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Ferdinando Scianna, il famoso fotografo e fotoreporter siciliano uno dei grandi dell’agenzia Magnum, espone fino al 28 luglio a Palermo, presso la Galleria d’Arte Moderna

Questa mostra è una vera e propria sfida. Puoi subirne la suggestione, puoi emozionarti (spesso) e se sei particolarmente empatico con l’arte, puoi anche piangere di commozione. Devi avere una discreta cultura alle spalle per apprezzarla appieno; oppure, dopo essere stato rapito da tutto quello che si consuma durante la visione di quei 200 scatti, devi essere abbastanza curioso da andarti a studiare quello che Scianna lancia con la sua mostra, ossia veri e propri spunti culturali e non solo di riflessioni.

Una mostra allestita in maniera impeccabile, dove niente è a caso; perché la suggestione è creata non solo dal valore intrinseco delle foto esposte per argomenti, ma anche da come sono collocate all’interno della galleria. Un allestimento che è di per sé una mappa da seguire per raggiungere una meta.  Alcune foto sono semplicemente attaccate alle pareti, altre lasciate pendere dai soffitti. E poi ce ne sono ancora, dentro una intelaiatura rotonda, o in nicchie ricavate da una sorta di gigantesco soffietto, dove dietro ad ogni angolo si cela una storia. Storia di personaggi famosi, molti dei quali sono stati in vita amici del fotografo; storie di viaggi, di luoghi, di riti, passando  dal dolore, dalle ossessioni, tutto attraverso la memoria.

Storie di vita vera, delle tante vite vissute da Ferdinando Scianna, storie di una carriera che sembra così surreale da essere leggenda. Perché che vita ha vissuto, perché è diventato quello che è, la carriera che ha fatto, lo si scopre stando “dentro” a questa mostra, che non è solo una dimensione visiva, ma un territorio psicologico ed emozionale.

E se come lui stesso dice,  “le fotografie non possono rappresentare delle metafore, perché le fotografie mostrano e non dimostrano”, allora il viaggio fatto all’interno della mostra diventa una modalità per fare i conti con la vita e le sue pillole di crudeltà,  vite difficili, forse distante dai nostri occhi ma reali, affilate, scevre da ogni possibilità di essere addolcite da una possibile sostituzione. E tutto questo Scianna lo fa senza retorica, senza drammatizzazione.

200 scatti in bianco e nero, di vari formati. Da gigantografie che ti sovrastano a formati ridotti che però ritraggono soggetti che per espressione, intensità, contesto, sono dei giganti che ti fanno sentire piccolo.

Solo i ritratti, sono accompagnati da didascalie che sono vere e proprie storie che riguardano i soggetti, che raccontano di aneddoti, di manie. Tutte le altre sono senza titolo, recano solo l’anno e il luogo. Ogni raccolta è inserita in un tema. Il bello è che i temi trattati da Scianna non hanno nulla di scontato, e le motivazioni che lo hanno spinto a fare quelle scelte, diventano una porta da varcare per comprendere in maniera profonda l’autenticità di ogni scatto.

C’è la Sicilia che pulsa, in questa mostra, che è una lente di ingrandimento per molti dettagli della fotografia di Scianna; la Sicilia che è memoria perenne di un sentimento che si affaccia ogni volta che mette in campo una sfida. La Sicilia con i luoghi di Bagheria, con i riti, le feste religiose che Leonardo Sciascia definiva “l’esplosione dell’Es collettivo, quando l’uomo esce dal suo essere, dal suo doloroso Super Io”. Scatti di sguardi “altrove”, e la bravura di beccarne sempre uno in camera. Come quello del bambino della processione, quello di una delle donne in nero della Roma del 1966. Scatti corali, anche quando il soggetto è uno solo, come il filo di ferro protagonista della foto che ritrae la spiaggia delle Cinque Terre.

Scatti corali di soggetti che a volte recitano un copione, che si immedesimano in un ruolo che si consuma lento, come un “Sonno”, quel sonno che inquieta,  che resta in un tempo sospeso e muto e che lui fotografa mentre sembra interrompersi il flusso della vita. Penso alla bravura di un Ferdinando Scianna che fotografa il sonno di una donna che dorme su una panchina di un ospedale psichiatrico e che apparentemente è solo un soggetto che dorme; ma è  nella suggestione che solo lui sa realizzare, che magicamente quella donna si perde nel suo vestito a puntini, che diventa un tutt’uno con la ghiaia.

Le ossessioni, che contemplano le cose,  e poi gli specchi che continuano a dividere il mondo in due, l’ombra, le bestie. Sono vere e proprie sfide a guardare oltre ciò che appare; Il cane nel negozio di pompe funebri, i piccoli squali che sembrano tristi. Suggestioni di una realtà inserita in quella sua inguaribile curiosità.

Non vi è foto in questa mostra che non “mostri” quella pura folgorazione che impone al fotografo di farla quella foto e poi salvarla. Mi viene da pensare all’America di Scianna, fatta di dettagli che a volte urlano come quelli delle metropolitane newyorkesi e a volte sono così silenziosi da scuoterti dentro, come quelli che vengono fuori dal bacio sulla bocca di due ragazzini alla stazione, mentre ti accorgi solo in un secondo momento che si tratta di una stazione.

I viaggi di Scianna, che diventano anche un po’ di chi visita questa mostra: New York, Parigi, la Tunisia, lo Yemen. La toccante foto scattata in Etipia  nel 1984 che ritrae una donna che ha accattato al suo seno un bambino scheletrico, che probabilmente è morto poco dopo, che guarda la sua mamma come se potesse nutrirsi più dai suoi occhi che dalle sue mammelle. Il suo, è un fotografare “malgrado tutto”. Mai solo un atto di denuncia, ma un racconto dettagliato di una condizione, ma anche di una ambizione etica ed estetica.

I luoghi di Ferdinando Scianna non sono mai a caso. Forse come è accaduto a molti altri suoi colleghi famosi. Ma qui c’è la convinzione che alcuni luoghi, come nel caso di Lourdes, custodiscano un senso, proprio in quella quantità di domande che anziché collassare in una risposta, lo fanno in nuove interrogazioni.

Anche il dolore, che Scianna fotografa in ogni sua forma, è a  volte così crudo da far male. Perché tu ci provi a passare allo scatto successivo lungo la parete, ma poi torni indietro. Il bello di questa mostra è anche questo: quello di non voler perdere nessun dettaglio. Fai di tutto per portare via con te molto di quello che si consuma in quel luogo, dove nulla è a caso, mentre il fotografo “ha solo il caso, come unico materiale utile”.  I meravigliosi regali del caso, come quando ha fotografato il fotografo  e pittore francese Jacques Henri Lartigue. Singolare lo scatto: mostra una donna che gli aggiusta i capelli, lui sorride, e dietro di lui, appeso ad una parete un intreccio di raffia che raffigura una specie di gigantesco fiore. La testa di Lartigue è perfettamente al centro, e l’immagine che ne viene fuori è quella di un sole che ride, lo stesso che lui usava disegnare vicino al suo nome ogni volta che firmava una sua opera.

I bambini di Scianna sono un vero capolavoro. Sono il tentativo (riuscito) di dimostrare come essi siano come gli adulti, se li sai guardare per davvero, sono come gli adulti, né meglio né peggio. E lui li ha guardati per come loro meritano di essere visti. I loro occhi, un gioco di sguardi tra chi immagina di finire da qualche parte e chi sceglie di mettere da parte ogni luogo comune.

Che Scianna sia un fotografo che scrive, un antropologo, un letterato lo si evince forte da questa mostra, nella quale ogni soggetto ha un suo posto privilegiato nel contesto, e ogni scatto ha il posto nella strategia di intenti.

Scianna cita Fernanda Pivano nei suoi racconti, mette in mostra tutti i talenti con i quali “ha fatto a cambio” di qualcosa. A volte quel qualcosa è stata un’amicizia, altre un’intervista, altre ancora solo uno scatto. Regala ricordi, Ferdinando Scianna, i suoi e sono un grande regalo che fa al pubblico della mostra. Scianna che ascolta le Suite Inglesi di Bach per ricordare il suo grande amico Henrie Cartier Bresson dopo la sua morte, l’intervista mai uscita a Milan Kundera, e poi ancora lo scatto dietro la vetrina a Jorge Luis Borges del 1964. Momorabile la foto a  Leonardo Sciascia sul sagrato della chiesa mentre passa tra le due bambine ferme, formando un triangolo perfetto, Roland Barthes, Martin Scorsese, Mimmo Paladino, Armando Testa, la Bellucci.

E a proposito di donne, non si può non citare Marpessa, il cui volto giganteggia nella mostra, posizionato nel modo giusto, senza mai essere sfacciato malgrado la bellezza prorompente immortalata da Scianna. Immortala il suo sguardo verde, inquieto, imbarazzato, leggermente sulla difensiva. Anche nelle foto di Marpessa – la famosa modella di Dolce & Gabbana  –  c’è prorompente la Sicilia, il ricordo dell’infanzia siciliana, e poi ancora ciò che resta dei sentimenti della donna che da sempre sono incisi nella coscienza del fotografo, come lui stesso racconta.

La forza del fotoreporter è sfacciata nelle foto scattate a Kami, il villaggio nelle Ande Boliviane; è come se una matita avesse disegnato la vita sospesa di quella gente, evidenziandone sguardi, disincanto, paure, come una testimone invisibile che non interviene mai per modificare gli istanti.

Scianna dice di se di essere sempre stato snob, da prima ancora di possedere mezzi per esserlo. A me dopo la visione di questa mostra viene da dire che Ferdinando Scianna sia stato in grado durante tutta la sua carriera di tenere viva una continuità, mantenendo intatti curiosità, passione, lucidità e un pizzico di ironia.  Il suo fascino trasborda da una mostra così bella, che svela qualche segreto di un grande maestro che sa sempre come essere ricordato.

 

Simona Stammelluti

 

 

Presentata la stagione 2019 2020 del Teatro della Cometa: undici titoli in abbonamento compongono il ricco cartellone. Un programma variegato per soddisfare gusti e sensibilità diverse che si caratterizza per la qualità delle proposte 

Esistere e resistere in una società che non sempre riconosce la specificità del ruolo del teatro e della cultura. È questo lo spunto di riflessione che ha guidato la composizione della stagione 2019| 2020 del Teatro della Cometa.

Ci sono gesti e luoghi che ci aprono a una parte nascosta della nostra identità ed il teatro è il luogo per eccellenza dell’identità. Sempre più frequentemente si sottolinea l’importanza del “fattore cultura” e se ne evidenzia la specificità. La cultura non è una risorsa come tutte le altre. Ed e ancor più vero che qualche volta è una risorsa migliore di altre. Il teatro è l’occasione più stimolante, è la più potente agenzia produttrice di significato di cui la società possa disporre. Eppure il mondo dello spettacolo attraversa da ormai troppo tempo una fase di faticosa transizione, in cui gli sforzi di rilancio del settore si devono confrontare quotidianamente con antiche insensibilità e pregiudiziali distrazioni.

Pertanto è necessario resistere ed esistere, perché l’arte è tra le attività umane quella che più di altre contribuisce a conoscere profondamente la realtà e la vita, a comprenderle nella loro complessità e nella loro essenza, a cogliere e nello stesso tempo a creare il loro senso ed il loro significato e ad individuare e prefigurare le linee di sviluppo della storia del rapporto dell’uomo con il mondo.

Undici titoli in abbonamento compongono il ricco cartellone 2019/20 della stagione del Teatro della Cometa. “Gli spettacoli sono stati selezionati – spiega il Direttore Artistico Giorgio Barattolo – come sempre con l’intento di incontrare i più diversi gusti non solo dei nostri abbonati che di anno in anno rinnovano la fiducia, ma anche quelli di un nuovo pubblico che siamo desiderosi di accogliere nel nostro teatro. Generi diversi per divertire, emozionare e riflettere. Un programma variegato per soddisfare gusti e sensibilità diverse che si caratterizza per la qualità delle proposte”.

Il sipario si apre il 9 ottobre con VALIUM una commedia anti stress di Alessandro Sena, con Niccolò Albanese, Stefano Antonucci, Giorgio Carosi, Marine Galstyan, Raffaele La Pegna, Giada Lorusso, Valeria Romanelli, Vittoria Rossi, Francesco Sgro. Il 30 ottobre Simona Marchini e Susy Del Giudice saranno i protagonisti di EXIT – Grazie dei fiori, regia Giovanni Esposito. Il 13 novembre debutterà lo spettacolo 7 ANNI con Giorgio Marchesi, Massimiliano Vado, Pierpaolo De Mejo, Serena Iansiti, Arcangelo Iannace, per la regia di Francesco Frangipane. Il 4 dicembre si va …FINO ALLE STELLE!  scalata in musica lungo lo stivale di e con Tiziano Caputo e Agnese Fallongo, regia di Raffaele Latagliata. Il 20 dicembre è la volta di NON È VERO MA CI CREDO di Peppino De Filippo con Enzo Decaro per la regia Leo Muscato. Il 15 gennaio alla Cometa arriva LISISTRATA da Aristofane, con Gaia De Laurentiis, Stefano Artissunch, Gian Paolo Valentini, Stefano Tosoni, con la regia Stefano Artissunch. Il 29 gennaio Pino Insegno e Alessia Navarro saranno i protagonisti di IMPARARE AD AMARSI regia Siddhartha Prestinari. Dal 19 febbraio Marco Falaguasta porterà in scena NEANCHE IL TEMPO DI PIACERSI per la regia di Tiziana Foschi. Il 4 marzo alla Cometa arriva IL TEST con Roberto Ciufoli, Benedicta Boccoli, Simone Colombari, Sarah Biacchi, con la regia di Roberto Ciufoli. Dal 25 marzo Luca De Bei e Barbara Porta porteranno in scena CHE TE LO DICO A FARE, testo e regia Luca De Bei. Si conclude la stagione con IL MISTERO DEL CALZINO BUCATO con Marco Zadra, Marco Morandi, Marco Spampy che sarà in scena dal 15 aprile.

Prosegue anche in questa stagione il Nuovo Salotto Cometa: da ottobre ad aprile un venerdì al mese organizzeremo nel foyer del teatro, l’Aperitivo Culturale del nuovo Salotto Cometa: tra food, cultura e performance, si racconteranno progetti, idee, storie, per favorire conversazioni, connessioni, in un clima famigliare e accogliente; il teatro non deve essere considerato un luogo d’eccezione, ma deve essere una casa da vivere pienamente. Mettetevi comodi nel Salotto Buono di Roma e seguite la Cometa.

 

Incontri, connubi, collaborazione, coralità. Tutto quello che il Maestro Elio Martusciello, riesce a tradurre in progetti musicali, in esperienze sonore aprendo al senso e alle qualità cognitive dell’uomo, così come ci racconta in questa intervista che mi pregio di aver realizzato.

Conosco Elio Martusciello attraverso il sassofonista Antonio Raia, mi incuriosisco e incomincio ad entrare nel suo mondo, restandone impigliata.

Elio Martusciello,  napoletano, classe 1959 musicista, compositore, direttore d’orchestra, docente di musica elettronica al conservatorio di Napoli, ha studiato fotografia con Mimmo Jodice, è un guru della musica, che ha seminato l’arte sonora come linguaggio, traducendo in musica tutto ciò che è accaduto intorno a sé nel corso del tempo, attraverso quelle esperienze che si sono poi tradotte in opere d’arte, la cui definizione non è poi così scontata, come ci spiega in questa intervista.

Parliamo di “musica concreta”, di “arte acusmatica” dell’Orchestra Elettroacustica Officina Arti Soniche e di tanto altro, qui di seguito

SS: Maestro, quasi mai si pensa ad un ascolto come ad un connubio. Per esempio un connubio tra suono e suggestione. Ma di esempi potremmo farne tanti. Cosa manca ad un ascoltatore medio, a colui che non va mai oltre la melodia?

EM: Un’attenzione autentica nei confronti dell’ascolto porta a cogliere naturalmente quel connubio tra suono e suggestione a cui lei fa riferimento. Esattamente da qui nasce la grande esperienza della musica. Da quella “apertura al senso” che caratterizza le qualità cognitive dell’uomo, e che da un ascolto funzionale, utile per la sopravvivenza della specie, lo ha portato ad un ascolto simbolico, estetico. Però, in altre occasioni, abbiamo già parlato della “violenza simbolica”, o violenza “dolce”, che si annida anche nei processi culturali. Quindi, nell’evoluzione della cultura musicale, in particolare in occidente, sempre più si sono imposte delle sovrastrutture che hanno dirottato tutta la nostra capacità uditiva in direzione di quelle che potremmo chiamare, inseguendo la sua domanda, qualità “melodiche” della musica. Per cui, un ascoltatore medio che subisce tali sovrastrutture non potrà che indirizzare la sua immaginazione unicamente verso quei suoni o strutture sonore che riconoscerà immediatamente come “musicali”. Ovviamente si tratta solo di una “musicalità” che hanno definito quei dispositivi culturali (abitudini, costumi, scuola, etc.). Solo chi approfondisce, attraverso una pratica spirituale, culturale e sensibile tutta l’esperienza musicale, dalle sue origini ad oggi, può recuperare un ascolto più ampio e meno condizionato, capace di proiettarsi nel futuro così come nel più remoto passato (in parte si tratta proprio di recuperare quell’ascolto arcaico, originario). Bisogna anche aggiungere però che la melodia è un traguardo musicale di straordinaria sintesi. Massimamente affascinante. Si tratta del profilo disegnato nel tempo di qualità spettrali presenti in una qualsiasi successione di suoni, anche i più complessi, quelli non necessariamente strumentali. Insomma, come spesso accade, non si tratta di sostituire una modalità con un’altra, ma di ampliare e far coesistere più modi di ascolto, più condotte uditive.

SS: Mi interessa sapere dove risiedono le differenze secondo lei, tra musica concreta e melodia, dove per “musica concreta” si intende tutto ciò che va oltre i limiti delle convenzioni estetiche. La melodia, a quale convenzione estetica si piega?

EM: In parte a questa domanda ho già risposto con la precedente. La Musica Concreta per certi aspetti recupera un ascolto più arcaico nei confronti del suono. Questo è possibile perché le tecnologie hanno consentito la fissazione, su di un supporto, anche del più complesso “oggetto sonoro” non riproducibile con le vecchie tecnologie, e che consente un ascolto e un’analisi ripetute. Stiamo parlando di tutti quei suoni non riproducibili con le tecnologie strumentali e i dispositivi di notazione del passato, che invece erano perfettamente adeguati per una musica che si è sviluppata intorno a quei parametri che qui stiamo chiamando sinteticamente “melodici”. Come si può evincere dalla precedente risposta non credo che la “melodia” risponda unicamente ad un’esigenza di tipo convenzionale, ma anche a una qualità spettromorfologica già insita nel suono stesso e che l’uomo ha solo sviluppato, sintetizzato, evidenziato.

SS: Martusciello lei è un po’ un guru, la sua di musica è un ribollire fitto e coinvolgente di linguaggi sonori, che vengono piano a galla e poi sorreggono tutto il resto di una dimensione acustica che prende forma, e che sa essere intima e prorompente al tempo stesso. Cosa accade, quando compone, e cosa cerca, quando dirige i suoi musicisti?

EM: Non le so dire cosa accade quando compongo o quando dirigo. Io sono il risultato di tutto ciò che accade intorno a me e che è accaduto prima di me. Ovviamente mi riferisco solo a quella parte di mondo con la quale sono entrato in contatto, e che in qualche modo ho fatto mia, attraverso la scuola, i libri, i dischi, gli amici, e così via. Circa l’opera d’arte la domanda di Bourdieu resta fondamentale: chi crea l’opera d’arte? Seguendo la sua “teoria del campo” la risposta non è più così scontata come sembra, cioè l’artista, ma essa è il risultato di tutte le traiettorie e azioni degli attori che operano nel campo dell’arte. In tutti i casi, in estrema sintesi, prediligo una certa drammatizzazione ed evoluzione, in una temporalità non troppo dilatata, del discorso sonoro e delle corrispettive emozioni che ne scaturiscono.

SS: La registrazione di un suono, la manipolazione di un suono per fini compositivi, può essere definita, secondo lei, come la rottura dei confini che la musica da sempre disegna, in fatto di armonie, voicing, ecc?

EM: Direi di sì, però forse non tanto per opporsi a qualcosa, ma come dicevo in precedenza più per espandere qualcosa. L’arte in genere ha questa funzione di esplorare altri possibili immaginativi, ampliando in definitiva le nostre qualità intellettive e sensibili.

SS: Ho la fortuna di avere a disposizione la sua immensa cultura in fatto di suoni e di musica, e pertanto vorrei che spiegasse ai lettori, cos’è l’arte acusmatica e che tipo di componente emozionale possiede

EM: La ringrazio per l’immensa cultura musicale che mi attribuisce, ma devo dire che più il mio impegno si rivolge alla musica e più si  evidenzia l’ignoranza che ne scaturisce paragonata alla straordinaria ampiezza dell’oggetto di studio. In tutti i casi l’Arte Acusmatica si riferisce al fatto che ci si può rivolgere al suono senza vedere le cause che lo producono. Non ci sono esecutori in teatro, si usano di solito gradi di surrogazione nel lavoro compositivo (attraverso tecniche di manipolazione del suono) che rendano complesso il riconoscimento di un suono e il suo legame con la sorgente; in questo modo anche quando si riconosce l’origine di un suono esso spesso però appare “perturbante”. Questo ci consente di silenziare il visivo e di concentrarci sul dato uditivo, sulle sue configurazioni. In un acousmonium (specifici luoghi di ascolto ideali per la musica acusmatica) le luci vengono spente per lasciare l’ascoltatore al buio. Come nel Teatro delle Ombre questa opacità, questo mistero, che si cela nelle ombre del sonoro o dietro al suono, attiva la nostra attività immaginativa, libera la nostra creatività.

SS: L’utilizzo differente degli strumenti classici di un’orchestra, cambiano in modo rilevante il paradigma di quella prassi musicale legata a tecnologie tradizionali? 

EM: Certamente, gran parte della sperimentazione musicale strumentale novecentesca è stata possibile proprio grazie all’estensione delle tecniche strumentali tradizionali: il pianoforte preparato ne è forse l’emblema.

SS: Maestro, Antonio Raia, tenorista che lei conosce bene perché da lei scelto spesso per i suoi progetti, e che ha all’attivo un album “Asylum”, in cui suona senza sovrastrutture e senza filtri, ha registrato in un luogo che sembra essere davvero magico, sonoramente parlando, l’ex Asilo Filangieri, lo stesso dove anche lei spesso utilizza per suonare con la sua orchestra. Quanto importante è il rapporto spazio-suono? Non sarà che solo chi ha una cura quasi maniacale per ciò che giunge all’orecchio dell’ascoltatore,  sceglie luoghi che possano esprimere il legame che si instaura tra estetica del suono e sentimento? 

EM: Antonio Raia è un musicista che amo molto per le sue qualità umane, che a mio avviso poi ricadono nella maniera più naturale possibile anche sulle sue straordinarie qualità musicali. La musica esiste solo perché si connette ad uno spazio. Uno spazio inteso in maniera molto ampia: spazio sociale, spazio fisico, spazio interiore. Antonio è molto sensibile a queste diverse tipologie di spazio, ne ha forte coscienza e si concentra molto su di essi. Ad esempio il suo album “Asylum” è una sintesi perfetta di questa consapevolezza intorno a questo concetto ampio di spazio. Realizzato all’Asilo e cioè un incredibile spazio sociale (il concetto di “campo dell’arte” accennato sopra è esso stesso uno spazio sociale), organizzato e registrato con tecniche che ne esaltano lo spazio fisico, architettonico (questo anche grazie al contributo di uno straordinario artista come Renato Fiorito), un Album scaturito come indagine su memoria e desiderio che sono lo spazio dell’anima, lo spazio interiore.

SS: L’appaga più comporre, suonare o insegnare? Perché spesso stiamo bene e comodi in più contorni, ma ci appagano pochissimi impulsi.

EM: Queste tre cose da lei elencate si nutrono a vicenda, per me è impossibile proporre una gerarchia, anche solo in termini di appagamento. In realtà mi rifiuto proprio di farlo, credo sia una cattiva abitudine anche se talvolta utile, inevitabile, ma il più delle volte produce solo un sistema di preferenze che tende ad escludere lentamente alcune nostre esperienze, che invece sono sempre essenziali. Per me si tratta di intensificare la vita, di viverne molteplici. In questa prospettiva escludere alcune esperienze, cominciando proprio dal semplice non preferirle, è alla lunga una strategia perdente. Comunque, l’attività compositiva ha spesso il dono, grazie alla sua peculiarità di un lavoro in solitudine, di mettere in contatto il compositore con il proprio spazio interiore. Si tratta di un esercizio spirituale affine al silenzio. La pratica improvvisativa è invece un’attività eminentemente sociale, collettiva, prossima all’amore. Si tratta di una relazione incentrata su qualcosa di intimo, misterioso, che per certi versi va oltre la parola. L’insegnamento invece è il superamento del proprio orizzonte di mondo, perché attraverso le nuove generazioni e il lavoro di scambio di conoscenze ed esperienze, qualcosa di noi va oltre la nostra stessa vita, proiettandosi in un futuro al quale non abbiamo accesso. Come si fa ad elaborare una preferenza se si comprendono le differenze che queste tre circostanze mettono a disposizione per arricchire il nostro sentire, nutrire la nostra esistenza?

SS: Penso a quel suo modo di fare musica come ad una catena infinita di sfumature semantiche. Quanti stimoli e quanta immaginazione, oltre al talento servono per collocarsi in una struttura musicale che non sempre è facile racchiudere in una definizione canonica?

EM: In questo tipo di cose ho la sensazione che il talento quasi non esista. L’arte è qualcosa di così complesso che credo si usi il termine talento per nominare tutto ciò che sfugge ad una analisi dello specifico ruolo dei diversi elementi presenti nell’azione artistica. Credo che l’arte se proprio la si vuole ridurre all’attività creativa di una singola persona, quindi rinunciando anche alla “teoria del campo” precedentemente accennata, richieda tutte o una parte di una serie di caratteristiche quali: immaginazione, conoscenze storiche, consapevolezza del contesto, strumenti adeguati, esercizio costante, tempo disponibile, risorse economiche, studio rigoroso e così via. Mi riesce difficile comprendere in quale punto di questa fitta rete appena accennata si anniderebbe il talento, dove opererebbe. Credo che proprio questa complessa rete di istanze diverse, convergenti e divergenti al tempo stesso, rendano utile la presenza di una struttura canonica, uno schema che ne contenga le forze, ma al tempo stesso la singolarità dell’effetto generale di tutte queste forze, richieda sempre un qualche grado di sperimentazione e di conseguente rottura dei paradigmi dati. Come muoversi “correttamente” (se esiste un modo corretto) all’interno di queste molteplici forze, nei margini di soglie condivisibili, credo sia assolutamente inaccessibile.

SS: Se fosse nato a Treviso anziché a Napoli, sarebbe stato lo stesso Elio Martusciello eclettico, colto e convincente che conosciamo oggi?

EM: Come dicevo in precedenza sono convinto che noi siamo il risultato di tutte le esperienze particolari che ci hanno attraversato, quindi do per scontato che se fossi nato a Treviso sarei un’altra persona.

SS: Possiamo conoscere qualcosa circa il suo ultimo progetto con l’orchestra OEOAS?

EM: In realtà non esiste alcun mio ultimo progetto con l’orchestra OEOAS. Semplicemente perché una cosa simile sarebbe contraria allo spirito di quest’orchestra, in quanto tutto quello che fa è frutto di una scelta collettiva e condivisa. Certo può capitare che di volta in volta ci siano alcune persone che prendano iniziative trainanti, ma resta il fatto che le scelte finali sono sempre dell’intera orchestra. Quindi, fatte queste premesse, si può dire che se esiste un ultimo progetto dell’orchestra questo è legato a due musicisti che in questa occasione si sono fatti carico di proporre ed organizzare le prossime mosse da intraprendere. Si tratta dei già citati Antonio Raia e Renato Fiorito. L’idea è molto complessa e passa per diversi step, ma l’obiettivo finale è certamente la realizzazione di un primo album dell’orchestra. Il momento più esaltante di questo lungo percorso è stato sicuramente la settimana di incontri, con la partecipazione di più di 100 musicisti, per le sessioni di registrazioni finalizzate al disco. Io sono stato coinvolto per la mia lunga esperienza in fatto di conduction, ma Antonio mi ha affiancato magistralmente in questo lavoro di direzione. Ora siamo nella fase finale di montaggio e missaggio. Per una parte di noi il risultato sembra estremamente convincente ed inedito per una proposta discografica di un grande organico. Tra un po’ faremo una verifica con gli altri elementi dell’orchestra e poi passeremo alla fase successiva: finalizzazione, produzione e promozione.

SS: Maestro, ce l’ha un sogno nel cassetto?

EM: Molti, troppi. Il più importante però è sicuramente quello di vedere un miglioramento generale per l’umanità, forse sarà inevitabilmente lento, non credo più nelle rivoluzioni (anche perché una trasformazione rapida e radicale del contesto esterno non coincide con un cambiamento rapido dell’interiorità degli uomini), ma vorrei tanto che fosse almeno continuo, inesorabile e globale.

 

Simona Stammelluti 

 

LEO GULLOTTA – photo Adolfo Franzo’

Dal 26 al 28 Aprile 2019, al Teatro ARCOBALENO (Centro Stabile del Classico) di Roma la Compagnia CASTALIA presenta Leo Gullotta in MINNAZZA – MITI E PAGINE DI SICILIA, uno spettacolo di Fabio Grossi.

Lo straordinario Leo Gullotta ci fa rivivere le pagine più belle ed emozionanti della Letteratura Siciliana. Uno spettacolo per voce solista su prose e liriche siciliane, antiche e moderne.

Prendendo spunto dall’immagine antica della Madre Terra, “La Grande Madre”, MINNAZZA è un racconto sonoro che si snoda dalle origini della letteratura dell’Isola dei Ciclopi, fino ai nostri giorni. Un viaggio tra i Miti e il quotidiano, tra il sorriso e la denuncia civile.

Leo Gullotta, accompagnato dalle musiche del maestro Germano Mazzocchetti e dai video realizzati da Mimmo Verdesca, ci guida in un percorso drammaturgico, curato da Fabio Grossi, attraverso gli scritti di Giovanni Meli, Tomasi di Lampedusa, Luigi Pirandello, Luigi Capuana, Pippo Fava, Ignazio Buttitta, Andrea Camilleri e altri illustri scrittori.

Un volo radente sulla letteratura italiana attraverso penne siciliane, che invita a pensieri critici sulla nostra società moderna, confrontandola con riflessioni di oggi e di ieri. Autori e Protagonisti, che con Coraggio hanno difeso le loro idee, prendono forma attraverso la vocalità di un Interprete di schietto atteggiamento e di chiari propositi.

Uno strepitoso Maurizio Stammati porta l’oceano sul palcoscenico del Teatro dell’Aquario di Cosenza regalando una performance coinvolgente e credibile. Porta in scena una riduzione del Moby Dick di Melville, liberamente ispirato, diretto da Antonello Antonante.

Stammati non è solo un attore capace di avere tanti volti e tante espressioni per quanti personaggi interpreta, ma gli appartengono talenti appropriati all’arte del teatro; dal saper suonare l’armonica a bocca, all’utilizzo di strumenti a percussione che mimano i suoni della tempesta, alla presenza scenica, all’agilità di vivere la scena nelle diverse posizioni, di saper sincronizzare gesti al recitato, con cadenza perfetta. Per non parlare della naturale padronanza del palcoscenico, dell’arte del recitare e del fascino che mentre recita, incanta lo spettatore.

Sarà che anche il suo aspetto fisico, con quei capelli bianchi, lunghi e ricci, non passa inosservato, mentre se ne serve per incarnare i personaggi del celebre libro e mentre resta in bilico, tanto sulla baleniera in mezzo a mare, quanto sulle emozioni del suo pubblico.

Maurizio Stammati è voce narrante, la voce di Ismaele, l’unico sopravvissuto a quella spedizione, colui che ha il compito di raccontare la storia, raccontare come sono andate le cose, in una atmosfera unica, che crea con gli accenti che sa mettere al posto giusto, cadenzando un racconto che coinvolge nella stessa maniera sia chi conosce la storia, sia chi non ne conosce i contorni. Ottima l’interpretazione del pazzo che predice il futuro ai marinai. E’ lui, sempre lui, anche il Capitano Hacab,  interpretando magistralmente il ruolo di chi si sacrifica, di chi con determinazione assoluta lotta, fino all’autodistruzione.

Vive e pulsa quel palcoscenico, calcato da un artista di caratura, che lo sistema con il garbo di chi sa che dovrà servirsi di ogni dettaglio per raccontare una storia, per alitare dentro ad ogni personaggio dando loro vita, per un’ora di spettacolo che è così coinvolgente che sembra finire troppo presto.

La credibilità di Stammati, la ricerca del dettaglio espressivo vissuto e mai enfatizzato, la sua avventura che racchiude la voglia di esplorare quel che non si conosce, fino in fondo, fino alla fine.

Ottimo audio al Teatro dell’Acquario, come sempre. Le luci usate ad arte. Un allestimento efficace, con un grande cerchio sospeso, su cui l’attore sale facendolo ruotare e mostrando un mare che sa essere impetuoso, ostile, nemico.

Suda, fatica in scena Maurizio Stammati, perché si muove come se fosse davvero sulla Pequod, porta tutti sulla baleniera e il teatro si materializza in tutta la sua travolgente magia.

Vorrei che lo scopriste da soli, come inizia lo spettacolo che anche stasera è in scena al Teatro dell’Acquario e che vi consiglio di andare a vedere. Però scelgo di dirvi che l’attore, prima di salire sul palcoscenico parla al suo pubblico, racconta come è andata la sua, di avventura, fino alla realizzazione della pièce;  e quel racconto, è uno dei momenti più coinvolgenti di una serata di teatro fatto bene, che difficilmente si dimenticherà.

 

Simona Stammelluti

Al Teatro dell’Acquario  di Cosenza il 6 e il 7 aprile alle ore 20.30 lo spettacolo “Moby Dick”, con Maurizio Stammati e la regia di Antonello Antonante, liberamente ispirato all’opera di Herman Melville

Moby Dick, allegoria dell’uomo alla ricerca di se stesso ed esplorazione del mistero.
Nelle pagine di Melville si scopre che quell’abbandonare la sicurezza della terraferma, per puntare verso la verità del mare aperto, appaga per sempre l’istinto di qualsiasi Ulisse e l’ambizione di qualsiasi gioventù.
La Pequod (il nome della baleniera del capitano Achab) si trasforma, preso il mare, in un microcosmo, in una medievale allegoria dell’uomo, del suo destino, delle sue scelte, o addirittura in un riassunto della storia dell’uomo. Achab, nella sua determinazione di lottare, sino all’autodistruzione o al sacrificio, per conoscere la verità assoluta (perché questo è il senso della sua caccia alla balena) scopre (per tutti noi) il limite fatale della sua follia che sta nella superbia, il peccato dei peccati.
“La grande drammaticità, la grande bellezza della figura di Achab nasce da questo: che la tragedia di Achab è quella stessa dello scrittore e insieme quella stessa dell’uomo.
Non solo, ma un nuovo grado di intensità, vi si aggiunge per noi moderni, e ciò perché questa tragedia è quella stessa dell’uomo moderno”. Agostino Lombardo
Moby Dick di Hermann Melville è uno dei capolavori della letteratura americana, considerato opera fondamentale della letteratura mondiale.

Se il teatro non fosse solo un’entità artistica che si consuma su tavole del palcoscenico, dovrebbe inchinarsi davanti a tanta bravura.

E’ una bravura che stupisce, incanta e a volte disarma, durante quei 100 minuti in cui si consuma in modo originale e intenso, un monologo difficile da dimenticare, e che ti rimbomba dentro per molti giorni a venire. Ti rimbomba dentro in quelle riflessioni che innesca, in quelle parole ripetute che diventano tue, in quelle domande che ti poni circa la tua vita di donna, non solo in quanto tale, ma anche in relazione al mondo maschile e alle vicissitudini che la vita ti mostra sotto forma di sfida.

In tournée fino a maggio, con PFF – Piano Forte Forte trisonata per corpo femminile e pianoforte, una eclettica, talentuosa e affascinante Valentina Cidda, diretta da Valentino Infuso – che ha scritto il testo e ne ha curato la regia – in quella che senza dubbio si può definire come una delle “mise en scène” più belle, appassionate, coinvolgenti e realistiche che il teatro possa regalare.

Valentina Cidda non è solo un’attrice ma anche una pianista che durante lo spettacolo mostra particolare virtuosismo artistico. In scena lei e un pianoforte a coda, che si piega ad ogni sua esigenza espressiva. Un pianoforte che sa essere Piano e poi Forte e Forte ancora, mentre la musica che ne viene fuori è protagonista anch’essa. Un pianoforte che è suo complice, a volte rifugio, spazio da vivere, piccolo mondo che lei sposta e di cui mostra il profilo mentre fa un viaggio nei passaggi della vita, dalla nascita fino alla fine, fino a quel momento nel quale se non ti fermi la vita ti inghiotte, se non recidi alcuni legami finisci per soccombe, se non fai pace con te stessa, non saprai mai chi sei.

Il monologo, che racchiude in se la forza di una voce sola,  si sviluppa su tre tempi;  tre sonate, tre momenti dell’esistenza, tre stadi di mutamento che Valentino Infuso scrive con una disarmante lucidità, mettendo a nudo corpo e anima, l’essenza umana ed espressiva di una donna, unendo l’artista al suo pianoforte e riuscendo in maniera affilata a volte, a coniugare tutto al femminile, tirando fuori probabilmente, quel femminile che risiede in lui in maniera profonda, scrivendo e traducendo in linguaggio teatrale ogni dettaglio di un viaggio i cui colori prendono mille sfumature, diventano potenti, prorompenti, appaganti. E’ come se tutte le emozioni, che iniziano piano ma poi diventano forti e ancor più forti durante la performance e che Valentina racconta, vive e suda, in scena, in qualche modo avessero attraversato anche lui.

Mai un uomo è stato così tanto spietato e chirurgico come è stato Infuso, nel tracciare le prove, le trasformazioni, le paure in cui viene rinchiusa una donna, e l’inferno nel quale a volte finisce, dopo essere venuta al mondo.

Valentina è sola in scena, ma sa essere tanti personaggi, fuori e dentro di lei, sa disegnare con la sua magistrale interpretazione la vita di una donna che nasce, cresce, che soffre, soccombe, subisce violenza, e poi si innamora, e che passa la vita a cercare di capire … a capire tutto e tutti, e la risposta la trova solo nel finale, e la consegna anche al suo pubblico.

Una Valentina Cidda che sa dare vita in maniera realistica ad ogni sfumatura emotiva, dalla paura alla speranza, dall’illusione alla resa e mostra il pianto, il dolore, la delusione. E tutto questo lo fa attraverso le tre parti dello spettacolo, che sono tre fasi dell’esistenza e tre momenti di mutamento, accompagnate da tre sonate: Origine del male, inferno e guarigione.

L’attrice si muove nello spazio con la consapevolezza del suo corpo, bello e agile, si serve del pianoforte sul quale sale, oltre che suonarlo con tutte le parti del corpo e in posizioni particolarissime che mostrano non soltanto una bravura come pianista ma anche una concentrazione impeccabile, dell’artista. Non si fa fatica a realizzare quando lungo e meticoloso sia stato il lavoro sul suo corpo, considerato che ogni movimento, ogni gesto, ogni espressione sono perfettamente intonate all’esigenza di un sentimento, che in scena viene scolpito, modellato, plasmato.

La nascita, una violenza subìta da bambina per mano di uno zio, rapporti come vuoti a perdere, mentre si subisce il dolore  nascosto nelle pieghe di un finto amore, il perdono che non cancella colpe; e poi ancora la presenza ingombrante di una madre che per sua vanità esalta momenti comuni come se fossero talenti e che è assente quando la figlia ha bisogno che qualcuno le dica di “non farlo”. Un padre  che non c’è – “papàà?!? Papà non c’è” –   che lascia biglietti asettici, la giovinezza che lascia il posto all’età adulta, ai tacchi a spillo e ai progetti finiti in frantumi, mentre la narrazione si fa intensa e poi drammatica, si fa ironica a volte, ma al contempo spietata.

Le gambe di Valentina Cidda in scena sono protagoniste e disegnano non solo la storia narrata, ma anche i passi andati, quelli perduti e quelli in bilico sul ciglio di un precipizio che è anche emotivo.

I cambi d’abito, bianco, nero, rosso, e un pantalone di pelle attillato nell’ultima parte della pièce prima del finale, sono intonati alle intenzioni dell’autore. Com’è vero che quando tutto è chiaro, bastano due tratti per raccontare una storia.

Il dramma che si consuma in scena è così prorompente che ti prende allo stomaco, che ti fa sentire, avvertire, provare l’angoscia, il peso degli sbagli, i rigurgiti di rancore ed è facile restare impigliati in uno stato estatico, in cui si sublimano e si mescolano finzione e realtà.

E mai scema durante quei 100 minuti la bravura di una pianista che quello strumento lo sa far sussurrare, sussultare, stridere, armonizzare. Quelle musiche, quelle sonate che nascono sulla scena, per la scena, nate da un gesto che si fa suono e poi musica, e la musica torna ad essere parola, e poi risata, lacrima, impeto di rabbia, slancio e commozione.

I brani suonati e cantati nella seconda parte (seconda sonata) segnano la bravura di Valentina Cidda come compositrice.

E così  dopo aver proposto seduta al pianoforte e inguainata in un pantalone di pelle,  il brano  “Ammazza la mamma”, la protagonista del monologo Mina Vlad, ormai divenuta donna in carriera, racconta di aver scritto quel pezzo per la colonna sonora dell’omonimo film vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino.

Se questo spettacolo è un po’ una favola moderna, allora il connubio tra Valentina e il suo pianoforte costituisce l’incantesimo, capace di comunicare, anestetizzare, risvegliare la consapevolezza di sé.

“Posizione a signorina”, “capisco … capisco tutto io” sono alcune delle espressioni che segnano il corso del racconto portato in scena e che potremmo tutti provare a raccontare, ognuno per quel che resta della scia di talento e di significato che il teatro di Valentino Infuso e Valentina Cidda lasciano sera dopo sera nei teatri italiani, ma l’unica cosa che va fatta è andarsi a sedere in platea, per vivere qualcosa che ci appartiene e che non si comprende mai fino in fondo, fin quando non si inciampa nella “posizione giusta”.

 

Simona Stammelluti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se è vero che tutto quello che noi giornalisti abbiamo è la parola, e che come cittadini siamo liberi (ancora) di scegliere da che parte stare , allora io scelgo di usare la parola per “dare la parola” e scelgo di stare dalla parte di chi si prende le proprie responsabilità, sempre, e quindi sto dalla parte di Roberto Saviano che in un video pubblicato da La Repubblica TV racconta quel che gli accadrà ed anche perché. E poi parla al Ministro Salvini promettendogli che con l’unica arma che ha, ossia la parola, non gli darà mai tregua.

E’ stato rinviato a giudizio, Saviano e dunque, sarà processato per aver definito Matteo Salvini il “ministro della malavita“.Come tutti i cittadini, vado a farmi processare” – dice il giornalista sotto scorta nel suo messaggio.  Sottilinea come mentre lui, con un po’ di fierezza va a farsi processare, Salvini si sottrae al giudizio sul caso Diciotti, tramite ricatti e pressioni politiche, facendosi appoggiare dal Movimento 5 Stelle che – come sottolinea Saviano – con la sua posizione in merito alla vicenda, ha perso completamente faccia e dignità, anni di presunte lotte circa quell’essere diversi dalla politica. “Ma un giorno saranno chiamati a rispondere, uno per uno, perché e con quest’atto”– dice Saviano – che si inizia a trasformare quella che è una democrazia, verso una dimensione autoritaria”

Non mi intimidisce Matteo Salvini, la lotta agli intellettuali non è cosa nuova al nostro paese, non è cosa nuova per il potere, non è cosa nuova per chi cerca di rendere autoritario un governo e questo è il primo passo” – continua il giornalista e scrittore.

Poi, definisce il populismo: “Dire di fare qualcosa per il popolo o poi ingannarlo, usare un’argomentazione demagogica, per poi fregarlo attraverso quelle espressioni classiche: per voi, per il popolo, prima gli italiani, prima il popolo

Saviano ricorda Liu Xiaobo, uno dei più grandi intellettuali cinesi, rinchiuso in un laogai e dunque, si dice consapevole di essere fortunato, libero ancora di metterci il corpo e la faccia nella battaglia contro le bugie di questo governo, una battaglia che definisce “necessaria”.

Poi si riferisce direttamente al ministro Salvini: “Ero stato facile profeta, l’avevo chiamata buffone, qualche tempo fa e lei si è dimostrato un buffone; aveva detto di essere pronto al processo, e invece scappa, come un codardo, come si è sempre dimostrato; codardo nella vicenda dei milioni rubati alla lega, codardo nel non dimostrare pubblicamente tutti gli errori fatti dalla Lega al Sud Italia, codardo sulla vicenda Diciotti. Chiunque vi critichi è élite e questo popolo allora ha una sola ragione, una sola testa, un solo sguardo. Chi è con voi è popolo, chi è contro di voi è élite

Lei scappa, io RESTO, resto in questo processo a difendermi e le faccio una promessa, con l’unico strumento che h0, la PAROLA, io NON LE DARO’ TREGUA MAI, non darò tregua a nessuna singola bugia che ha pronunciato e che pronuncerà“.

 

Simona Stammelluti

Un omaggio a Samuel Beckett,  il nuovo lavoro teatrale del regista calabrese Max Mazzotta, che porta in scena al Piccolo Teatro Unical fino al 21 marzo, 14 ragazzi tra i 20 e i 30 anni, allievi di un laboratorio imperniato sullo studio delle opere del famoso drammaturgo.

Ieri sera la prima, che ha convinto.

La credibilità della piéce, l’ottima dizione dei ragazzi e la spiccata bravura di alcuni di essi, sono stati alcuni dei dettagli che hanno decretato il successo della messa in scena.
Sì, perché il lavoro che Mazzotta realizza con i ragazzi non è certo a caso. La scelta azzeccata delle musiche, le coreografie, il gioco di luci e le attribuzioni delle parti, si fondono alla riscrittura delle tre più famose opere di Beckett: Aspettando Godot, Finale di Partita e Giorni Felici.

La regia di Mazzotta è al contempo sapiente e prorompente, conserva intatto il senso del teatro di Beckett, l’immobilità, l’incapacità di cambiamento, e il ripetersi di azioni sempre uguali che vengono anestetizzate da quel far finta che tutto vada bene; ma tutto questo il regista lo fa dando estremo movimento alla performance. Un movimento intonato ai cambi di scena, e a quelle parti attribuire in maniera doppia ai ragazzi del laboratorio. Ci sono due coppie di Vladimiro ed Estragone, (Didi e Gogo) nel loro “Aspettando Godot”, ci sono due Winnie nel loro “Giorni Felici”.


Molto brave le donne, in scena, anche nei ruoli maschili, come colei che interpreta Hamm, il vecchio di “Finale di Partita”, che entusiasma il pubblico. Calarsi nei ruoli dei personaggi di Beckett non è cosa semplice e i ragazzi hanno fatto un bel lavoro, possibile grazie alla sapiente e capace guida di Max Mazzotta, che ha imbastito le tre opere affinché non si smarrisse mai l’essenziale, mentre la messa in scena è estremamente viva. Viva e pulsante nella credibilità degli attori e nella forma dell’originalità. Nella serietà dei temi di Beckett, che mai vengono snaturalizzati,  si adagiano atteggiamenti e personalizzazioni che fanno sorridere, a volte.

Bene anche la rivisitazione di Winnie, che nell’opera originale è bionda ed immobile dentro un cumulo di sabbia, in scena è bruna e vestita di rosso. Anzi sono due brune, vestite di rosso, perfettamente calate – a turno – nel dramma della conversazione, durante la quale si finge, fino a mostrare la miseria dell’esistenza.

Un dinamismo scenico efficace, che sfida la lentezza e la staticità del teatro di Beckett ma che lo valorizza attraverso l’intensità dello studio dei ruoli, ma mai nell’ostentazione di essi.

Max Mazzotta non si smentisce mai. Il suo sguardo originale verso il teatro d’autore è sempre convincente e consegna – come nell’omaggio al famoso drammaturgo –  una chiave di lettura moderna (si pensi alle musiche utilizzate o alle coreografie) di quei temi come la solitudine, l’angoscia e la impossibilità di comunicazione, alla base del teatro dell’assurdo di Beckett. Una comunicazione efficace e convincente, quella dei ragazzi del laboratorio che, se andrete a vedere a teatro in questi giorni, vi consegneranno la consapevolezza di come il teatro, sa reggere bene quel filo sottile tra realtà e finzione, mentre si scoprono nuove dinamiche e nessun compromesso.

 

Simona Stammelluti 

Francesca Benedetti sarà la protagonista dal 23 al 31 Marzo 2019, al Teatro Arcobaleno (Centro Stabile del Classico) di Ecuba di Euripide, drammaturgia e regia di Giuseppe Argirò. In scena un cast d’eccellenza: Sergio Basile, Gianluigi Fogacci, Maurizio Palladino, Maria Cristina Fioretti, Viola Graziosi, Elisabetta Arosio.

 

Francesca Benedetti – Premio Le Maschere 2018 – è la straordinaria interprete che veste i panni della regina di Troia. Ecuba incarna una sofferenza senza fine, consumata in una disperata solitudine. Troia è caduta e le donne di Ilio attendono la sorte riservata ai vinti. Lo spettro della guerra si svuota di ogni significato ideologico e declina la violenza in tutte le sue varianti, propagandosi come una malattia senza cura. Vittime e carnefici vengono accomunati dalla sopraffazione. In un momento di assenza di pace, in cui i teatri di guerra sono molteplici, raccontare gli orrori della violenza è un dovere etico. La drammaturgia di Euripide raffigura l’ineluttabilità della storia umana e l’indifferenza degli dei, spettatori attoniti e crudeli di fronte allo stupefacente spettacolo del mondo.

In più di sessant’anni di carriera Francesca Benedetti ha interpretato i più importanti ruoli femminili della storia del teatro classico e contemporaneo, e ispirato i più grandi registi italiani da Missiroli a Castri, da Cobelli a Ronconi a Strehler. Nata a Urbino, artista ecclettica di straordinario talento, racconta: “Ci sono tre eventi che nella mia vita artistica sono stati fondamentali e mi piace sempre ricordarli: nel 1974 lo spettacolo “Macbetto” scritto per me da Giovanni Testori (premio la Maschera con Lauro d’Oro), nel 1976 “Il Temporale” di Strindberg con la regia di Giorgio Strehler, fino ad arrivare al 1983 anno in cui con Emilio Isgrò fondammo le “Orestiadi” di Gibellina (protagonista per tre anni nel ruolo di Clitennestra)”.

Note di Regia di Giuseppe Argirò

Troia è caduta e in quel lembo di terra che separa il Chersoneso dalle macerie della città, le donne di Ilio attendono la sorte riservata ai vinti. Nella terra di Tracia i Greci aspettano venti Propizi alla navigazione, che potrà essere ripresa solo dopo il sacrificio di Polissena, superstite principessa troiana. La vittima immolata dagli Achei costituirà l’estremo onore riservato ad Achille e favorirà il viaggio di ritorno. Ecuba, la regina di Troia, dovrà subire questa decisione, frutto del l’orrore del conflitto sullo sfondo della città distrutta. La moglie di Priamo dovrà assistere a quest’ennesimo scempio in terra di Tracia, dove il più giovane dei suoi figli, Polidoro è stato ucciso dal re Polimestore, al quale il ragazzo era stato affidato con un ingente quantità d’oro nel tentativo di salvarlo. Questi i presupposti dell’azione drammatica che alimentano il dolore e i propositi di vendetta di Ecuba.

La protagonista di Euripide incarna una sofferenza senza fine, consumata in una disperata solitudine: Ecuba rappresenta il dolore assoluto, senza alcuna catarsi. In questo scenario bellico, lo spettro della guerra si svuota di ogni significato ideologico e declina la violenza in tutte le sue varianti che si propaga come una malattia senza cura, dai vincitori, ai vinti; vittime e carnefici vengono cosi accomunati dalla sopraffazione. Ecuba, custode della memoria della stirpe troiana, annientata dai Greci, non lascerà scampo al traditore Polimestore, infliggendogli un castigo tremendo. Una madre senza patria e senza figli mette in scena un dolore trasfigurante, irripetibile a qualsiasi latitudine scenica, come ci ricorda Amleto citando la complessità dell’arte teatrale. Protagonista di quest’ impresa è Francesca Benedetti, un’attrice multiforme ed emotivamente intelligente nel cogliere le peripezie dell’animo umano. Nello spettacolo sarà coadiuvata da Sergio Basile, Gianluigi Fogacci, Viola Graziosi. In un momento di assenza i pace in cui i teatri di guerra sono molteplici, raccontare gli orrori della violenza è un dovere etico che valica l’ aspetto estetico e ritrova le sue ragioni più profonde nel dibattito democratico, che solo il linguaggio scenico sa rendere evidente, nella sua necessità. La drammaturgia di Euripide raffigura l’ineluttabilità della storia umana e l’indifferenza degli dei, spettatori attoniti e crudeli di fronte allo stupefacente spettacolo del mondo.