Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 43 di 94
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Arriva a Roma, a Spazio Diamante dal 20 febbraio al 1° marzo (dal giovedì alla domenica), lo spettacolo TEBAS LAND di Sergio Blanco, traduzione, scene, costumi e regia di Angelo Savelli. Protagonisti: Ciro Masella e Samuele Picchi. Lo spettacolo – molto atteso – è una produzione di Pupi e Fresedde-Teatro di Rifredi Centro di Produzione Teatrale Firenze, vincitori del Premio Ubu Speciale 2019, “Per l’intenso lavoro di traduzione, allestimento e promozione della nuova drammaturgia internazionale”.

Lo spettacolo ha il patrocinio dell’Ambasciata dell’Uruguay in Italia.


Tebas Land” è un’opera del drammaturgo franco-uruguaiano Sergio Blanco, uno dei più originali e innovativi drammaturghi apparsi recentemente sulla scena internazionale. Il premio UBU Angelo Savelli ha curato la traduzione, per la prima volta in italiano di un testo di Blanco, la regia, le scene e i costumi di questa nuova produzione di Pupi e Fresedde-Teatro di Rifredi che vede protagonisti Ciro Masella e Samuele Picchi. Sergio Blanco ha scritto “Tebas Land” ispirandosi al leggendario mito di Edipo, alla vita del martire San Martino e a un fatto di cronaca giudiziaria, immaginato dallo stesso Blanco, il cui protagonista è un giovane parricida di nome Martino.

A partire da una serie di colloqui, che si svolgono nel recinto di un campetto di basket di una prigione, tra il giovane parricida e il drammaturgo che vorrebbe portare in scena la sua storia, “Tebas Land” a poco a poco si allontana dalla ricostruzione documentaristica del crimine, per soffermarsi (come in “A sangue freddo” di Truman Capote) sulla relazione che si instaura tra lo scrittore e il detenuto e sulla possibilità, e i rischi, di trasporre la realtà in una creazione artistica.

Il testo fonde l’emozione, la poesia e la passionalità del racconto di una terribile tragedia familiare con la lucidità e l’astrazione di una acuta riflessione sul linguaggio e la comunicazione teatrale, dove lo spettacolo viene montato e smontato in diretta sotto gli occhi del pubblico in un affascinante gioco di scatole cinesi.

Ho sentito l’urgenza di mettere in scena Tebas Land – dichiara Angelo Savelli – perché l’ho trovato intelligente, spiazzante, autoironico, colto, commovente, violento, popolare, delicato e molto altro…sono certo che anche gli spettatori non resteranno indifferenti al fascino di questo testo”.

Ancora poco conosciuto in Italia, Sergio Blanco è il creatore di una radicale forma di drammaturgia, da lui definita “auto-finzione”, in cui l’autore si mette personalmente e spudoratamente in scena, incrociando la sua biografia, vera e immaginaria, con temi di forte attualità e riflessioni sull’arte e la vita. La sua più recente opera “El bramido de Düsseldorf”, nell’edizione uruguaiana da lui stesso diretta, è stata presentata con grandissimo successo al Vie Festival 2019 di Modena.

Dopo essere stato messo in scena nelle più importanti città del Sud America, oltre che a Madrid e Londra, “Tebas Land” sarà rappresentato in diverse capitali europee, a New York, Tokyo, e nella versione di Pupi e Fresedde a Firenze, Roma e Napoli.

Il Centro di Produzione Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi porta avanti da molti anni un progetto di promozione della nuova drammaturgia contemporanea mettendo in scena testi di autori largamente affermati all’estero ma poco conosciuti in Italia. Grazie a questo impegnativo lavoro di ricerca e scoperta sono arrivati sui palcoscenici italiani autori come il franco-uruguaiano Sergio Blanco (“Tebas Land”), il catalano Josep Maria Miró (“Il Principio di Archimede”), il francese Rémi De Vos (“Alpenstock”, “Occidente”, “Per tutta la mia vita ho fatto solo cose che non sapevo fare”, “Tre Rotture”), delle cui opere Angelo Savelli ha curato traduzione e regia. Ricordiamo inoltre “Walking Thérapie” di Nicolas Buysse, Fabrice Murgia e Fabio Zenoni tradotto da Savelli e diretto dai tre estrosi teatranti belgi. I prossimi appuntamenti del progetto vedranno in scena al Teatro di Rifredi anche con gli spettacoli “Tre Rotture” (dall’11 al 15 febbraio) e “Il Principio di Archimede” (dal 19 marzo al 5 aprile).

Ce la ricorderemo sì questa 70esima edizione del Festival della Canzone Italiana; ce la ricorderemo per un bel numero di motivi, precisamente 10, a mio avviso.

  1. Una discreta dose di imprevisti: Il giornalista di Sky che si addormenta e così la notizia circa il vincitore di Sanremo è resa nota prima ancora della proclamazione. E così quasi un’ora prima del verdetto, tutti sapevamo già che aveva vinto Diodato. E che palle, vien da dire! Abbiamo resistito per 5 serate fino alle 2 e passa di notte, per poi veder svanito quel momento in cui tutti dicono la propria e quasi mai nessuno ha ragione.
    Bugo viene squalificato insieme a Morgan che cambia le parole della canzone in gara per vendicarsi di un arrangiamento non accettato, per punirlo e alla fine finiscono tutti e due fuori dalla gara. Morgan è il solito irrequieto, ma ha anche un pochetto rotto le scatole con questo atteggiamento da professore. Ma resto dell’idea che quello forse è stato l’unico modo che i due avevano per far parlare di sé, considerato che la canzone era davvero brutta. E poi ancora Junior Cally maschera sì, maschera no, e alla fine a volto scoperto ha mostrato molti più elementi iconici di quanto si immaginasse. E Tiziano Ferro che deve recuperare il rapporto con Fiorello dopo quella frase infelice sul tempo che lui ruba ed è costretto a lasciare biglietti di scuse in giro, fino al bacino in diretta per consacrare la pec fatta.
  2. Ci è voluta tanta resistenza per arrivare fino in fondo. 5 serate di cui le ultime 3 sono terminate a notte fonda, non sono una passeggiata di salute. Una lungaggine mai vista, fino allo sfinimento e lui, Amadeus, come un soldatino di piombo che non ha perso un colpo ma ha fatto anche altro; ha dimostrato che ci si può rialzare con classe e dignità dopo uno scivolone. E così dopo averci scherzato su, sdrammatizzando circa quella frase infelice della donna che sa fare un passo indietro, si è dimostrato un presentatore capace, un professionista che ha retto benissimo le redini della Kermesse, senza sentirsi mai divo, portando tra l’altro con disinvoltura quelle orrende giacche modello tappezzeria barocca che gli hanno dato da indossare sera dopo sera.
  3.  L’essere “figli di” aiuta, non prendiamoci in giro. Sarei curiosa di sapere se Leo Gassman avrebbe vinto uguale se non fosse stato il figlio di Alessandro e il nipote dell’immenso Vittorio Gassman. E allora a mio avviso se avesse voluto per davvero mettersi in gioco, avrebbe dovuto gareggiare ed entrare nel mondo della musica con uno pseudonimo. Allora sì che sarebbe stata una vera e bella sfida. Che poi il giovanotto, farà fatica a fare i conti con quel cognome ingombrante, tra un po’, anche se fino ad ora gli è stato così utile. Tutto questo talento non l’ho visto in lui né tantomeno tra gli altri giovani in gara.
  4.  A proposito di talento, questa edizione del Festival  ci ha ricordato che esistono diverse forme di talento, anche se inevitabilmente in una kermesse canora si ricerca il bel canto, il testo che possa far riflettere, il bell’arrangiamento. E non sempre tutto questo sta in un solo pezzo  … o forse sì. Tosca è stata quella che ha racchiuso tutto questo nella sua “ho amato tutto” e non è un caso che sia stata premiata dall’orchestra la sera dei duetti e poi ieri con il premio Giancarlo Bigazzi. Però è talento anche quello di chi si inventa un messaggio e poi usa la musica per veicolarlo. Il caso Achille Lauro ne è testimonianza. Sbaglia chi dice che non ha uno straccio di talento. Probabilmente non riconosceremo il pezzo, non ricorderemo le parole così come è accaduto invece lo scorso anno, ma sicuramente lo ricorderemo come colui che nel terzo millennio ha osato quello che fu dei grandi della musica in passato, da Bowie a Jagger fino a Renato Zero. Trasformismi non a caso, quelli del giovane cantante, che è stato tante cose ma alla fine sempre se stesso, dissacrante, convinto a voler scuotere dal significato troppo scontato di una performance sanremese e dalla distinzione tra generi. Ognuno di noi alla fine prima o poi si mette a nudo, dopo essere stato tante cose, dopo aver finto ruoli improbabili, o dopo aver scoperto che alla fine conta solo quello che si prova e non quello che gli altri vorrebbero da un noi e che spesso non esiste. Ha fatto e continuerà a far parlare di se Achille Lauro che con la sua “me ne frego” ha sancito un sodalizio anche con i malpensanti di turno.
  5. Abbiamo capito che la musica Indi che sta per Indipendente ha molto da dire e da dare. Si pensi ai Pinguini Tattini Nucleari, a Levante, a Sanremo, ma ancora Coez, Calcutta e tanti altri ancora. Un po’ meno da dire hanno forse i rapper italiani, che scandiscono male anche le parole e alla fine devi andare a capire cosa mai vorranno dire; o al contrario sono così maldestramente o convintamente espliciti.
  6. La bellezza da sola può davvero poco, come anche l’essere la moglie di, la fidanzata di. Perché ci vuole talento anche nell’essere belle e il look è solo l’ultimo tassello di una modalità estetica che deve contemplare raffinatezza, garbo e un pizzico di cultura. Le “vallette” o co-conduttrici che dir si voglia sono appartenute a due categorie difficili da mettere insieme; eppure Amadeus c’è riuscito a far convivere la bellezza delle giornaliste con quella delle modelle, mentre ognuno alla fine si è schierato con ciò che più ama di solito. Perché non è vero che la bellezza mette tutti d’accordo.
  7. Non è più il tempo dei super ospiti stranieri, i tempi della Whitney Huston e degli U2. Nell’edizione 2020 hanno fatto un figurone gli italiani. Zucchero, per esempio e poi Ghali e ancora Roberto Benigni che era in gran forma mentre raccontava “candidamente” il “cantico dei cantici”. E Fiorello, showman superlativo, che ha riempito molti spazi della kermesse con l’arte di chi sa fare tutti e tutto bene. Perché alla fine i nuovi divi, fuori dalle sale di incisioni, perdono ogni appeal, sono spesso fuori forma e privi di pathos.
  8. Chi mi ha seguito lo sa, per me questo festival sarà ricordato come quello con il maggior numero di stonature, di note fuori posto e fuori tempo. Dall’ospite fisso Tiziano Ferro a molto dei cantanti in gara, compreso gli ospiti della sera dei duetti. Non ci posso fare nulla, per me il canto deve passare dal controllo vocale che è imprescindibile e poi pian piano come in una soffice millefoglie tutti i particolari prendono posto; l’armonia, l’interpretazione, la capacità di modulare, i vibrati, i respiri e le piccole imperfezioni così care ai cantanti del passato che ne fecero il loro segno distintivo; ecco infatti, piccole imperfezioni, non eclatanti.
  9. Un po’ si è persa di vista la bellezza assoluta delle grandi orchestre, nel tempo dell’autotune e del fai da te, ma poi arriva Sanremo in tv in prima serata Rai e si deve necessariamente fare i conti con la bravura del lavoro di insieme, perché è proprio vero che alcune cose riescono meglio quando c’è sinergia e quest’anno gli eccellenti maestri dell’orchestra hanno salvato molte esibizioni.
  10. Il potere delle masse che inibisce il libero arbitrio. Nessuno ha più il coraggio di dire che vede Sanremo, tutti a denigrare la kermesse canora che esiste da 70 anni, tutti a mostrarsi sofisticati andando (fintamente) controcorrente, atteggiandosi a grande esperto di musica, di costume e di società e poi alla fine tutti lì incollati, mentre mai come quest’anno gli ascolti sono stati altissimi, per uno dei programmi più ricchi di musica, costume e società. Oltre 10 milioni di spettatori ogni sera. E quest’anno lo ricorderemo perché tra problemi politici, sanitari e mondiali, hanno tutti smesso di parlare di questo o quello per 5 lunghi giorni e dentro e fuori i social si è parlato solo di Sanremo.
    Perché Sanremo è Sanremo pararà

Simona Stammelluti 

Vince il festival di Sanremo 2020 Diodato con “fai rumore”

Secondo Gabbani con “viceversa”

Terzi i Pinguini Tattici Nucleari con “Ringo Starr”

Premio  della critica “Mia Martini” va a Diodato  con “Fai rumore”

Premio “Lucio Dalla” sezione campioni va ancora a Diodato 

Premio Sergio Bardotti a Rancore con “Eden” 

Premio Giancarlo Bigazzi dei maestri dell’orchestra a Tosca con “ho amato tutto” 

Premio TIM Music a Francesco Gabbani con “viceversa” 

Che fatica è stato arrivare in fondo tra le solite critiche, le nottate, i colpi di scena, le stonature, i look, i significati nascosti, gli evergreen e il nuovo che avanza.

Fiorello superstar, che chiude cantando “amore baciami” di Bongusto.
Le donne se la sono cavata, chi più chi meno.
Plauso ad Amadeus che si consacra ottimo presentatore della Kermesse.

Inchino alla fantastica orchestra della Rai.

A domani, con tutto quello che non ho detto in questi giorni sul Festival di Sanremo

 

Simona Stammelluti

Ricorderemo questa 70esima edizione del Festival della Canzone Italiana come una esperienza quasi mistica, per eroici. Amadeus e “compagnia cantante” trascinano gli spettatori più coraggiosi fin dentro la notte, quando per sfinimento, quasi ti va bene tutto.
E così quando sono le due del mattino ti desti dal torpore del sonno che vorrebbe prendere il sopravvento, mentre Morgan – che a quanto pare ha deciso di punire Bugo cambiando le parole della canzone – si accorge che il suo compagno di palco non entra in scena, costringendo l’organizzazione a squalificarli dalla gara. 

Cose da Morgan, verrebbe da dire, ma invece diciamo che la canzone non era manco un granché, che Bugo se ne farà una ragione ed io al posto suo non tornerei sul palco manco se la direzione decidesse di ospitarmi, da solo e fuori gara. Chissà cosa deciderà Amadeus.

Una serata lunga, dicevamo, lunghissima nella quale si decreta il vincitore tra i giovani che quest’anno è Leo Gassman figlio del noto attore, con il brano “Vai bene così“. Le polemiche sono dietro l’angolo perché è facile pensare che qualcuno si sia lasciato influenzare dal cognome. Io penso che le canzoni in gara fossero quest’anno debolucce e che di talenti manco l’ombra, per cui davvero uno sarebbe valso l’altro. Tecla però vince il “premio Lucio Dalla” dalla sala stampa per il suo pezzo “8 marzo“.

Il premio della critica Mia Martini per le nuove proposte, assegnato dai giornalisti della sala stampa dell’Ariston, va agli Eugenio in Via Di Gioia.

Le canzoni dei 24 big, tutti concentrati nella 4a serata del Festival di Sanremo, scorrono lente e mentre ci si abitua a qualche ritornello e ci si ricrede (ma solo un po’) su alcuni degli artisti in gara, capita di assistere a momenti commoventi come il saluto a  Vincenzo Mollica, memoria storica del Festival che lascia per sempre Sanremo, o un Fiorello in gran forma che canta swing Quando Quando, con un Tony Renis che diventa direttore d’orchestra; Fiorello dimostra di essere un eccellente show-man ma ancor più di essere in grado di cantare meglio della metà degli artisti in gara.

Le “vallette” sono Antonella Clerici e la fidanzata di Valentino Rossi, Francesca Sofia Novello; Quella di “un passo indietro” per intenderci.

Tra gli ospiti la Nannini che canta con Coez, ma il risultato non è entusiasmante.
E poi ancora Dua Lipa la superstar di origine albanese, che fa milioni di visualizzazioni su youtube. Bella presenza scenica, canta e balla “Don’t start now” e tutto scorre come da programma.

Bravo Ghali, ospite anch’egli, che dopo l’ingresso scenografico di una finta caduta per le scale, regala all’Ariston un medley ben eseguito.

Alla fine delle lunga serata seguita da quasi dieci milioni di telespettatori, la Sala Stampa porta in vetta Diodato, seguito da Gabbani, Pinguini Tattici nucleari.

Ah dimenticavo Tiziano Ferro, che in queste ore impegnato è stato impegnato a ricucire i rapporti con Fiorello con il quale ieri sera si è scambiato un bacino. Cosa non si fa per campà.

Stasera l’ultima serata.
Ce la possiamo fare.

Simona Stammelluti 

 

 

Una maratona di oltre 5 ore che termina alle 2 del mattino, per assistere a 24 duetti di big che si sono cimentati con le canzoni delle ultime 69 edizioni del festival della canzone italiana. Protagonista assoluta l’orchestra che non solo ha eseguito 24 arrangiamenti nuovi, ma ha avuto il compito di votare le performance, il pezzo meglio eseguito, l’originalità ed il carisma. Non è stato un caso che a vincere sia stata lei, Tosca, la migliore non solo nella kermesse sanremese ma anche in tutto il panorama italiano contemporaneo.
Vince lei, per i maestri dell’orchesta, con il brano che fu di Lucio Dalla “Piazza grande” riarrangiato da Joe Barbieri con il quale la talentuosa artista romana ha stretto da tempo un fortunato sodalizio; lo storico pezzo eseguito in duetto con la cantante spagnola Silvia Perez Cruz, figlia d’arte, polistrumentista e capace di vedere nelle canzoni vere storie da raccontare.
Tosca è carisma, talento, personalità canora; è passione, intonazione, interpretazione; Tosca è arte allo stato puro ed è un dono per la musica, ed anche per Sanremo. Variazioni sul tema per le due cantanti che rivisitano il pezzo di Dalla mentre le due voci si accostano, si fondono, incantano, entusiasmano, anche quando la musica si ferma, prima del finale.
Con loro sul palco anche la talentuosa violoncellista Giovanna Famulari, che da anni lavora con Tosca e Ron. 
Sul podio anche Piero Pelù secondo con “Cuore Matto” e terzi i Pingiuni Tattici Nucleari con “settanta volte” e che con la loro performance convincono (anche l’orchestra) e poi svoltano a medley e citano Achille Lauro e la sua “rolls Roy’s”.
Degli altri artisti poco si può dire se non che sembravano tutti “sotto tono”, fuori forma, imprecisi, con duetti a volte improbabili.
Buona la performance sofisticata di Gualazzi che canta “e se domani” con Simona Molinari. E poi ancora Achille Lauro che si piazza 16esimo, omaggia con il suo look da Ziggy Stardust uno dei tanti alter ego di David Bowie, con quel trucco che all’epoca era glam rock; si accompagna sul palco dell’Ariston con Annalisa, una delle voci più belle uscite dal Talent della De Filippi mentre interpretano “Gli uomini non cambiano” che fu di Mia Martini scritta da Bigazzi e Falagiani. Sceglie Mia Martini anche Giordana Angi che canta “la nevicata del 56” ma non convince l’orchestra è finisce al 18 posto in classifica malgrado la performance sia stata buona e con lei sul palco c’erano anche i talentuosi Solis String Quartet.
Anastasio 4º in classifica dopo il voto dell’orchestra sceglie la PFM per esibirsi, un pezzo di storia insomma e il pezzo è “spalle al muro” di Mariella Nava.
Aleggia l’anima di Enzo Jannacci all’Ariston nella sua “se me lo dicevi prima” eseguita da suo figlio Paolo che tanto lo ricorda in movenze e voce e che si assesta al 7º posto.
Tra le peggiori performance quella di Alberto Urso 20esimo che paga lo scotto di fare il duetto con una Ornella Vanoni che non ce la fa più e che dovrebbe ritirarsi dalle scene; stonata e fuori tempo, trascina nel baratro anche il giovane tenore.
Fuori forma o troppo audace Arisa, scelta da Marco Masini per il duetto di “vacanze romane”. Strozzata nelle note alte, stentiamo a riconoscere colei che vinse Sanremo cantando in maniera impeccabile e deliziosa “controvento” nel non lontano 2014.
La serata è orfana di Fiorello, ma scorre ugualmente tra coreografie del corpo di ballo, un Tiziano Ferro che canta decisamente meglio delle altre sere un suo bel brano “dentro a questo inverno”. Tra i super ospiti Mika bravissimo, che racconta come l’Italia più la conosci meno la capisci, e come le canzoni di De Andrè gli hanno fatto capire tante cose dell’Italia “Ha scritto una canzone che dice la stessa cose che penso io. C’è amore nel mondo ma non basta per tutti e allora dobbiamo passarcelo e perdonare quando se ne va” – dice ancora Mika che poi esegue “Amore che vieni amore che vai” in un arrangiamento stupendo.
Ospite della terza puntata del festival di Sanremo anche Roberto Benigni in gran forma, che decanta il “cantico dei cantici” e che a suo dire è un testo erotico santissimo. La sacra scrittura – dice – ama l’amore e le gioie del sesso. È il libro del desiderio che però è diverso dal bisogno. Perché l’amore non è possesso ma continua conquista. Il desidero non si placa mai. È la coppia protagonista, lei e lui che si amano, in ogni luogo e in ogni epoca – continua Benigni – Il cantico rappresenta tutte le copie che si amano. Ogni persona umana che ama. Il cantico è il luogo dove si compie l’amore. Chi l’ha scritto – conclude Benigni – è orafo della parola e ha lavorato per l’eternità. Ha creato un diadema pronto ad essere indossato e dopo 2400 anni si posa sui nostro cuori”. 
Ospite canoro Lewis Capaldi il cantautore britannico famoso per il suo singolo “Someone You Loved” che nel marzo 2019 ha conquistato la classifica dei singoli nel Regno Unito, ma la performance ieri sera a Sanremo è stata deludente; sembra che questi grandi artisti, fuori dalle sale di incisione, perdano ogni magia canora.
Ad affiancare Amadeus la modella argentina Georgina Rodriguez compagna di Ronaldo che non azzecca una parola in italiano (studiare quelle 4 battute no?) e che si lancia in un tango con tutta prorompenza ma senza la leggiadria che su quel palco fu di Belen.
Al fianco del presentatore anche la conduttrice televisiva albanese Alketa Vejsiu biondissima, impeccabile nel suo abito Dolce&Gabbana, che sfoggia un italiano impeccabile e che a notte fonda prima della classifica finale,  regala un monologo in cui ricorda il sogno italiano per loro che dall’Albania raggiungevano il bel paese dall’altra parte dell’Adriatico; racconta di quell’Italia in cui la musica è stata sempre un faro per il resto del continente.
Simona Stammelluti 

Ma sì, facciamola un po’ di pubblicità alla concorrenza!
La verità è che Fiorello  da bravo show-man tutto può, finanche travestirsi da Maria De Filippi, aprire la seconda puntata del Festival di Sanremo ed essere così credibile da indurre “nostra signora della tv” a telefonare a Fiorello, in diretta, proprio mentre è sul palco e dopo essersi complimentata con Amadeus, si presta simpaticamente allo sketch del doppiaggio.

Si entra nel vivo delle nuove proposte e tra gli altri 4 in gara, passano Fasma e Marco Sentieri, ma il livello è basso e se avessi dovuto premiare qualcuno, avrei fatto passare al successivo step Gabriella Martinelli e Lula (anche batterista) con la loro canzone che parla del dramma dell’Ilva con il loro pezzo “Il gigante d’acciaio“.

E’ il  5 febbraio, e allora un pensiero va a Fabrizio Frizzi che in questo giorno avrebbe compiuto gli anni e con grande sobrietà, con indosso un abito meraviglioso, calca il palco la vedova di Frizzi, Carlotta Mantovan, accolta da lungo applauso dedicato al presentatore prematuramente scomparso.

Sanremo ha un corpo di ballo, ed è ancora Fiorello il protagonista; Lui che canta e poi balla, tra  ballerini e ballerine tra i quali spicca Leon Di Domenico, talentuoso ballerino diciannovenne di Vallo della Lucania che studia all’accademia di danza di Londra dopo stage a Madrid e Los Angeles.

Ma Sanremo è kermesse canora e tocca cominciare.

Piero Pelù  apre la gara, ma è sotto tono, e subito dopo come per magia sul palco arrivano le splendide giornaliste RAI Laura Chimenti e Emma d’Aquino.

E’ il turno della Lamborghini con una tuta improbabile e un pezzo che manco nei peggiori bar di Caracas.  Tra gli ospiti Il tennista Novak Đoković costretto a cantare “terra promessa” con Fiorello in un siparietto penoso.

Nigiotti, scarso con la sua “baciami adesso“, si concede un assolo di chitarra.  Sabrina Salerno sembra uscita dritta dritta dal 1980 calandosi a tempo di record nei panni della valletta.

La cantante siciliana indi-pop Levante, arriva sul palco con un delizioso abito rosa, e  con un pezzo discreto, buon sound, nel suo stile, ma ha problemi con il cantato, come se fosse fuori forma o forse gioca brutti scherzi l’emozione da palco sanremese. Sull’onda della musica indi arrivano i Pinguini Tattici Nucleari, che un po’ ricordano “lo stato sociale”, ma restano nei canoni del loro genere con il pezzo “Ringo Starr“.

Avevo dimenticato che è ospite fisso ed invece torna Tiziano Ferro, questa volta insieme a Massimo Ranieri, e si spartiscono il famoso pezzo “perdere l’Amore“. Ma Ferro non ce la fa e sarà scarso nella performance anche quando, nella seconda metà della serata canora, intonerà alcuni dei suoi più famosi pezzi come “Serenere“.

E’ Tosca a regalare in mondovisione il momento più bello e più alto della serata, e di tutto il Festival fino ad ora. Presenza scenica, ottimo look, intonazione impeccabile, personalità da vendere e un pezzo davvero bello “ho amato tutto“. Sembra essere decontestualizzata per quanto è brava, sembra sovrastare completamente tutto il resto. Come se fosse ospite sopraffino e non cantante in gara che, se fosse per merito, vincerebbe a mani basse, ma la classifica all’una e mezzo di notte – seppur provvisoria – dirà altro.

Momento toccante quando Amadeus con accanto il Maestro De Amicis introduce la canzone di Paolo Palumbo, ragazzo 22enne che da 4 anni è affetto da SLA. E parte l’hashtag #iostoconpaolo

Come annunciato da Amadeus stretto in uno dei suoi abiti glitterati, arrivano i Ricchi e Poveri, tutti e 4, anche con la Occhiena e la reunion dopo 40 anni, avviene in playback, così, giusto per non correre il rischio di figuracce. Partono con la versione tarocca di “everlasting love” per poi adagiarsi su quelli che furono i loro successi.

Ospite – ma direi super ospite – Zucchero, che si conferma essere un grande artista, che calca quel palco che fu suo nel 1985 con “Donne” e che accompagnato da coristi stratosferici, risolleva le sorti della Kermesse canora.

E’ il turno di Gabbani, che sarà primo in classifica alla fine della seconda serata,  Paolo Jannacci emoziona con il pezzo “Voglio parlarti adesso” e con quella somiglianza spiccata con suo papà.

Che Sanremo sarebbe senza “non dirgli mai” di Gigi D’Alessio, canzone che festeggia 20 anni. Gigi alla fine è uno che se la canta e se la suona e che – va ricordato per onore di cronaca – ha venduto oltre 30 milioni di dischi in tutto il mondo.

Arriva Rancore, ma nessuno sa chi sia, manco chi l’ha portato al festival.
Ancora Ranieri che fa la sua figura e ancora Tiziano Ferro condannato alla stonatura a vita.

E’ notte fonda quando arriva lui, Junior Cally,  senza maschera, con la faccia da pischello, quel suo “no no grazie” e vestit0 con una giacca che ricorda le divise naziste.

E i monologhi?
Apprezzabile quello di Emma d’Aquino sul mestiere del giornalista e sul diritto alla libertà di informazione, un po’ meno quello che arriverà più in là da Laura Chimenti che altro non è che una lettera melensa alle 3 figlie. Forse si poteva evitare.

In finale di gara tra big Giordana Angi, che paga lo scotto di cantare per penultima all’una e un quarto di notte, che è vocalmente brava ma che perde l’occasione di fare bene, perché a mio avviso la canzone ha un testo troppo banale.
Zarrillo torna a Sanremo, ma se non lo avesse fatto, era lo stesso.

Nella classifica Gabbani primo, Junior Kelly ultimo.

Così sia

 

a domani

Simona Stammelluti 

Sanremo assomiglia sempre più ad un grande show che ha bisogno di elementi che si muovano nello spazio, che riempiano tempo e che vadano a tempo, piuttosto che ad una kermesse canora.
E così parte anche la 70esima edizione del festival di Sanremo, quest’anno diretto e condotto da Amadeus (neanche tanto male alla conduzione) che si lascia affiancare da un Fiorello che apre la prima puntata vestito da prete, che fa ridere ma non troppo, e poi ancora da Diletta Leotta che sembra un po’ svampita, e che ritmo nella co-condizione non ne ha, e da Rula Jebreal la giornalista  palestinese, che non solo da una vera stoccata al presentatore con quella sua “e stasera facciamo tutti un passo avanti, così evitiamo le gaffe”, ma che nella seconda parte della kermesse regalerà ad pubblico a casa e in sala, il già annunciato monologo contro la violenza sulle donne, raccontando la storia vera di lei bambina che ascoltava le storie delle donne stuprate e di sua madre che si è suicidata perché voleva liberasi del suo corpo che era stata la sua tortura. Il suo monologo intervallato delle parole di canzoni scritte da uomini, Battiato, Vasco Rossi e Francesco De Gregori. 
Entrando nel vivo delle manifestazione canora, sono stati 4 i giovani della sezione nuove proposte ad esibirsi e hanno passato il turno Tecla e Leo Gassman. Strana questa sezione dove ci sono voci carine ma canzoni brutte, e viceversa. Ma alla fine passa la canzone sanremese di Tecla e l’appeal di Gassman. 
I big ad esibirsi sono 12, e tra cose già sentite (Achille Lauro, che però fa parlare di sé passando dal mantello alla calzamaglia nel giro di 2 minuti) e canzoni improponibili la serata, lunghissima, può contare sulla bravura indiscussa dell’orchestra che da sempre regala il piacere della musica. 
Primi Le Vibrazioni alla fine della prima puntata, ultimo Morgan con Bugo. Nel mezzo una Rita Pavone che non si arrende, Anastasio che porta un pezzo con un buon sound, Elodie che fa la diva nel suo vestito Versace che arriva seconda in classifica ma con un pezzo a mio parere scarso. Masini resta coerente, malgrado il cambio di look e la sua canzone ancora una volta è adatta al palco dell’Ariston e canta senza sbavature. Diodato poco incisivo, malgrado l’intonazione, ma ancora abbiamo nelle orecchio il pezzo colonna sonora del film di Ozpetek. Irene Grandi delude, malgrado la canzone le sia stata scritta da Vasco Rossi e Gaetano Curreri. E poi ancora Riki (ce l’eravamo dimenticato) e Alberto Urso di cui nulla posso dire perché è come se non ci fosse stato, su quel palco. Canta per ultimo Raphael Gualazzi, con un pezzo carioca, carino ma lui sembra uscito da un cartone animato.
Ma come dicevamo Sanremo è un grande Show con ospiti di vario genere.
Scandaloso Tiziano Ferro  – che sarà a quanto sembra ospite fisso – che storpia completamente “Almeno tu nell’universo” di Mia Martini e che si salva cantando la sua  “Si accettano miracoli“. Da sempre sostengo che Ferro sia un bravo autore e che dovrebbe scrivere per altri e lasciar stare il canto, perché se in sala di incisione lo aiutano, dal vivo finisce per fare figuracce e questo è un gran peccato perché un artista deve poter essere apprezzato per quel che sa realmente fare e lui sa scrivere ma non sa cantare.
Pessima figura anche per Romina Power e Albano che dopo un melenso revival dei loto antichi successi, si piegano al playback per cantare una canzone scritta da Cristiano Malgioglio, che è presente in sala tra il pubblico. Il tutto con la presentazione della figlia Romina Carrisi, apparsa come un cavolo a merenda sul palco. Cosa non si fa per piazzare i figli da qualche parte!
Pure Emma Marrone, canta … dentro e fuori l’Ariston. Ma sale sul palco come “attrice” insieme a Favino, Rossi Stuart. Claudio Santamaria e Micaela Ramazzotti,  ognuno con un piccolo monologo e tutti protagonisti del nuovo film di Gabriele Muccino, e quale palco migliore dell’Ariston per pubblicizzare un film?
Sembrerebbe l’edizione votata al messaggio contro il femminicidio, tanto che Gessica Notaro, la ragazza trasfigurata con l’acido dall’ex fidanzato, con la passione per il canto, sale sul palco sanremese e canta con il suo amico Antonio Maggio.
Una lunga serata che si consuma tra abiti bellissimi, molti momenti di noia, e la musica di Sanremo, che fa parlare di se tutto l’anno, che non mette mai tutti d’accordo, ma che resta un’appuntamento a cui si fa fatica a mancare, almeno per noi addetti ai lavori.
A domani
Simona Stammelluti 

Ieri sera ho visto “Judy” il film di Rupert Goold nelle sale in questi giorni, con una straordinaria Renée Zellweger (candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista) che ha incarnato in maniera impeccabile Judy Garland nel racconto dell’ultimo periodo della sua carriera.
Non nascondo che sul finale del film, in una sala in cui è regnato un silenzio assoluto per tutta la durata della pellicola, mi sono commossa;

quella commozione esplosa nel mentre la talentuosa cantante capisce che ormai è arrivata la fine e non ci sarà più nulla per lei, e così canta per l’ultima volta “Over the rainbow”, si commuove, le si rompe la voce, non ce la fa a continuare e allora il pubblico londinese si alza in piedi e canta al posto suo, prima che si apra un applauso infinito.

Ma quella commozione parte all’inizio e accompagna tutta la durata del film mentre allo spettatore è dato di sapere che la vita può esserti nemica sin da subito, quando un talento può divenire una condanna e quando tutta la tua esistenza diventa pesantissima da portare sulle spalle, malgrado la leggerezza della fama, della notorietà, dei soldi che però poi finiscono, e ti costringono a fare scelte che non vuoi, vivere luoghi che ti diventano ostili, mentre rinunci all’unica cosa che ti interessa davvero, i tuoi figli.
Una serie di flash-back verso un passato di Judy bambina prodigio, privata della sua giovinezza, incastrata tra anfetamine per non avere fame e sonniferi per poter dormire, mentre con le trecce di Dorothy nel famoso “Mago di Oz”, viene plagiata da un produttore despota, e sogna un futuro che però non le riserverà la felicità. Una felicità cercata in amore effimeri, mentre sposa 5 uomini senza amarne nessuno e senza mai essere amata veramente.

La tristezza negli occhi truccati di nero di una Judy Garland con i capelli corti, magra e costretta a lasciare i suoi figli più piccoli con il padre perché non può più prendersene cura. Ci prova, lasciando tutto e trasferendosi a Londra dove ancora la osannano, ma alla fine fallisce. I figli restano lontano da lei, e lei lontana da se stessa.

Un excursus in un periodo storico anche, non solo nella biografia di quella che fu una grande artista holliwoodiana; il periodo dello star system, della droga, dell’alcool, di quel sistema in cui pur di fare soldi si stritolano gli artisti fino a farli divenire macchine che però si inceppano e allora vanno sostituite.

Rupert Goold punta l’attenzione su quel meccanismo, su come i soldi e la fama sono le uniche luci sulla vita di un personaggio che anziché viverla la vita, passa l’esistenza a convincersi di essere “solo una goccia nel mare” e che dunque, non ci si può permettere nessuna défaillance. Ma quelle défaillance Judy le incontra tutte, nell’ultima stagione della sua vita, mentre scopre di essere sola, con un bicchiere in mano, vestita di quella tenerezza  che percorre tutto il film, e arriva prorompente fino allo spettatore.

Nella pellicola solo un piccolo accenno al rapporto tra Judy Garland e sua figlia Liza Minnelli nata dal secondo matrimonio della cantante con il regista Vincente Minnelli. Le immagini sono quelle di una festa a casa di sua figlia, dove Judy si reca solo per avere un posto dove stare.

Renée Zellweger – giustamente candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista – è perfettamente calata nel personaggio; movenze, manie e quel modo di muovere gli occhi che fu segno distintivo della Garland. Credibile e amabile, mentre cerca un contatto umano sincero e autentico che trova nella donna che si occupa di lei durante i concerti londinesi e in quella coppia gay, innamorati della sua arte canora e che per una sera riescono a non lasciarla sola e non farla sentire sola.

La fotografia non eccellente, riesce a dare alla pellicola i toni e a riprodurre la forma dell’epoca; molti i primi piani che mettono in risalto lo sguardo nel vuoto di Judy bambina abbandonata al suo successo e di Judy donna abbandonata al suo insuccesso.

Un film senza sorprese, canonicamente calato nel genere biopic, con una regia semplice ma efficace, che da alla protagonista la possibilità di tornare a “casa”, dentro un dolore che nessuna ribalta fu capace di cancellare mai.

 

Simona Stammelluti

Enrico Remigio, di Pescara manager di un’azienda motociclistica, che lavora  a Singapore ha appena vinto un milione di euro a “chi vuol essere milionario” rispondendo ad una domanda su Gene Cernan: “cosa lasciò scritto sul suolo lunare l’ultimo uomo che mise piede sulla luna?

Decide di raccogliere la sfida, Enrico e abbandona l’assegno di 300 mila euro nella speranza di vincere l’ambito premio. Se sbaglia scende a 70 mila ma come dice Gerry Scotti questa trasmissione prevede un pizzico di spregiudicatezza; “only the brave” cose per coraggiosi, insomma.

Il presentatore lo guida nel ragionamento fino alla scelta di provare a rispondere all’ultima domanda;

le 4 opzioni sono:

– A il simbolo della pace

B le iniziali della figlia (quella esatta) 

– C god bless America

– D Gene was here

Il concorrente sempre più convinto a dare la risposta, segue le indicazioni di Gerry Scotti che gli ricorda che la domanda prevede la parola “scrivere” e che invece il simbolo della pace non è scritto ma solo disegnato. E così dopo averci riflettuto su decide di ipotizzare che il gesto più bello, carico d’amore che non prevede molta fatica nell’atto stesso di scrivere sul suolo lunare potesse essere quello di lasciare in quel luogo le iniziali di sua figlia.
La sua famiglia non è convinta che stia facendo la scelta giusta rinunciando ai 300 mila euro già vinti, ma lo sostiene.
Scotti gli chiede di strappare quell’assegno.
Se perde torna a 70 mila, il traguardo che lo stesso Enrico si era posto.
Prima di rispondere riflette sul fatto che comunque è un gioco e dunque è bene andare fino in fondo.
E così dopo essere arrivato da Singapore a sue spese, torna dall’altra parte del mondo, stringendo tra le mani un assegno da un milione di euro.

Audaces fortuna iuvat 

 

Simona Stammelluti

 

Sarà in scena allo Spazio Diamante dal 24 al 27 gennaio, Il VENDITORE DI SIGARI di Amos Kamil, con Gaetano Callegaro e Francesco Paolo Cosenza, regia Alberto Oliva; una produzione MTM Manifatture Teatrali Milanesi.

Lo spettacolo rientra nel ciclo di eventi che Oti-Officine del teatro italiano ha programmato per celebrare il Giorno della memoria.

Sinossi

Berlino 1947, ore sei e trenta. Nella Germania appena uscita dalla guerra, tutte le mattine alla stessa ora, due uomini si incontrano: un professore ebreo che vuole partire per fondare lo Stato di Israele e il proprietario di una tabaccheria, dall’aspetto tipicamente tedesco. Sono sopravvissuti alla tragedia che ha appena sconvolto e quasi annientato un popolo intero. Si attaccano, si rinfacciano colpe reciproche e recriminano sui torti subiti, fino a scoprire dolorosamente quanto gli obblighi della Storia possano condizionare il modo di agire dei singoli individui, quando, completamente soli, devono affrontare il proprio destino. Si gioca una partita in cui è impossibile giudicare vincitori e vinti, perché vittime e carnefici camminano su un piano sempre in bilico.

Nascere tedesco nel 1920 significava essere condannato a diventare un carnefice. Nascere ebreo nello stesso anno era la condanna ad essere una vittima. In entrambi i casi, la ribellione a questo destino poteva costare molto cara. A quali compromessi un essere umano, da solo, è disposto a scendere quando si trova sull’orlo dell’abisso? Lo spettacolo, partendo dalla questione ebraica in un momento cruciale della sua evoluzione, parla a tutti, perché tutti prima o poi siamo chiamati a fare i conti con la nostra identità e a scegliere i tempi e i modi della nostra partecipazione sociale.

Note di regia

Suscita una strana emozione ritornare a lavorare su questo spettacolo, che è stato in scena per cinque stagioni tra il 2010 e il 2014, e riscoprirne la straordinaria attualità nell’Italia di oggi, così simile e così diversa nel breve volgere di pochi anni. Sentendo risuonare nuovamente le parole di Amos Kamil, mi rendo conto di quanto sia diventato importante il tema dell’odio che scaturisce dal pregiudizio. Il fenomeno degli “haters” si è sviluppato a dismisura in questi ultimi anni e, senza averlo voluto quando ha fatto il suo primo debutto, Il venditore di sigari mette a tema proprio questo, focalizzando l’attenzione su un uomo che sceglie un bersaglio tanto preciso quanto pretestuoso per dare sfogo a tutta la sua frustrazione e rabbia. Credo che affrontare di nuovo il testo da questo inedito punto di vista possa dargli ancora più valore, ben aldilà della questione ebraica negli anni successivi alla sconfitta nazista, rimane un tema che merita di essere sempre ricordato e analizzato.

L’odio non è una faccenda delle personi ignoranti, come oggi si tende a pensare per stigmatizzare e circoscrivere il fenomeno che imperversa sui social network e copre di fango quasi tutti i personaggi che emergono dall’anonimato, facendoli bersaglio di insulti spesso gratuiti e pesantissimi. Nel testo di Amos Kamil l’odio è prerogativa di un professore di grandissima cultura. Questo forse ci aiuta a capire che a suscitare questo tipo di accanimento sociale sono motivazioni antropologiche e tanta sofferenza. Perciò l’antidoto non sta nel moralismo, ma nella capacità di ascoltare l’altro ed entrare veramente in dialogo superando le barriere del pregiudizio.

Oti-Officine del teatro italiano per il Giorno della memoria

Oti-Officine del teatro italiano partecipa al giorno della memoria come può fare un teatro: mettendo in scena spettacoli che raccontino quel male, affinché la memoria rimanga vigile.

L’odio non nasce solo dall’ignoranza. Non erano ignoranti i nazisti, come oggi non sono ignoranti tutti quelli che emergono dall’anonimato per tacciare altri di diversità e poterli insultare, quando non annientare. Per questo, l’antidoto non sta nel moralismo, ma nella capacità di ascoltare l’altro ed entrare veramente in dialogo con lui, superando le barriere del pregiudizio. Capire l’altro attraverso la sua storia, e di qui capire noi stessi: questo ci permette di fare il teatro, questo è il suo compito.