vuol far di più, e finisce per fare “di più e male”.

Lo scopiazzamento dal modo di fare i thriller all’americana, è completamente fallito. Donato Carrisi ci riprova e dopo “La ragazza nella nebbia” torna dietro la macchina da presa, improvvisando – è proprio il caso di dirlo – un ruolo che non gli appartiene, nel quale incespica e poi cade, clamorosamente. Il film è arriccioppato, pieno di frasi fatte, luoghi comuni, dialoghi miseri e con enormi buchi nella trama. La storia narra del rapimento di una ragazzina che viene liberata dopo 15 anni e mentre si cerca il rapitore, tra finti profiler e un investigatore privato che fa sembrare dei mentecatti quelli della polizia, ci si avventura (forse questo era l’intento certamente non riuscito) tra aspetti psicologici derivanti dalla ricostruzione di ricordi adulterati.

Vuole essere un thriller, un po’ horror, ma completamente privo di momenti di suspense; ma ancor più è un film privo di climax. Non è concesso allo spettatore di assistere a quel momento “alto”, quel crescendo, quel culmine, quell’acme che spetta di diritto ai gialli, ai film che prevedono un colpo di scena. Perché va detto che la vicenda che porta a scoprire che i rapimenti sono più d’uno e che a rapire non è un solo personaggio,  è affrontata come una zavorra e non con la dinamicità che spetta al genere.

Un film che non ha aspetti spazio-temporali precisi. Non si sa dove si sia, né in che epoca si svolgano i fatti. Un po’ all’americana anche questo, certo, ma fatto male. Anche perché fa ridere che ci siano mezzi nomi italiani, mezzi americani, un telefono di ultima generazione e un registratore con cassetta, luoghi in mezzo al nulla dove arriva una pizza e non si sa come, investigatori privati con caratteristiche italianissime e poliziotti con distintivi alla NPD.

Vien da domandarsi cosa ci facciano Dustin Hoffman e Tony Servillo, in questo film sconcluso e scialbo.
Hoffman – che non convince più di tanto malgrado la sua maestria recitativa – impersona una sorta di psicologo arrivato da chissà dove, che lo capisci alla seconda scena che è uno psicopatico, e Servillo – la cui bravura indiscussa salva la pellicola, pur non essendo il Servillo che abbiamo apprezzato nei film di Sorrentino – che diventa il protagonista assoluto del film nei panni di un investigatore privato che sta per morire e che per riscattare tutta una vita passata a recuperare crediti conto terzi, decide di dedicarsi alla ricerca del rapitore, stesso incarico per il quale era stato ingaggiato 15 anni prima senza occuparsene mai per come avrebbe dovuto. Nel ruolo della donna che viene rilasciata dopo tanti anni di prigionia, una Valentina Bellè che non convince e che sembra la caricatura di personaggi del cinema di Dario Argento.

Nel film si parla di “mostro”, anche se i rapitori alla fine non uccidono le donne rapite, quindi restano rapitori malati di mente, che utilizzano il labirinto come gioco perverso. Ma il vero labirinto è quello in cui finisce lo spettatore, mentre cerca di scappare ma non può, ed è quello di un film fatto male pieno di domande senza risposte. Bruno (Servillo) non va mai a trovare la ragazza che è stata ritrovata, perché? Cosa c’entra il prete morente con tutta la narrazione? A cosa serve ai fini della trama l’accenno al mondo oscuro degli ambienti religiosi? Qual è il legame tra il detective e la prostituta? Per non parlare del “limbo” una sorta di archivio di persone scomparse, che non si capisce né dove sia, né con quale criterio venga tenuto in vita. Alcuni dettagli del film sembrano davvero incollati così, senza farci troppo caso; peccato però che gli appassionati di thriller siano spesso spietati, molto più dei personaggi di Donato Carrisi.

E’ un film lento, troppo lento per essere un giallo psicologico, didascalico nell’intreccio degli eventi e dei pochi colpi di scena. Alcune battute sono così tanto prevedibili che le labbra ti si piegano in una smorfia.

Come mai non c’erano specchi?” – domanda tratta dal film .
Per evitare che la vittima potesse avere la percezione dello scorrere del tempo” – ti vien subito da pensare.
(E quella è la risposta, ovviamente).

C’è un accenno al mondo del fumetti, delle favole, ma è gestito male. Ci sono conigli che ricordano “Alice nel paese delle meraviglie”, fumetti che nascondono messaggi subliminali, personaggi che sembrano usciti da un cartone animato, ma senza un senso appropriato, all’interno della trama.

Non ho apprezzato neanche tanto la fotografia, che a mio avviso sbaglia i colori e crea un’atmosfera cupa e per nulla suggestiva.

Non avendo letto il libro mi astengo dal giudicarne la fattura, ma il riferimento che nella pellicola si fa a “Il suggeritore” (che invece ho letto) mi fa pensare che si sia voluto cercare una scorciatoia, per addrizzare il tiro, sul finale.

Chissà se Servillo e Hoffman sono andati a bersi una birra insieme durante le riprese, chissà se si sono rispettivamente chiesti cosa abbia convinto l’altro a prendere parte a questo film. Certo è che questa è la domanda che tutti gli appassionati di cinema si sono posti, all’uscita dalla sala oltre a “ma perché Carrisi non scrive libri e basta?”

 

 

 

Un concetto di teatro plurale e diversificato, aperto a tutti e accessibile a ciascuno, capace di proporre occasioni per riflessioni su temi di grande attualità. Tutto questo e molto altro sarà la stagione 2019|2020 del teatro Spazio Diamante in Roma. In questo complesso cantiere teatrale e culturale, le proposte della stagione di prosa, danza e musica hanno un peso specifico fondamentale. La stagione sarà idealmente divisa in tre sezioni:

 

Spazio Diamante / Teatro

Un progetto sostenuto fortemente da Alessandro Longobardi, direttore artistico dello Spazio Diamante. “Lo Spazio Diamante – afferma Longobardi – giunto alla sua terza stagione, potrebbe rientrare nella categoria dei teatri OFF tuttavia è qualcosa in più e assolve al suo ruolo di avamposto culturale nell’area adiacente al Largo Preneste, che segna uno dei limiti della vivace area multietnica fra il Pigneto, Tor Pignattara, Quadraro, Centocelle.  Da questi luoghi parte un’onda di energia creativa che sta contagiando i giovani e non solo. Assistiamo al passaggio di un pubblico teatrale qualificato alla ricerca di un’offerta artistica contemporanea espressa nei linguaggi della danza, musica e del teatro. Lo Spazio Diamante ha un coordinamento artistico composto da Alessia Gatta per la danza, Fabio De Marco e Valerio Mirabella per la musica, Eleonora Di Fortunato, Alessandro Machia, Giampiero Cicciò (che ha curato l’apertura della stagione con la terza edizione del festival inDivenire) e il sottoscritto per il teatro. Questo Spazio culturale è organizzato da OTI-Officine del teatro italiano”.

 

Spazio Diamante/ Danza

La sezione dedicata alla danza contemporanea, per il secondo anno consecutivo sarà coordinata dalla coreografa Alessia Gatta, ed ha come obbiettivo quello di dare spazio a forme e linguaggio differenti tra di loro. “Il palcoscenico del Diamante è pensato come contenitore di ricerca e cambiamento – afferma Alessia Gatta – e come luogo di scambio per coreografi nazionali e internazionali. Con una forte volontà di formare e incrementare un nuovo pubblico, la stagione danza indaga la contemporaneità e lo Spazio Diamante si afferma nel quartiere come teatro dedicato alla danza d’avanguardia, dove gli opposti si incontrano”. 

 

Spazio Diamante / Musica

Fabio De Marco è l’ideatore della sezione musicale. “La stagione musicale dello Spazio Diamante – spiega Fabio De Marco – si avvale della collaborazione con realtà importanti come DNA concerti, agenzia che opera su scala nazionale da più di vent’anni, e Unplugged In Monti, realtà romana che da anni organizza concerti a Roma e che ha scelto Spazio Diamante come nuova casa. Diversi saranno i nostri ospiti: dai tedeschi Notwist a Matt Elliott passando per gli italiani Giardini Di Mirò, che per l’occasione presenteranno uno show esclusivo in compagnia di Robin-Proper Sheppard (titolare del progetto Sophia). Ma il primo concerto che seguirà la scia di Tiny Ruins, artista australiana che ha inaugurato la stagione lo scorso 16 ottobre sarà quello di Laura Gibson che si esibirà allo Spazio Diamante nella sua unica data italiana il prossimo 13 novembre. Un’unica coerenza, la scelta della qualità, per far vivere anche di musica oltre che di teatro e danza questo piccolo ma splendido teatro di Roma Est”.

I concerti per la sezione Spazio Musica Diamante avranno inizio il 13 novembre con LAURA GIBSON, 19 e 20 novembre THE NOTWIST, il 25 novembre MATT ELLIOT, il 2 dicembre

GIARDINI DI MIRO’ con special guest SOPHIA.

La stagione di prosa sarà inaugurata dal 22 al 24 novembre con uno spettacolo di Vuccirìa Teatro, produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini: BATTUAGE, drammaturgia e regia di Joele Anastasi, protagonisti: Joele Anastasi Federica Carruba Toscano, Ivan Castiglione, Enrico Sortino. Battuage, termine coniato per definire i luoghi battuti da persone in cerca di rapporti occasionali. Il popolo di questo luogo-non luogo ci viene raccontato attraverso gli occhi – deformanti – di Salvatore, un giovane lavoratore del sesso.

 

Il 26 e 27 novembre doppio appuntamento con le matinèe dei i ragazzi della Compagnia di San Patrignano.

Dal 28 novembre al primo dicembre sarà in scena SERATA GENET di Jean Genet; due testi: Splendid’s progetto visivo e regia Gianluigi Fogacci e Stretta Sorveglianza, progetto visivo e regia di Alessandro Averone. La banda della Rafale, o banda della raffica, che al settimo piano del Grand Holtel Splendid ha sequestrato e ucciso la figlia di un miliardario americano, si è formata in carcere, e in carcere tornerà dopo che l’assedio della polizia la costringerà ad una rocambolesca resa…Protagonisti: Andrea Nicolini, Simone Ciampi, Laurence Mazzoni, Sebastian Morosini Gimelli, Domenico Macrì, Michele Maccaroni, Gianluigi Fogacci, Giovanni Longhin.

 

TRAPANATERRA -Tornare per non restare, ideato da Dino Lopardo sarà in scena il 7 e 8 dicembre; in scena Dino Lopardo e Mario Russo. Trapanaterra è un’Odissea meridionale, una riflessione sul significato di «radice» per chi parte e per chi resta, un’ironica e rabbiosa trattazione dello sfruttamento di una terra.

 

Il 21 e 22 dicembre è la volta di #LUCCISANODICECOSE, è uno show giovane e giovanile che mette sul palcoscenico tutti i monologhi di Emiliano Luccisano, più apprezzati sui social. Ad accompagnarlo il musicista Alessandro Lozzi.

 

Dal 10 al 12 gennaio, Teatro Segreto presenta: IL MOTORE DI ROSELENA, da un’idea di Gea Martire, drammaturgia di Antonio Pascale, con protagonista una strepitosa Gea Martire. Costumi Carlo Poggioli. Storia in forma monologata dell’emancipazione di Roselena, nata e cresciuta dietro al Vesuvio. C’è chi si sogna in abito da sposa, chi in tailleur manageriale, lei una tuta da pilota.

 

La CLEOPATRA di Gianni Guardigli, spettacolo messo in scena ed interpretato da Carmen Panarello, sarà in scena il 18 e 19 gennaio. La Cleopatra in questione è una donna di Rimini, proprietaria dell’Hotel del Lido che ha ereditato dal padre. Ai tavolini del caffè aveva già incontrato Munir, con cui intreccia un legame d’amore. Munir, profondamente legato alla sua patria, non riuscirà purtroppo a non ritornarvi, sognandone un riscatto democratico.

 

Dal 24 al 27 gennaio è la volta del Teatro Litta – Produzione MTM Manifatture Teatrali Milanesi, con IL VENDITORE DI SIGARI, di Amos Kamil. Protagonisti: Gaetano Callegaro e Francesco Paolo Cosenza; regia Alberto Oliva. Nella Germania appena uscita dalla guerra, tutte le mattine alla stessa ora, due uomini si incontrano: un professore ebreo che vuole partire per fondare lo Stato di Israele e il proprietario di una tabaccheria, dall’aspetto tipicamente tedesco. Sono sopravvissuti alla tragedia che ha appena sconvolto e quasi annientato un popolo intero.

 

Doppio appuntamento allo Spazio Diamante con lo straordinario talento di Elena Arvigo. Dal 7 al 9 Febbraio, ci condurrà per mano in 4:48 PSYCHOSIS, di Sarah Kane, regia di Valentina Calvani, musiche originali Susanna Stivali. Questa lettura di 4:48 Psychosis non vuole essere uno spettacolo sulla follia ma uno spettacolo luminoso, un inno alla vita, nonostante la consapevolezza del suo essere effimera e sfuggevole. Dal 13 al 15 marzo invece Elena sarà protagonista di I MONOLOGHI DELL’ATOMICA, tratto da “Preghiera per Cernobyl” di Svetlana Aleksievich e da “Racconti dell’Atomica” di Kyoko Hayashi, è uno spettacolo omaggio a due pagine tragiche e importanti della nostra storia: il 9 Agosto 1945 viene lanciata la bomba atomica su Nagasaki, il 26 Aprile 1986 scoppia la centrale nucleare di Cernobyl. Entrambi gli spettacoli sono una produzione Santarita Teatro e Teatro Out Off.

 

15 e 16 febbraio sarà la volta di UN BRANCO DI CANI SCIOLTI, opera diretta ed interpretata dalla Compagnia Stabile del Teatro da Camera di Roma “Pacelli”.I tre figli di Jeffe Ganzini, vengono convocati dal padre nella casa di famiglia un’ultima volta. L’uomo infatti è gravemente malato e li avrebbe radunati per comunicare loro le sue ultime volontà.

 

Dal 20 al 23 febbraio e 27 febbraio al 1° marzo sarà in scena una produzione Pupi e Fresedde-Teatro di Rifredi Centro di Produzione Teatrale Firenze: TEBAS LAND di Sergio Blanco, con Ciro Masella e Samuele Picchi. “Tebas Land” è un’opera del drammaturgo franco-uruguaiano Sergio Blanco, uno dei più originali e innovativi drammaturghi apparsi recentemente sulla scena internazionale. Blanco ha scritto “Tebas Land” ispirandosi al leggendario mito di Edipo, alla vita del martire San Martino e a un fatto di cronaca giudiziaria, immaginato dallo stesso Blanco, il cui protagonista è un giovane parricida di nome Martino.

 

Dal 19 al 22 marzo debutterà una produzione Teatro Menotti – TieffeTeatro Milano: UCCELLI di Aristofane, adattamento e regia Emilio Russo, con Camilla Barbarito, Giuditta Costantini, Nicolas Errico, Ludovico Fededegni, Claudio Pellegrini, Claudio Pellerito, Giulia Perosa, Maria Vittoria Scarlattei, Chiara Serangeli. Aristofane nella Grecia del 414 A.C., mentre il suo mondo si sgretola tra guerre e scontri ideologici e generazionali, riesce a fermare il tempo, a cercare una via di fuga nell’immaginario, a disegnare un impossibile mondo possibile.

 

ORPHANS di Lyle Kessler, sarà invece in scena dal 26 al 29 marzo, protagonisti Edoardo Trentini, Vincent Papa, Mattia Fiorentini, regia di Danny Lemmo. Roma, quartiere Ostiense, 1985. In una casa fatiscente vivono due fratelli orfani: Filippo è sensibile, solitario, e non si avventura mai fuori casa, mentre Felice, un violento ladro borseggiatore, rapisce un misterioso uomo di mezza età di nome Aldo. Presto l’inatteso cambia le carte in tavola.

 

QUARTETT di Heiner Muller, regia di Alessandro Mormorini, protagonisti Cristina Golotta e Roberto Negri, sarà lo spettacolo in scena da 3 a 5 aprile. Quartett è uno dei testi più celebri e controversi della produzione di Muller, uno dei padri di quello che oggi viene chiamato “teatro postmoderno” o “post-drammatico”.

 

Il 18 e 19 aprile debutterà IL CIRCO CAPOVOLTO di e con Andrea Lupo, dall’omonimo romanzo di Milena Magnani, regia Andrea Paolucci. Due storie parallele ma strettamente intrecciate, quella di Branko e quella di suo nonno Nap’apò, due generazioni di rom in questa Europa in cui le etnie nomadi hanno vissuto e vivono ancora vite separate, vite “a parte”. Una produzione Teatro delle Temperie.

 

Attesissimo appuntamento dal 24 al 26 aprile con una produzione Teatro dell’Allodola – Le Irriverenti: BOSTON MARRIAGE di David Mamet, con Monica Faggiani nel ruolo di Claire, Valentina Ferrari in quello di Anna e con Maria Sofia Palmieri nel ruolo di Catherine. Regia di Arturo Di Tullio. Un salotto borghese di fine 800. Anna e Claire si ritrovano dopo una lunga separazione. Un tempo si sono amate. Ora ciascuna vuole qualcosa dall’altra. Ma i rispettivi desideri sono incompatibili.

 

Conclude la sezione teatro dal 19 al 24 maggio, lo spettacolo LEGGITTIMA DIFESA – Nutrimenti Terrestri di Laura Giacobbe, per la regia di Roberto Bonaventura. La scrittura di Legittima Difesa, riguarda un’idea maturata molto tempo fa, quando la circostanza di un rapinatore in casa appariva come un valido pretesto teatrale, uno zoom potente sull’umore nero che bolliva nel ventre del Paese. Uno spettacolo di Nutrimenti Terrestri con il sostegno del MiBACT e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa “S’illumina – Copia privata per i giovani, per la cultura”.

 

Da non perdere gli appuntamenti con gli spettacoli vincitori del festival inDivenire. Il 15 gennaio

sarà in scena lo spettacolo vincitore per la sezione TEATRO LAZIO: IL VAMPA scritto e diretto da Enrico Maria Carraro Moda, con Larissa Cicetti e Enrico Maria Carraro Moda; produzione I Nani Inani. L’1 e il 2 febbraio sarà la volta dello spettacolo vincitore nella sezione TEATRO: ION, presentato dalla compagnia Collettivo I.T.A.C.A., drammaturgia e regia Dino Lopardo, con Alfredo Giovanni Tortorelli, Andrea Tosi. Il 4 e 5 marzo sarà in scena lo spettacolo vincitore del Premio del Pubblico: MNEMOSINE di Doron Cochavi, Luigi Saravo, con Cristian Giammarini, Daniele Santoro, Doron Kochavi, Claudia Vegliante, Chiara Felici, Beatrice Olga Valeri, per la regia di Luigi Saravo. Il 28 APRILE sarà la volta del vincitore del miglior progetto danza: BISBIGLIATA CREATURA_STUDIO SULLA FRAGILITÀ (Compagnia Celia/Sità).

 

Per la sezione Spazio Danza Diamante, la stagione avrà inizio il 15 e 16 novembre con TIME TO JACK di House To Be; dall’omonima traccia del 1985 di Chip E. Htob si propone sulla scena romana con un evento completamente dedicato alla House culture: musica, danza ma non solo, un momento di scambio e aggregazione sociale e culturale imperdibile: 12 coreografi, 5 guest, 5 dj, 10 ore di musica, dance theatre, workshop, jam session, battle party. Il 6 dicembre sarà di scena ROMANZA – trittico dell’Intimità di Cie Twain physical dance theatre direzione artistica, coreografia e regia Loredana Parrella, progetto per due interpreti Yoris Petrillo, Elisa Melis. BODY THING della Compagnia Collettivo Trasversale, con la coreografia Macia Del Prete, sarà in scena il 17 gennaio. Il 31 gennaio, sarà la volta di L’UOMO DAL CERVELLO D’ORO, regia e coreografia di Alessia Gatta, drammaturgia di Marco Angelilli, musiche di Mokadelic, visual artist Viola Pantano, disegno luce Daniele Davino, interpreti [Ritmi Sotterranei] Contemporary Dance Company. Il 14 febbraio sarà in scena CONVERGENZE con i danzatori di E.sperimenti Dance Company, coreografie di Federica Galimberti. La sezione danza si concluderà il 17 aprile con la prima nazionale di ACID ABLA, autrice e performer Ambrita Sunshine, drammaturgia Claudia Bonsi, musiche Lady Maru, visual Loredana Antonelli, grafiche Chiara Di Meglio, foto Alberto Guerri, produzione Compagnia Atacama.

 

Serata evento il primo novembre con l’anteprima dello spettacolo LA PICCOLA BOTTEGA DEGLI ORRORI, testi e libretto di Howard Ashman, musiche di Alan Menken, con Giampiero Ingrassia nel rulo di Seymour, Fabio Canino nel ruolo Mushnik, Belia Martin nel ruolo di audrey, e con la Drag Queen Velma K nel ruolo di Audrey 2 e Emiliano Geppetti nel ruolo di Orin Scrivello. Scene Gianluca Amodio, costumi Francesca Grossi, coreografie Luca Peluso, direzione musicale Dino Scuderi, adattamento e regia Piero Di Blasio. Lo spettacolo è realizzato con il sostegno della Regione Lazio.

 

Fari puntati anche su I CLASSICI DEL SECOLO FUTURO, I “Classici del secolo futuro” – Quattro riscritture senza paura” un progetto teatrale firmato Accademia Stap Brancaccio. Il format è ideato dal direttore artistico dell’Accademia di recitazione, drammaturgia e regia Lorenzo Gioielli e prodotto da Sala Umberto grazie al suo direttore artistico Alessandro Longobardi. La rassegna si basa su un percorso di riscrittura contemporanea di autori classici del teatro.Quattro spettacoli interamente scritti e interpretati dagli allievi del terzo anno dell’Accademia Professionale Stap Brancaccio provocati e sostenuti dai docenti e dalle molte esperienze creative vissute nel triennio. Irriverenti e vitali, nel rispetto non cieco ma attivo di quello che ci hanno lasciato e di come possono parlare alle nuove generazioni, i Classici del secolo futuro hanno come obiettivo quello di restituire al pubblico il nucleo pulsante e vivo del concetto stesso di “classico”, opere imprescindibili che raccontano l’umanità. Il tutto nel rispetto di un teatro sinceramente popolare, giovane, emozionante.

“Quando uscì “Storia di un impiegato” era il 1973. Quello era il sesto concept album, scritto ancora una volta con Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani. Quando uscì, insomma, successe una cosa che non era mai accaduto prima: Fabrizio De Andrè voleva bruciare il disco. “Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile; so di non essere riuscito a spiegarmi” – diceva in una intervista al Corriere della Sera nel gennaio del 1974. Questo disco – il cui titolo già suggerisce l’esperienza che si andrà a fare – come dirà lo stesso Nicola Piovani in uno speciale su De Andrè, sarebbe potuto diventare un film, un romanzo, un’opera teatrale. C’è infatti al suo interno tutta la semiotica del testo: l’approccio narratologico, gli elementi di testualità, un patto finzionale inserito in un mondo possibile, e il tipo di narratore. Storia di un impiegato è la storia di una ribellione, sognata, tentata, fallita e infine paradossalmente riuscita. La rivolta di un impiegato, simbolo di una mediocrità borghese, quella italiana degli anni ’70, in cui lo spirito rivoluzionario del ‘68 sopravviveva in azioni anarchiche individualistiche e irrimediabilmente sterili. E’ questa, un’opera anarchica, individualistica, ma anche piena di possibilità e di passione, e dunque vincente. Un impiegato, ascolta dopo 5 anni, una canzone del Maggio francese 1968 sulla grande rivolta collettiva nata nell’ambito studentesco” – [Tratto da “I significati dell’orecchio; Sulla prosodia in Fabrizio De Andrè” di Simona Stammelluti]

Nel 1973 Cristiano De Andrè aveva solo 11 anni e per padre il grande cantautore, le cui passioni erano inghiottite dalla dolcezza e dalla paura. Essere il figlio di Fabrizio De Andrè non è semplice nella misura in cui per tutta la vita ci si confronterà con chi si è amato, con chi è stato maestro e mentore, con chi ha lasciato in eredità una mutazione linguistica, armonica e sonora, che non nasconde, anzi mette in luce, una volontà di disegnare e descrivere e raccontare, un’identità spesso ingombrante, ma con il fine ultimo non solo di resistere, ma anche di insegnare a fare altrettanto, mentre nello scorrere del tempo c’è il niente che avanza e i tradimenti sono nascosti proprio dietro l’angolo, raccontati nelle sue canzoni che nell’arco di tempo di una carriera, sono riusciti a divenire microdrammi, messi in scena da marionette ideofore , perenni portatrici di un’idea, di un possibile cambiamento, e di una ricerca musicale e stilistica che diventa, con il cantautore genovese, assolutamente indispensabile.

Ieri sera nell’ambito della rassegna “Festival D’Autunno”, è andato in scena presso il Teatro Politeama di Catanzaro, il concerto “De Andrè canta De Andrè – storia di un impiegato”, concerto in cui Cristiano De Andrè lavora intorno al concept album di suo padre, con una veste nuova, riarrangiando – insieme a Stefano Melone – quelli che sono stati i passaggi fondamentali di quell’importante e per nulla facile lavoro discografico.

La prima cosa che si apprezza di questo lavoro è che Cristiano, ottimo polistrumentista non ricalca suo padre, sfrutta la sua personale vocalità (simile a tratti a quella di Faber) mostrando una presenza scenica d’impatto, che mancò al grande Fabrizio.  Un’eredità artistica, dunque, ma anche una propria personalità musicale, che arriva prorompente da un concerto concepito in chiave rock, con 4 musicisti di caratura e con degli allestimenti di scena degni di nota, con pannelli verticali che serviranno durante la performance a proiettare spezzoni di film, di documentari e di immagini di proteste e lotte; Arriva sul palco e tra gli applausi è subito “Canzone del Maggio”. I ricordi, le parole che scorrono dentro la testa e nella consapevolezza delle intenzioni con cui fu scritta, quella canzone e la capacità di Cristiano di portare lo spettatore, dritto nel brano “La bomba in testa” con un bel loop elettronico di sottofondo e la sua chitarra acustica che suona, mentre interpreta quelle parole “la fiducia nelle proprie tentazioni, allontanare gli intrusi dalle nostre emozioni”. 

Suona benissimo il violino, Cristiano De Andrè, con cui ricama i pezzi, arrangiati con attenzione ed intensità. Ci sono momenti durante il concerto, quando Cristiano siede al centro del palco, imbracciando la chitarra, in cui non si può fare a meno di chiudere per un attimo gli occhi e rivivere i momenti in cui al centro del palco vi era suo padre. Eppure questa emozione trasbordante, non toglie importanza alla performance di Cristiano De Andrè che sfoggia non solo una voce intonatissima e calda, ma anche un carisma, cresciuto nel tempo e divenuto un dettaglio di quella personalità artistica che dà lustro a tutto il progetto musicale.

Il bombarolo” arrivava con un arrangiamento intrigante, con un ritmo allegro e cadenzato, con il violino di De Andrè che  interviene alla fine della seconda strofa e abbellisce il filo narrativo.

Cristiano suona le chitarre, il bouzuki, il violino elettrico e poi con la stessa disinvoltura siede al pianoforte, capace di creare una straordinaria atmosfera che coinvolge e che a tratti commuove come quando intona “Verranno a chiederti del nostro amore“, pezzo imperniato sul concerto del carcere, del ruolo della donna che, intervistata, ripensa al rapporto passato e teme per il futuro. Cristiano canta questa poesia, nota su nota, attraverso un arrangiamento asciutto che scivola dentro il significato del pezzo.

E’ una ballata “Il testamento di Tito“, De Andrè suona la chitarra, i suoi musicisti portano il tempo con le mani, il batterista suona cassa e charleston e poi il reef si apre durante quello che fu per Fabrizio De Andrè una vetta poetica.

Parla al suo pubblico, Cristiano, saluta, è emozionato, spiega perché quel concerto ha avuto vita; è un modo per arrivare anche a chi non ascolta la canzone d’autore. I brani sono psichedelici, rimessi a nuovo ma trattengono in sé il senso di quella che fu la passione e la missione di Faber: raccontare come non esistono poteri buoni, che l’anarchia è intellettuale, dunque non politica ma dello spirito, che se fai qualcosa per qualcuno senza volere nulla in cambio, dopo stai molto meglio. “La poesia e i testi di mio padre, possono coinvolgere e farci tornare alla nostra anima, quella che ci conosce più di tutti, che possiamo interrogare, se sappiamo come alimentarla“.

Per Cristiano De Andrè quel concerto è una sorta di “messa laica”, e lui è il predicatore. Ho molto apprezzato quella immagine. Perché se è vero che per noi che siamo cresciuti all’ombra della musica di Faber e che lo consideriamo “sacro” nella accezione di importante, profondo, estatico, l’essere laici, nella maniera in cui la musica traghetta un sentimento nelle molteplici sfumature del vivere, che sono spesso crude e crudeli,  il senso di “messa laica” assume il significato di unione dentro la stessa intenzione. E non dimentichiamo che Fabrizio De Andrè realizzò un vero e proprio “miracolo laico” nato dall’incontro e dall’incastro con Mauro Pagani, in quel viaggio fatto di strumenti, di percussioni e di voci.

Abbandonato l’album “Storia di un impiegato” il viaggio continua con “A cimma“, la tarantella di “Don Raffaè“, per poi piombare in un arrangiamento silenzioso e quasi ecclesiastico de “La domenica delle Salme” con le due chitarre che sottolineano poesia ed emozioni.

Sul widiwall passano immagini di molti politici italiani e stranieri, le immagini del film “La grande abbuffata” di Marco Ferreri, e tutto ciò che serve per mettere in rima – così come fece Fabrizio De Andrè sin dai suoi esordi – quell’andare in “direzione ostinata e contraria”.

Amore che vieni, amore che vai” mi è parsa – dal punto di vista musicale e di pathos – una delle più riuscite, nella performance di ieri sera. Ho molto apprezzato come sono calibrati gli strumenti che accompagnano la performance; un ottimo interplay, un’ottima base ritmica, gli effetti in loop alle tastiere, un sinergia acustica esaltante.

Durante “Quello che non ho“, a Cristiano gli si rompe la corda della chitarra, ma ce ne accorgiamo solo noi seduti in prima fila, perché con quell’arrangiamento ipnotico e rock, tutto scorre, travolgendo.

Un excursus nella carriera e nelle intenzioni di Fabrizio De Andrè.; “Fiume Sand Creek“, “Creuza de ma“, in genovese, con Cristiano che suona il Bouzuki, i cori e una grande “A” che svetta nello schermo alle sue spalle.

Nel finale “Il pescatore“, momento nel quale quando Cristiano ha fatto vibrare letteralmente quel suo violino elettrico, così come faceva nei concerti di suo papà mi è tornato alla mente il perché scrissi una tesi su Fabrizio De Andrè. Quel motivo era che le sue storie, tutte vere, i suoi suoni del sud tutti magici, erano capaci di farti auto-isolare, e poi ancora l’indifferenza verso il potere, appagante e travolgente, erano la sua morale, ed anche un po’ la mia; quella morale che non ha avuto mai bisogno della retorica per colpire dritto in faccia, o in fondo al cuore, o ancora fin giù nello stomaco, esattamente dove è arrivato suo figli Cristiano, ieri sera, dimostrando di essere stato quel “tempo implicito” di un discorso ancora tutto da raccontare.

 

Simona Stammelluti   

 

Non è un elogio, né una celebrazione alla grandezza di colui che fu il “più tenore al mondo“, dopo Caruso. Anche perché non sarebbe stato necessario. La grandezza dell’artista parla ancora dalle opere che ha cantato, dai dischi che ha inciso, dalle immagini di repertorio.

Il documentario “Pavarotti” realizzato e diretto da Ron Howard è un racconto capace di arrivare alle masse, anche a chi conosce il personaggio e poco l’opera. Perché la cosa bella che vien fuori da questo lavoro – che è stato nelle sale dal 28 al 30 di ottobre – è la capacità del grande tenore di riuscire a divenire un ponte; quella capacità di unire, di spalancare le braccia verso il mondo, per poi richiuderle tenendo insieme l’arte e le emozioni che produce quando è eccelsa.

Un Pavarotti dal sorriso disarmante, il “Re del Do di petto“, il tenore acclamato in tutto il mondo, l’uomo pieno di fascino, di carisma, che su suggerimento della sua mamma che si emozionava sentendolo cantare, decide di intraprendere quella carriera, la stessa che non era riuscita a suo padre, grande tenore anch’egli ma che per il resto della vita restò un artigiano.

Un uomo il cui rapporto con le donne ha costituito il fulcro della sua spiccata personalità. La prima moglie, sposata giovanissima dalla quale ebbe 3 figlie femmine nate nel giro di 4 anni, la sua assistente con la quale ebbe un rapporto di amore/odio, le sue figlie, quel rapporto speciale con lady Diana e poi l’amore per Nicoletta Mantovani, 34 anni più giovane di lui e dalla quale ebbe Alice, sopravvissuta al suo gemello morto subito dopo il parto.

Tutte le sue donne, hanno accettato di raccontare Pavarotti, si sono lasciate intervistare e durante quella intervista si sono messe a nudo, si sono commosse e hanno regalato al pubblico aneddoti, ricordi, momenti di vita struggenti e passionali che hanno disegnato la tempra dell’uomo, e non solo dell’artista. il ricordo di una delle sue figlie che da piccina si era convinta che suo padre di mestiere facesse il ladro, perché lavorava di notte, era sempre via e si truccava il volto.

Ron Howard ha messo in evidenza la grandezza di un italiano di talento che conquista l’America, che va ospite nei talk-show, che in video cucina la pasta, che è sempre simpatico, ammiccante ma mai divo. L’italiano che ha scelto di cantare anche fuori dai teatri perché convinto che l’opera dovesse divenire popolare, che non dovesse essere una musica d’élite, che fosse fruibile alle masse. E poi la beneficenza, la sua capacità di emozionarsi, di commuoversi, di avere paura.

Un tenore è colui che si traveste, che si trucca, che diventa altro e che mente fin quando non sale in scena, dopo di che, diventa altro da sé e in quella dimensione Pavarotti spesso si divertiva.

Molto bello il lavoro fatto da Howard nell’accostare le giuste opere alle interviste, come se ci fosse un filo conduttore capace di portare lo spettatore, con empatia, direttamente dentro il senso di quel documentario, ossia dentro l’album dei ricordi, non nella vita di una superstar. Voleva essere ricordato come un bravo tenore e come colui che aveva fatto conoscere l’opera a molti e non solo agli appassionati e poi come un buon padre e un buon marito. La prima moglie, racconta con dedizione la vita trascorsa con il grande artista e poi consegna anche la forma del perdono verso ciò che fu. La sua seconda moglie, che l’ha amato e l’ha vissuto fino alla fine,  lo racconta come un uomo che ha vissuto ogni istante, fino alla fine, che era grato a Dio per il dono che aveva ricevuto con quella voce. Vi è nel documentario un climax fatto di emozioni, ricordi e risate.

Tutti coloro che lo conobbero – manager, collaboratori, artisti – lo raccontano come un uomo generoso e testardo; non mollava mai la presa, come quando costrinse Bono Vox degli U2  a scrivere “Miss Sarajevo” e a partecipare a “Pavarotti & friends” a Modena, insieme a Sting, Lucio Dalla. Aveva intuito che la lirica andava contaminata con il Pop e la beneficenza fu il motore trainante dell’iniziativa.

Nel documentario vi sono immagini inedite, video mai visti della carriera del grande tenore, ma anche i momenti più controversi, come le polemiche scaturite da quell’amore verso la sua giovanissima assistente, che poi fu sua moglie, ma che non lo scalfirono mai più di tanto.

Un grande artista, capace di influenzare positivamente tutti coloro che ebbero la fortuna di condividere con lui pezzi di vita e di carriera, oltre che l’essere il simbolo di una italianità di prestigio, che ancora oggi Pavarotti rappresenta a distanza di 12 anni dalla sua morte.

 

Simona Stammelluti

E’ una intenzione riuscita.

E’ come una scatola che quando la apri, ti investe il suo contenuto, un contenuto fatto di musica e parole, di suggestioni, di contaminazioni, di storia della musica e di talento. Sì perché la prima cosa che va detta è che Tosca, al secolo Tiziana Donati, è una delle voci più belle del panorama italiano ed internazionale. Ma la sua bravura non risiede solo nell’utilizzo impeccabile del mezzo vocale, ma anche nella sua straordinaria capacità di interpretare attraverso la musica le emozioni, scoperte e vissute in tutto il mondo, per poi restituirle all’ascoltatore vestite di colori nuovi, di sensazioni appaganti e di magia.

Tutto questo e molto altro è Morabeza, l’ultimo lavoro discografico di Tosca, uscito lo scorso 25 ottobre, prodotto da un altro grande artista della musica italiana, cautautore, autore e produttore discografico, Joe Barbieri, che del disco ha curato gli arrangiamenti, l’adattamento dei testi e alcune musiche. I due artisti senza dubbio condividono l’arte del cantare piano, della raffinatezza e della ricercatezza del suono.

Ascoltarlo è come fare un viaggio, rimanendo imprigionati nella voglia di restare ancora un po’ nei luoghi, nelle delicatezza sonora e in tutte le sfumature che la cantante romana è riuscita a mettere insieme.

La voce dunque, come mezzo comunicativo per eccellenza che Tosca in questo disco utilizza con tecnica e trasbordante passione; la stessa che l’ha mossa durante quel viaggio che l’ha portata in giro per il mondo tre 3 lunghi anni, e dal quale è nato  un documentario “Il suono della voce” prodotto da Rai Cinema e presentato in anteprima assoluta alla Festa del Cinema di Roma 2019.

Un album dall’audio impeccabile, nel quale tutte le evoluzioni vocali sono pennellate di straordinaria bellezza musicale. Gioca con la versatilità della sua voce, Tosca, con la sua capacità di raggiungere con perfezione note gravi quanto le acute; gioca con altre lingue del mondo, prendendo in prestito i sentimenti di terre lontane, la saudade e l’alegria, la speranza nella propria terra, l’integrazione, e da tutto questo si è fatta contaminare, mettendo al mondo un disco capace in maniera straordinaria di raccontare l’amore, la gioia e la malinconia, in tempi musicali differenti, in stili musicali che sono segno distintivo di una ricerca di sonorità spesso accattivanti, altre volte vestite di disarmante delicatezza.

La lingua italiana contaminata da altre lingue, il portoghese, il francese, e quel connubio così avvolgente con altre voci, ospiti di Morabeza, che creano un nuovo posto nel mondo, che tiene insieme, che esplode di affinità musicali e sensoriali. I duetti presenti nel disco, sono scambio, accoglienza, sono perfetti nella tecnica del cantato e avvolgenti nell’intenzione del “rendere possibile”, come se fosse tutto facile. Questa è una caratteristica di Tosca, questa leggerezza nel cantare, come se le basti aprire bocca, per coinvolgere, come se la sua volontà espressiva si serva del cuore, non solo di musica e parole. Ivan Lins, Arnaldo Antunes, Cyrille Aimée, Luisa Sobral, Lenine, Awa Ly, Vincent Ségal, Lofti Bouchnak, Cèzar Mendes, i suoi compagni di viaggio, e e gli italiani Nicola Stilo al flauto in “Mio canarino“, il violoncello della strepitosa Giovanna Famulari e di Vincent Ségal, in “Serenade de Paradise“, pezzo cantato da Tosca in francese. La Francia anche in “Le troisieme Artificier”  eseguita con  Cyrille Aimée in un valzer musette, con atmosfere del primo ‘900, il valzer appassionato per le classi più umili. Molto ben calibrate le due voce, in italiano e francese, diverse in timbrica per le due cantanti. Ed ancora il bravissimo Gabriele Mirabassi nel pezzo “Giuramento”, che apre il disco, in cui il suo clarinetto dialoga in maniera sublime con la voce di Tosca, con il senso delle parole cantate e crea un vero e proprio ricamo al brano di Pixinguinha.

Nell’album c’è anche un pezzo di Joe Barbieri, uno dei più emozionanti, “Normalmente che Tosca cantava già nei suoi concerti, e che accompagnata da un intro di chitarra, in questo lavoro discografico condivide con Ivan Lins e diventa un’armonia a due voci, italiano e portoghese che lascia incantati e emozionati, mentre ci si lascia avvolgere da voci e archi.

C’è la bossa nova, c’è la cultura di Tunisi, c’è il valzer, c’è il suono del mondo che pulsa nella voce di Tosca, nel suo fischiettare, e nello swing leggero degli anni ’50 che aleggia in “Simpatica”, pezzo dal profumo vintage, permeata di mood “easy listening”.

Questo disco ha un titolo perfetto. Morabeza non ha un concetto scolastico, è uno stato d’animo. E’ passione, nostalgia, è gioia dell’appartenenza, è la paura di qualcosa che non tornerà. Questo è un disco colorato, come la copertina che ritrae tosca sdraiata e sognante, mentre poggia i piedi su un mappamondo che mostra l’emisfero boreale. Questo disco assomiglia alle nubi di bianca bambagia che corrono sopra l’Atlantico, come i coriandoli di terra che Tosca ha visitato, vissuto, fatto sua, per poi confezionarla con la sua voce, a volte raso a volte seta.

E’ un disco di cui ci si innamora, così come ci si innamora delle cose lontane che si vorrebbero conoscere, toccare, ma poi chiudi gli occhi e sogni.  Con questo disco si può sognare, mentre ci si emoziona per un controcanto, che finisce in minore e che ti fa venire voglia di riascoltarlo, tutto daccapo.

 

Simona Stammelluti