Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 41 di 90
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Gianni Amelio è un regista sofisticato, capace di condurre lo spettatore a provare empatia verso i personaggi, avvicinandoli ad essi tanto quanto basta per poterli amare o anche giudicare all’occorrenza; fa riflettere, questo suo ultimo lavoro ma senza però strappar via pezzi di realtà che sono stati pesanti, negli anni in cui gli eventi sancirono una brutta pagina della politica italiana e la fine della prima repubblica.

Non è un film che attinge a piene mani a documenti ufficiali, non è un film politico e non è un film che vuole riabilitare Bettino Craxi; Hammamet è un film che parla di un uomo sul quale pesavano delle condanne, che si era esiliato, che non rivedrà più l’Italia che aveva servito, e che nell’ultimo tratto della sua esistenza fa i conti con la rabbia, con la sensazione di impotenza – intesa proprio come perdita totale di potere – con una malattia invalidante e che nel rapporto con sua figlia (nel film si chiama Anita) che è dedizione, sostegno e forza, malgrado tutto.

Il film è girato nei luoghi veri che furono quelli di Craxi ad Hammamet, e che diventano un set perfetto, già pronto, nel quale si muove un Pierfrancesco Favino in uno stato di grazia, impeccabile, straordinariamente bravo, che non gioca a fare Craxi ma diventa Craxi in una maniera sorprendente, corpo, voce e anima, raccontando l’uomo, con le sue contraddizioni, i difetti, le delusioni e una voglia di rivalsa e di un riscatto che non arriverà.

La storia di Amelio è inventata, ma con cognizione di causa, con maestria. Mostra – attraverso le parole stesse del suo personaggio – le vicende dei finanziamenti ai partiti, delle bustarelle in cambio di favori, le tangenti, “i soldi rimasti attaccati alle dita”, come si dice nel film – in quel passaggio quando un politico (un eccellente Renato Carpentieri, già protagonista del precedente film di Amelio, “La Tenerezza”) va a far visita a Craxi;  ma anche quella linea sottile sulla quale si muoveva la volontà di avere un capro espiatorio da mostrare come un trofeo, mentre tutto il mondo politico era corrotto.

Attorno al personaggio centrale – del quale mai viene fatto nome, così come per il partito politico che egli guidò, ma del quale si fa accenno in apertura della pellicola con la ricostruzione di quello che fu il 45° congresso del Partito Socialista Italiano, quello del 1989 all’ex Ansaldo, quello con la piramide di Filippo Panseca, storico scenografo dei congressi craxiani – ruotano personaggi di fantasia, ed è con essi che Amelio compie il miracolo di poter raccontare l’uomo sulle cui spalle pesarono errori e condanne ma anche una intimità che il regista scruta e racconta con garbo. La famiglia, un nipotino che lui chiama “generale” e che in una scena del film, sulla spiaggia, con un modellino di aereo e soldatini, racconta, a modo suo, la notte di Sigonella. Nipote di un nonno amorevole con un debole per le imprese che furono dei Mille. E poi il figlio di un dirigente morto forse suicida – Giuseppe Cederna, amico di lunga data di Craxi che lo mette in guardia sui rischi che corrono continuando con le tangenti e che nel film Craxi liquida, invitandolo a tornare alla sua vita che poi sarà il suo triste destino – che serve al regista per raccontare come il malaffare era sinonimo di politica e non viceversa, e che la politica era in grado di rovinare le vite di chi ad essa si dedicava.

Ed è a quel Flavio che si reca in Tunisia per consegnare una lettera scritta dal padre, che il protagonista del film consegnerà attraverso un video, dei segreti che non furono mai di nessuno, neppure della sua adorata figlia.

Perché di segreti ce ne saranno stati, questo Gianni Amelio lo sa e lo racconta, a modo suo; E a modo suo è anche raccontare la nostalgia verso quell’Italia che il Bettino del film riesce a vedere da un punto preciso della spiaggia, “quando è sereno”.

Racconta i luoghi, Amelio (per questo il film si chiama Hammamet) e quello che in essi si compì, provando a disegnare un ritratto di ciò che fu in quegli anni, fino alla morte del protagonista, ed ogni tratto di quel disegno filmico è delusione, rabbia, illusione, rancore ma mai rimpianto. C’è in questo film il senso dell’abbandono, della fine, del finale della storia umana e politica.

Un personaggio, quello raccontato da Amelio che mostra molte debolezze, compreso l’amore clandestino, che riappare nelle fattezze di Claudia Gerini, che si reca in Tunisia perché vuole assolutamente rivedere l’uomo amato e che a sua volta la rivede perché sa che sarà l’ultima volta.

Immagini di un Craxi bambino, dispettoso e fiero, della derisione cabarettistica dell’uomo che non si può più difendere, raccontata come in un sogno, al posto dell’evento del lancio delle monetine, contro il leader politico.

Le musiche belle, di Nicola Piovani, una fotografia impeccabile di Luan Amelio Ujkaj immagini nitide all’occorrenza, i colori vividi di una Tunisia piena di fascino, una “realisticità” incastonata in dettagli di un’epoca, quella della fine di un secolo, che ti portano indietro e ti inducono a ricordare ciò che forse, si è provato a dimenticare, perché ricordare significa fare i conti con chi era, con chi eravamo.

Forse non tutti noteranno il cambiamento da 16:9 a 4:3 del taglio filmico, che il regista usa per facilitare il racconto, nell’inquadratura di Favino che buca lo schermo e parla dritto allo spettatore.

Vien voglia di capire, di andare a fondo, di scovare la verità ed anche quei segreti, morti insieme a Craxi, che ad oggi forse, nel terzo millennio, farebbero tremare i palazzi.

Ma la verità è che uscendo dal cinema viene voglia solo di lodare un bravo Gianni Amelio che ha fatto un film che non nasce, per non scontentare nessuno, ma per narrare una probabilità, perché nel cinema, le storie sono tutte possibili, se ben raccontare.

Simona Stammelluti

Da oggi in teatro ci sarà ancor più silenzio; per Nellina Laganà il sipario è calato per sempre. L’attrice siciliana, malata da tempo, è morta la scorsa notte nella sua casa di Catania.

Aveva 72 anni, era nata a Siracusa, da tempo viveva a Catania e aveva dedicato tutta la sua vita al teatro.

il sindaco di Catania, dove viveva da sempre, ha scritto su Facebook: “Nellina Laganà se n’è andata stanotte. Ha lottato per anni contro un brutto tumore, continuando a lavorare sulle scene dei Teatri, con quella passione e quel talento naturale degni della grande tradizione catanese. La ricordo con affetto, con dolcezza, con gratitudine. Per la sua bella carriera teatrale e televisiva. Ma anche per il suo impegno civile, per quella travolgente ironia con cui ha condito la sua vita e ha regalato sorrisi e riflessioni a chi ha avuto la gioia di conoscerla. Catania piange una sua figlia vera.

Il tam-tam anche su Twitter dove da ore si usa l’hashtag con il suo nome, ricordandola come una donna coraggiosa, di garbo, simpatica e come una grande artista.

Il suo ultimo successo risale a poco tempo fa, recitando in “Giganti della Montagna” di Pirandello, insieme a Gabriele Lavia.

Era una di quelle donne sempre pronta a stupire; si pensi alla piéce “Attrice”, un monologo scritto dalla stessa Laganà, con la regia di Gianni Scuto – suo compagno d’arte e di vita – per ricordare Anna Magnani. Era il 1983, fu uno spettacolo fortunatissimo, con oltre 600 repliche in Italia e all’estero, il primo rappresentato al teatro Massimo Bellini, fino al allora il tempio della lirica catanese.

Nellina nella sua lunga carriera aveva lavorato per lo Stabile Etneo, l’Inda, aveva lavorato con registi come Luca Ronconi, Mario Missiroli, Romano Bernardi, misurandosi con i Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Giuseppe Fava, Tomasi di Lampedusa, ma anche con i tragici greci e il teatro sperimentale.
Aveva lavorato anche in tv, facendo un cameo nella serie Commissario Montalbano di Sironi e poi ancora con Tornatore e Proietti. Aveva vinto lo scorso 9 dicembre 2019 il Premio Danzuso.  Era nota anche per il suo impegno civile, Nellina Laganà, e fu capace di conquistare tutti con la sua umanità e la sua garbata ironia, oltre che con la carismatica presenza scenica.

Fu lei che lo scorso agosto, insieme ad altri colleghi, diede vita all’iniziativa di andare al porto di Catania con un arancino in mano per accogliere i 177 migranti bloccati da Salvini sulla nave Diciotti.

Sarà in scena al Teatro della Cometa dal 15 al 26 di gennaio, IL MOTORE DI ROSELENA, da un’idea di Gea Martire, drammaturgia di Antonio Pascale e Gea Martire. Protagonista una travolgente Gea Martire, diretta da Nadia Baldi. I costumi sono di Carlo Poggioli.

Storia in forma monologata dell’emancipazione di Roselena, nata e cresciuta dietro al Vesuvio. Il tono è tragicomico, come lei. Roselena è infiammata da una grande passione per le macchine. Una donna! C’è chi si sogna in abito da sposa, chi in tailleur manageriale, lei in tuta da pilota. L’importante nella vita è avere un motore e lei ce l’ha in testa come un chiodo fisso. Fin da piccola. Con molta meraviglia la madre si rende conto che il rumore dei motori delle macchine l’acquieta come nessuna ninna nanna e la mette di buon umore. Crescendo, il suo linguaggio dialettale, spesso sgrammaticato, colorito e poco forbito, diventa adeguato, calzante, perfetto se si ritrova a parlare di motori, carburatori, testate, pistoni, aerodinamicità. Le reazioni di chi la conosce passano dallo stupore alla perplessità allo scherno. Perché le persone intorno a lei sono fossi pieni d’acqua dentro i quali il suo motore si affoga. La bloccano, la mandano in avarìa. Ma Roselena sa aggiustare i motori scassati e truccarli a dovere, e ogni volta mette insieme i pezzi e riparte. Riuscirà ad arrivare alla meta e battere ogni record? O prenderà altre direzioni, condotta da quella macchina che tutti chiamano destino e che procede ignorando i nostri comandi? In ogni caso Roselena avrà vinto perché ha sfidato, combattuto e, di sicuro, non si è annoiata.

 

 

Antonio Calenda, dal 7 al 12 gennaio al Teatro Argentina, dirige “Falstaff e il suo servo”, di Nicola Fano e Antonio Calenda da William Shakespeare; protagonisti Franco Branciaroli, Massimo De Francovich e con Valentina Violo, Valentina D’Andrea, Alessio Esposito, Matteo Baronchelli.

Falstaff, uomo di disperata vitalità, è uno dei personaggi più popolari del canone shakespeariano, benché l’autore gli abbia dedicato, in modo univoco, uno solo dei suoi copioni, per altro quello che la critica solitamente ritiene tra i meno riusciti: Le allegre comari di Windsor. In realtà, Falstaff giganteggia nelle due parti (per altro raramente messe in scena) di Enrico IV e decisamente con la sua presenza ingombrante, anzi la sua assenza ingombrante, segna fortemente Enrico V.

Falstaff è l’alter ego di ogni grande protagonista del teatro di Shakespeare: il suo ossessivo ottimismo (quasi un Candido ante litteram) sconvolge il conflitto tra volontà e destino che permea tutto il canone. «La volontà e il destino hanno vie differenti, e sempre i nostri calcoli sono buttati all’aria: i pensieri son nostri, non già gli esiti loro» fa dire Amleto a uno dei suoi attori e in questa dicotomia (se sia più saggio assecondare il Caso oppure opporvisi con le armi della Ragione) si consumano tutti i testi di Shakespeare. Noi abbiamo trasferito questo duello nel cuore delle avventure di Falstaff (un uomo che confonde i piaceri con la natura, la furbizia con il caso) e gli abbiamo messo di fronte un Servo che – come Iago – crede di poter addomesticare la realtà; o, come Puck, pensa di poter «mettere una cintura al mondo». E il conflitto fra questi due personaggi (che è poi anche quello tra comicità e drammaticità) evoca anche tante altre coppie celebri del teatro shakespeariano (Lear e il suo Matto, Iago e Roderigo, Antonio e Shylock) e della letteratura teatrale in genere (da Don Giovanni e Sganarello a Vladimiro e Estragone). Lo spettacolo, dunque, ripercorrendo gli ultimi giorni di vita di Falstaff (subito prima della sua tragica morte raccontata mirabilmente in Enrico V) evoca tutte le sue avventure: un teatro nel teatro nel quale il Servo assume il ruolo di regista demiurgo (tale era lo stesso Shakespeare, quando metteva in scena i suoi copioni con i Lord Chamberlain’s Men) e Falstaff quello di eroe tragicomico, biglia impazzita nel gioco della vita. Ne viene fuori un catalogo delle beffe (tutto il mondo è beffa, dirà lucidamente il Falstaff di Verdi/Boito) subite dal personaggio fino all’epilogo drammatico: la rottura con l’amico/allievo di sempre Enrico e l’abbandono in solitudine, lontano da quella guerra di Agincourt dove tutti gli altri – non lui – conquisteranno gloria eterna. Naturalmente, in questa cavalcata nella propria vita, Falstaff avrà accanto i sodali che Shakespeare gli aveva assegnato: le comari di Windsor, l’Ostessa, ma anche i compagni di bevute Bardolph e Francis. Anzi, saranno proprio a issarlo su un grande cavallo dal quale egli cadrà definitivamente nella polvere, assecondando il piano terribile del Servo che, grazie a lui, cercherà di trasformarsi definitivamente in un padrone. Insomma, sarà uno spettacolo comico e drammatico insieme: una cavalcata nelle atmosfere shakespeariane, rielaborate per un pubblico di oggi, in grado di cogliere l’eternità del duello tra Caso e Ragione.

Dopo Roma, lo spettacolo sarà in scena il 21 gennaio a Lonigo e dal 22 al 26 gennaio al Politeama Rossetti a Trieste.

Antonio Calenda inoltre, nel 2020 sarà tra i protagonisti della 56esima Stagione di rappresentazioni del Teatro Greco di Siracusa, dove sarà regista di “Le Nuvole” di Aristofane che debutterà il 7 giugno. La commedia, per tutto il mese di giugno e fino al 5 luglio si alternerà con le due tragedie e chiuderà la stagione di rappresentazioni classiche il 5 luglio.

Le Nuvole di Aristofane sarà messa in scena al Teatro Greco di Siracusa per la quarta volta dopo gli allestimenti del 1927, con la direzione artistica di Ettore Romagnoli, nel 1988 con la regia di Giancarlo Sammartano e nel 2011 con la regia di Alessandro Maggi. “Le Nuvole” fu rappresentata per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 423 avanti Cristo e racconta del contadino Strepsiade, perseguitato dai creditori, che decide di mandare il figlio Fidippide alla scuola di Socrate dove potrà apprendere come prevalere negli scontri dialettici. Davanti alle reticenze del figlio sarà lo stesso Strepsiade a recarsi al Pensatoio del filosofo dove però non capirà nulla di quello che gli viene insegnato. Il figlio Fidippide, incuriosito dai racconti del padre deciderà di seguire gli insegnamenti di Socrate, alla ricerca del modo migliore per prevalere nei duelli verbali, fino ad assistere al dibattito tra il Discorso Migliore e il Discorso Peggiore, e infine a picchiare il padre, dimostrandolo di avere il diritto di farlo e spingendo lo stesso Strepsiade a incendiare il Pensatoio di Socrate.

 

Dal 10 al 12 gennaio sarà in scena a Spazio Diamante lo spettacolo ASPETTANDO MEDEA di Franca Abategiovanni, Nadia Baldi, Antonella Ippolito con Franca Abategiovanni e Antonella Ippolito, regia Nadia Baldi.

Due donne…un copione, le prove di uno spettacolo. Due donne diverse fra loro che interagiscono con un testo, la loro vita privata, i loro sogni e le loro follie.

Nell’ordito della trama del copione si confondono i due personaggi, ora impegnate a trovare la loro miglior interpretazione ora a risolvere problematiche quotidiane ora a sviscerare storie e sentimenti che trascinano lo spettatore in mondi e storie parallele. Medea personaggio complesso di grande forza drammatica ed espressività, affascina e cattura le due attrici. Esse si troveranno più volte a confondersi con Medea, a rappresentare le due facce della sua stessa mente scissa, conflittuale. L’abbandono, l’indifferenza, la vendetta, la ferocia, la forza e la fragilità del personaggio sono sentimenti dai quali restano rapite e condizionate durante le prove. Ma come spesso accade anche nella vita comune il limite fra tragedia e comicità è sempre labile e le due protagoniste finiranno per passare dal comico al tragico restituendo allo spettatore uno scenario godibile e leggero.

L’esposizione sarà aperta al pubblico fino al 12 gennaio, da giovedì a domenica, dalle 18 alle 21

Un percorso nel teatro, nelle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, nella storia delle arti visive e sceniche attraverso le opere di artisti come Duilio Cambellotti, Alfonso Amorelli e Lele Luzzati.  La scena ritrovata – Da Cambellotti ai contemporanei è la mostra inaugurata a Siracusa, all’ex convento di San Francesco.

L’esposizione è curata dalla Fondazione Inda in collaborazione con l’assessorato alle Politiche per la valorizzazione del Territorio, lo Sviluppo Culturale e l’Incoming del Comune di Siracusa nell’ambito degli eventi direttamente promossi dall’assessorato del Turismo della Regione Siciliana.

La scena ritrovata documenta lo stretto legame fra lerappresentazioni classiche al Teatro Greco e il mondo delle arti visive e non solo visive che Inda ha sempre nutrito – ha detto Antonio Calbi, sovrintendente della Fondazione Inda –Il teatro è arte dell’ascolto e del vedere. La relazione fra arti sceniche e arti visive è stato uno dei più fertili delle avanguardie del primo Novecento, e questa vivacità fra discipline che potrebbero risultare fra loro distanti è stata un segno forte del secolo scorso, ma con origini che affondano nel Quattro e Cinquecento, a partire dalle progettazioni di teatri e scenografie realizzate da Leonardo nelle sale del Castello Sforzesco di Milano. Ma pensiamo anche agli artisti coinvolti nella creazioni di spazi scenici, da Picasso a Leger a Arnaldo Pomodoro.

Alla straordinaria avventura della Bauhaus, di Weimar e Dessau. Pensiamo all’apporto alla reinvenzione dello spazio scenico degli architetti, un capitolo del quale voglio ricordare almeno Gae Aulenti e il suo sodalizio con Luca Ronconi. O Stefano Boeri e il suo bosco morto come limbo drammatico delle Troiane della passata stagione al Teatro Greco.

Le rappresentazioni classiche rappresentano uno dei tasselli preziosi dell’Heritage materiale e immateriale di Siracusa – sono state le parole di Fabio Granata, l’assessorato alle Politiche per la valorizzazione del Territorio, lo Sviluppo Culturale e l’Incoming del Comune di Siracusa – Questa mostra offrirà a cittadini e viaggiatori una grande emozione e una attrattiva legata alla tradizione Classica e a Cambellotti. La prossima riapertura della sede storica del Gargallo e la trasformazione di San Francesco in un presidio di teatro, arte e cultura saranno ulteriori importanti tappe del progetto

La mostra, il cui titolo, La scena ritrovata, è stato pensato da Manuel Giliberti in occasione della pubblicazione del volume dedicato ai 90 anni di teatro antico a Siracusa scritto dallo stesso Giliberti insieme a Loredana Faraci, nasce con l’obiettivo di proporre al pubblico l’evoluzione scenica in oltre 100 anni di rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa.

Il percorso espositivo è suddiviso in quattro sezioni che consentiranno di ammirare elementi di scenografia, disegni, abiti di scena, fotografie, maquette, macchine sceniche: Duilio Cambellotti. Lo scenografo autodidatta; La scena ritrovata. Dal teatro d’attore al teatro di regia; Antica Mirabilia: Deus ex Machina e macchine sceniche Dal testo alla scena. Studio e visione dei classici(con la partecipazione degli allievi dell’Accademia d’arte del Dramma Antico di Siracusa); I Contemporanei: abiti di scena disegnati da grandi costumisti teatrali e realizzati dal laboratorio sartoriale della Fondazione Inda, i visitatori avranno così la possibilità di conoscere e scoprire l’evoluzione stilistica e la tecnica decorativa attraverso i costumi di scena pensati per le rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa.

L’esposizione sarà aperta al pubblico fino al 12 gennaio, da giovedì a domenica, dalle 18 alle 21. L’ingresso è libero.

Fermo restando che chiunque è innocente fino al terzo grado di giudizio passato in giudicato, viene spontanea la domanda:”quanto vale l’onorabilità, la rispettabilità, la reputazione di un alto funzionario dello Stato?” Se poi questo alto funzionario ha un ruolo delicatissimo, cruciale quale è un Prefetto di una delle tante provincie italiane, la risposta fa ancora più male.

Stando ai fatti, il tutto viene quantificato in 700 euro.
Una mazzetta, una bustarella presa in un bar, da parte del Prefetto di Cosenza.
Bisogna darle atto però, ad onor del vero, che in uno slancio di “legalità” aveva richiesto alla sua vittima di emettere regolare fattura (falsa).  Un dettaglio!

E dire che solo pochi giorni addietro, “Sua Eccellenza” aveva presenziato ad una serata sulla legalità. La cosa mi desterebbe un senso di ilarità se non fosse che pensando al delicatissimo ed importante ruolo del Prefetto mi viene subito alla mente  Carlo Alberto Dalla Chiesa, che fu Prefetto di Palermo nel 1982 e in quello stesso ruolo patì martirio proprio per la Legalità.
Pertanto capite bene che la mia iniziale voglia di ridere, muta in un profondo disgusto e ahimè in un insana voglia di rassegnazione.

Ma bisogna resistere, proprio perché l’esempio di Dalla Chiesa non può e non deve andare perduto.
Bisogna resistere in questa terra in cui proprio chi dovrebbe amministrare la giustizia, e il bene comune, finisce purtroppo per dare il peggio di sé.

Se le accuse, dunque, contro il prefetto di  Cosenza, Paola Galeone, indagato per corruzione, dovessero reggere fino alla fine, sarà l’ennesimo duro colpo ad un già difficile processo di legalizzazione di un territorio già martoriato dalla criminalità organizzata, dalla ‘ndrangheta, perché non bisogna mai aver paura di fare il nome di ciò che è il male per una terra e per chi la abita.

Solo che questa volta non c’è neanche la “giustificazione” della ‘ndrangheta. Anche se ogni volta che si cerca una scorciatoia, ogni volta che si delinque cercando privilegi di sorta, si consumano atteggiamenti mafiosi, alimentati da atavica cultura distorta, dentro camere in cui si consuma ciò che non si deve vedere e che poi sconcerta, dentro il Palazzo di Governo, che dovrebbe essere esempio di correttezza e giustizia ed invece si sgretola sotto il peso di eventi delittuosi come quelli delle ultime ore.

Tutto questo scrivo, indignata,  mentre ascolto il discorso di fine anno del nostro Presidente Sergio Mattarella. Lo ascolto e resto coinvolta da un alone di dignità, onestà e coerenza; quindi penso (di nuovo) che con un Presidente così, non ci meritiamo amministratori “così”!

Con quest’ultimo bel caso di  “Mala Amministrazione” volge al termine questo 2019 non particolarmente felice per questa nostra tanto amata terra; speriamo – come auspicato dal nostro Presidente – in un 2020 di riscatto su tutti i fronti.

L’Italia è una sola: quella del dovere

 

Simona Stammelluti 

 

 

Il delicatissimo ruolo del sindaco.
Il delicatissimo ruolo del sindaco di un comune che ospita i Cas.
Non ti interroghi su quanti avvisi di garanzia potresti ricevere durante un mandato; provi a fare del tuo meglio, provi a far bene. Chissà quante volte i sindaci come Mimmo Lucano si saranno domandati se una loro scelta, potesse essere la scelta giusta. Perché ci sono regole e regolamenti da rispettare, c’è un codice deontologico, e quel giuramento: “giuro di osservare lealmente la costituzione, le leggi della Repubblica e l’ordinamento del comune e di agire per il bene di tutti i cittadini”. 

Delicato è giudicare l’operato di un primo cittadino, tanto quanto per chi tempestivamente deve decidere cosa fare.
E così accade che un giorno di settembre del 2016, Mimmo Lucano, ex  sindaco di Riace (RC), rilascia due carte di identità per una donna eritrea e per il suo bambino di pochi mesi; loro sono ospiti di un progetto al Cas, il bimbo ha bisogno di un pediatra, di cure mediche.

Mimmo Lucano fece bene a rilasciare quelle carte di identità, oppure no?

All’ex primo cittadino, raggiunto in questi giorni da un nuovo avviso di garanzia viene contestato di aver rilasciato un documento di identità a persone senza permesso di soggiorno.
In teoria Mimmo Lucano avrebbe dovuto essere certo dell’identità della donna, essere certo che quel bimbo fosse il suo, attendere che la donna e la sua creatura di pochi mesi ottenessero il permesso di soggiorno.

La prefettura ci aveva chiesto l’inserimento per la madre e il bambino e noi avevamo detto di sì perché c’era la disponibilità – dice Lucano che poi continua – fu fatta l’iscrizione al registro anagrafico e poi fu richiesta la carta d’identità perché il bambino aveva necessità di vedersi assegnato un pediatra”.

Aveva bisogno di un pediatra, aveva bisogno di cure, quelle cure spettano di diritto al cittadino così come recita l’articolo 32 della costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. 

“Sono amareggiato, ma lo rifarei; il diritto alla salute è inviolabile e fondamentale ” – dice Mimmo Lucano, che a quanto pare non ebbe dubbi sul da farsi.

Quel filo sottile tra la tutela della dignità umana, il diritto inviolabile alla salute e quella regola che dice che: “non si può rilasciare documento di identità a soggetto senza permesso di soggiorno”.
Mimmo Lucano aveva altre strade da percorrere?
E’ questa la domanda da porsi.
Forse avrebbe potuto rivolgersi ai servizi sociali,  allertarli, evidenziando la necessita del bambino di cure mediche. Forse ci sarebbe voluto qualche giorno in più, ma le cure mediche sarebbero state assicurate a quel piccolo bambino di madre eritrea senza permesso di soggiorno.

A me la cosa che sembra davvero difficile è evitare ogni forma di strumentalizzazione, in un caso o nell’altro. Dovremmo smetterla con il buonismo tout court o il giustizialismo ad oltranza, così come un accanimento giustizialista.
E’ proprio la politica a volte ad attuare la prima strumentalizzazione, mentre dovrebbe indirizzare in modo chiaro e univoco, non confusionale le attività degli amministratori a tutti i livelli.

E’ difficile fare il sindaco, è difficile fare la cosa giusta.
Esprimere un giudizio, senza pregiudizio e senza buonismo, ancor di più.

(Fatto sta che se metto la parola “Riace” nel più famoso motore di ricerca, la prima voce in cima non sono i bronzi, come ci si aspetterebbe, ma la voce “sindaco” … chissà perché!)

Simona Stammelluti 

 

 

 

Donata Bergamini, che attende da trent’anni la verità sulla morte di suo fratello Denis, sempre più vicina ma mai ancora palesatesi in tutta la sua inconfutabilità, scrive al procuratore Nicola Gratteri 

Caro Procuratore Nicola Gratteri,
Ho seguito come tantissimi le vicende relative alla “ maxi operazione “ che ha portato all’arresto di oltre 330 persone su tutto il territorio italiano.
Ho letto tutte le sue pubbliche denunce contro la massoneria, la politica ed anche la magistratura collusa con esse. Ho visto anche le sue accuse contro la stampa, a suo dire anch’essa collusa con la Ndrangheta.
Le condivido tutte signor Procuratore ma lei non mi piace ed ora le spiego perchè.
Intanto le dico chi sono.
Mi chiamo Donata Bergamini ed appartengo ad una famiglia, una volta benestante, di Boccaleone di Argenta.
Da trent’anni seguo le vicende giudiziarie calabresi non per un’ eccentrica passione ma semplicemente perché esattamente trent’anni fa mio fratello Denis, brillante calciatore del Cosenza, fu barbaramente ucciso. Il suo omicidio venne fatto passare per incidente e poi per suicidio, anche grazie all’operato non proprio diligente di alcuni suoi colleghi.
Non venne disposta subito un’ autopsia e coloro che avevano recuperato i suoi vestiti morirono misteriosamente in un incidente stradale prima che potessero restituirceli.
Per questo io penso che mio fratello sia stato ucciso anche dalla Ndrangheta.
Dopo tutti questi anni, grazie al mio avvocato ed al Procuratore Facciolla, sono almeno riuscita a dimostrare quella verità che da sempre sapevo ma da sempre era stata negata. Indagini medico legali complesse ma che non danno scampo ai depistaggi. Fu un omicidio.
Lo dovevo a Denis e lo devo ai miei genitori cui è stato ammazzato un bellissimo e fantastico figlio. Il verdetto dell’incidente probatorio è stato questo.
Lei non mi piace proprio semplicemente perché la invidio.
Sì la invidio perchè lei non ha bisogno dei processi e delle sentenze come tutti gli altri P.M.
Lei ha dichiarato di voler smontare la Calabria pezzo per pezzo ma non si occupa dell’assassinio di Denis Bergamini.
Noi, normali cittadini, dobbiamo superare mille difficoltà anche per dimostrare ciò che è ovvio, impegnare fino all’esaurimento ogni risorsa economica e fisica.
Noi, vittime, dobbiamo inchinarci al rispetto delle regole di garanzia giustamente riconosciute a coloro che riteniamo responsabili della morte del nostro caro Denis.
Lei no. Ciò che dice, ogni sua parola, non è solo sentenza ma è legge.
Lei non ha bisogno, come noi, di attendere l’esito dei processi.
Caro Procuratore Gratteri, se un domani si dovesse candidare a Ministro o Premier, stia sicuro che io la sosterrò perchè cosi, magari, avrò giustizia per mio fratello.
Forse non funziona esattamente cosi ma sono sicura che a Lei tutto sarà permesso, anche occuparsi dell’assassinio di quel povero bellissimo ragazzo.
Io sono ignorante. Una semplice ragioniera. Mi piace pensarla cosi.
Lei non mi piace perchè la invidio ma solo perchè non Si occupa di Denis.
Lei può. Lei può tutto oggi. Almeno così sembra.
A me, comunque basterebbe soltanto che il Procuratore Facciolla fosse lasciato libero di lavorare in pace. Tutto qui.
Io conosco la verità ma voglio portarla in un aula di giustizia rispettando le regole e le procedure. Perchè continuo a crederci nonostante tutto

Sua
Donata Bergamini

Duro colpo alla ‘ndrangheta. Oltre 300 gli arresti tra capi, gregari, affiliati e uomini a disposizione del clan Mancuso di Limbadi, nel vibonese. Gli arresti sono stati effettuati dai Carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Vibo Valentia, su richiesta della Procura Antimafia di Catanzaro diretta da Nicola Gratteri. In 260 sono finiti in carcere, altri 70 ai domiciliari con l’accusa di associazione mafiosa, omicidio, estorsione, usura, riciclaggio, fittizia intestazione di beni, tutti reati con l’aggravante del metodo mafioso. 

Un maxiblitz ancora in corso, vede anche altre 82 persone sotto inchiesta tra cui anche politici, imprenditori, avvocati, commercialisti, funzionari dello Stato e massoni. Tra loro anche l’avvocato ed ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli. In manette sono finiti anche il sindaco di Vibo Pizzo e presidente regionale dell’Anci, Gianluca Callipo, (omonimo ma non relazionato al candidato del centrosinistra per le regionali), il comandante della polizia municipale di Vibo Valentia Filippo NesciDanilo Tripodi, impiegato del Tribunale di Vibo Valentia, più una serie di professionisti.

Contestualmente all’ordinanza di custodia cautelare e su richiesta della DDA di Catanzaro, i carabinieri hanno sequestrato beni per un valore di circa 15 milioni di euro. L’imponente operazione, è frutto di indagini durate anni,  e oltre alla Calabria interessa varie regioni d’Italia, da nord a sud, dove la ‘ndrangheta vibonese si è ramificata, sembra che nessuna regione sia rimasta fuori: Lombardia, Piemonte, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia, Puglia, Campania e Basilicata. Alcuni indagati sono stati localizzati e arrestati anche in Germania, Svizzera e Bulgaria in collaborazione con le locali forze di Polizia e in esecuzione di un mandato di arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria di Catanzaro. Nell’operazione sono impegnati 2500 carabinieri del Ros e dei Comandi provinciali che in queste ore stanno lavorando sul territorio nazionale supportati anche da unità del Gis, del Reggimento Paracadutisti, degli Squadroni Eliportati Cacciatori, dei reparti mobili, da mezzi aerei e unità cinofile.

Travolti dall’inchiesta “Rinascita- Scott” anche boss di storici casati di ‘ndrangheta. Fra loro c’è anche il patriarca Luigi Mancuso, fin dagli anni Novanta autorizzato a parlare in nome e per conto dell’élite della famiglie calabresi.

“Questa è un’indagine seria, concreta, fondata – dice il procuratore Nicola Gratteri che ha seguito da vicino le operazioni di questa notte – ho iniziato a lavorarci dal primo giorno in cui ho messo piede a Catanzaro”. L’inchiesta ha permesso di far emergere i rapporti dei clan con personaggi del mondo politico e dell’imprenditoria, ma ha permesso anche di documentare summit, riunioni e incontri fra boss e affiliati.

Un’ordinanza di custodia cautelare lunga 13500 pagine, con la quale la procura antimafia di Catanzaro ha ricostruito tutta la storia criminale dell’ndrangheta vibonese, nonché i rapporti, le relazioni e gli affari.