Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 4 di 94
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Sono nata nel 1970 e praticamente ho l’età dei genitori degli YouTuber, che con la loro condotta assurda e folle, hanno ucciso il piccolo Manuel di soli 5 anni che viaggiava con mamma e papà quando la loro auto ha impattato con quella su cui viaggiavano tre incoscienti che giocavano a vedere chi resiste di più.

In questa vicenda è tutto assurdo.

 Assurdo che tre ragazzi così giovani possano noleggiare un bolide, tanto, basta pagare e si aprono tutte le porte; assurdo che si possa lontanamente pensare di fare una cazzata del genere, ossia guidare per 50 ore; assurdo pensare di poter filmare tutto, perché tanto quel che conta è il web, la notorietà, i followers e dunque i soldi che derivano da quei numeri; assurdo che quel canale youtube non sia ancora stato chiuso; assurdo – e qui arrivo al dunque – che dopo questa sciagura, un genitore che sarai potuta essere io, per età e ruolo genitoriale, abbia detto quella frase, dimostrando una indifferenza assoluta. È l’indifferenza il male del secolo. Poi viene tutto il resto. Assurdo che il giovane alla guida Matteo Di Pietro,  indagato per omicidio stradale, sia ancora a piede libero.

Questa tristissima ennesima vicenda, ha tanti colpevoli e sarebbe giusto guardarla in faccia la realtà.
I tre assassini, perché tali solo, e per me senza attenuanti (ma attendiamo che la giustizia faccia il suo corso).
Il mondo dei social, dell’effimera notorietà (oggi si che nessuno se li dimentica più).
Il mancato rispetto delle regole, l’incapacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è.

Ho sentito dire: “è stata solo una bravata, sono solo ragazzi“. No non sono solo ragazzi. Sono ragazzi cresciuti senza che nessuno mai facesse capire loro che bisogna prendersi le proprie responsabilità e pagare per le conseguenze delle proprie azioni e/o omissioni. E la mancanza di giudizio è una omissione, come la spregiudicatezza (che in questo caso si chiama sconsideratezza).
E poi questi genitori, completamente scollati dalla realtà, privi di coscienza anche loro, che non hanno mai almeno provato ad insegnare ai figli il senso del pericolo, la morale, l’etica; perché ci vuole anche quella, nel vivere.

Guidare stanchi sotto effetto di cannabinoidi, per “vedere come va a finire” è un comportamento inammissibile frutto di un corto circuito sociale oltre che familiare. 

Io che ho figli di quella età mi sono immedesimata in quella situazione, quando ti chiamano, ti dicono che tuo figlio alterato da sostanze stupefacenti guidava da 50 ore per filmare una bravata, ha investito un’auto ad alta velocità ed ucciso un bambino di 5 anni.
Mi sono immedesimata e sicuramente non avrei detto a mio figli* “basta che stai bene tu, che non ti sei fatto nulla, tanto tutto si aggiusta“. No, non si aggiusta niente, davanti ad uno scempio del genere. Servono esami di coscienza (che guarda caso non arrivano mai), un ritorno all’educare i giovani al rispetto delle regole e di conseguenza dell’altro, bisogna abbandonare l’egoismo, il narcisismo, l’indifferenza, la voglia di essere al centro dell’attenzione di un mondo che è adulterato dall’apparire, dal (finto) potere, dalla convinzione che i soldi possano tutto, anche toglierti dai guai.
Ma è la società odierna, che fa credere che vivere nel metaverso, possa “aumentare tutto”, anche la percezione di un mondo virtuale che mima quello reale, che rende tutto aumentato, che connette e “resta collegato”.

La vita non è un gioco, non è una gara, non è una sfida, non è metaverso.
La vita è una opportunità che dovrebbe sempre tenere al centro la possibilità di essere migliori, di stare dalla parte giusta, di saper distinguere il bene dal male. Io non vedo nulla di buona in questa vicenda, e ahimè non vedo neanche un riscatto, né per questi giovani, né per la società.

Non serve aspettare che ci scappi il morto per capire che bisogna fare qualcosa … ed anche in fretta.
Noi giornalisti non possiamo mai dire neanche una parola fuori posto, altrimenti rispondiamo anche penalmente; siamo sempre lì ad essere ripresi se esprimiamo una opinione. Ma tre irresponsabili vengono lasciati liberi di influenzare le masse, con le loro azioni riprovevoli senza che nessuno alzi un dito per fermare questo scempio.

Non c’è luce in fondo al tunnel. O forse quel tunnel siamo noi che continuiamo a costruirlo, perché non ne vogliamo sapere di vedere la luce.

 

Un progetto nato per condurre i giovani studenti del Liceo Classico Gioacchino da Fiore nel mondo del teatro e della vita,  un corso durato 6 mesi, che culmina con una pièce dal titolo “Alcesti Admeto – L’amore di compie”, atto unico liberamente ispirato alla tragedia “Alcesti” di Euripide, scritto e diretto da Adolfo Adamo, attore, autore e regista, che nel corso dei mesi ha condotto i ragazzi alla scoperta dell’arte teatrale, attraverso un viaggio nella parola, insegnando loro come nasce un personaggio, come si diventa personaggio, intraprendendo un vero e proprio percorso che va dalla vita al teatro e ritorno.

Durante il corso – tenutosi nelle sedi di Rende e Torano – i ragazzi hanno imparato la dizione, la lettura espressiva e si sono anche cimentati nella scrittura teatrale, sotto la guida di uno dei massimi esperti di scrittura e drammaturgia.

La storia di Alcesti e Admeto è stata rivisitata e contestualizzata; l’opera pone l’attenzione sulle varie sfaccettature dell’amore e della vita, sulle difficoltà dell’amare e del vivere, sul sacrificio, sull’egoismo ed anche sull’indifferenza e sulla salvezza.

I giovani studenti delle sedi di Rende e Torano che hanno partecipato al corso – fortemente voluto dalla dirigente Brunella Baratta – andranno in scena il prossimo sabato 17 giugno alle ore 17.30 presso l’Auditorium del Parco Acquatico in Rende.

 

Il presente vale come invito

 

 

 

 

Centinaia di articoli, di interviste, di servizi, di contributi.
Che a volerli vedere tutti, leggerli tutti ci vorrebbero giorni e giorni. Ad averne voglia, però.
Ho aspettato fino a sera per scrivere questo mio articolo, perché la strada della notizia era ingolfata dalla morte di Silvio Berlusconi, Mister B come ero solita chiamarlo quando scrivevo di lui. Ha monopolizzato la cronaca, i giornali, le tv da morto così come ha fatto da vivo negli ultimi trent’anni.
Quando un mese fa, è apparso per l’ultima volta sugli schermi, a tarda sera, ho avuto come l’impressione che un po’ farneticasse, che dicesse qualcosa che voleva assomigliare ad una sorta di addio, travestito da discorso formale. Era come se stesse già un po’ “al di là”, come se già non fosse più l’uomo di potere, ma l’uomo comune in doppiopetto che si teneva stretto ai ricordi dell’infanzia, cosa che si fa quando ci si vuole consolare.
Strano come la notizia della morte di Silvio Berlusconi, classe 1936, ci abbia colti tutti un po’ alla sprovvista, anche se conoscevamo bene le sue condizioni di salute, perché diciamolo, apparteneva a quella categoria di personaggi pubblici che sembrano immortali, un po’ come la Carrà, Costanzo, Piero Angela.
Ormai lo posso dire che non ho mai votato Berlusconi, perché il mio retaggio politico familiare mi ha sempre tenuta alla larga da quei meccanismi che virano a destra, ma ho sempre pensato che in politica non debbano mai esistere dei nemici (quelli li riserviamo alla vita di tutti i giorni) ma solo degli avversari, e Berlusconi è stato un avversario politico che ha fatto, ha vinto, ha modificato profondamente anche il modo di fare politica e non ci dimentichiamo che tutto ciò che ha fatto non lo ha fatto mai da solo. E la questione del conflitto di interessi – che sempre c’è stata – sono stati gli altri, a non volerla risolvere una volta per tutte.
Il mio primo pensiero quando ho appreso la notizia, oltre a provare un dispiacere umano verso la persona (considerato che la morte anestetizza anche il male, lì dove vi fosse stato), ho pensato a chi resta, ai nuovi assetti politici che ci saranno, agli sciacalli che stanno studiando come prendere il suo posto, la sua eredità politica. Chissà cosa ne sarà della coalizione di governo ora che non c’è più colui che li teneva tutti buoni, nei momenti difficili. Chissà cosa sarà di Forza Italia senza di lui.
Prendo le distanze dallo schifo che si sta consumando sui social, da chi esulta per la sua morte, da chi continua ad essere pieno di livore, forse perché è abituato a vivere così.
Che ci piaccia o no, grazie a Silvio Berlusconi ognuno di noi ha disegnato il proprio essere, i propri ideali. Insieme a quel suo fare, o in netta contrapposizione.
Un uomo sempre sotto i riflettori, eppure anche avvolto dalle ombre … ma mai nell’ombra.
Ha messo in campo tutto quello che sapeva fare, e che faceva. L’edilizia, il calcio, le tv commerciali, i gruppi editoriali, la politica, gli scandali, il conflitto di interesse, le condanne.
Le tv commerciali che all’inizio non erano nazionali come oggi; le frequenze erano locali, ma lui ebbe la felice idea di mandare su tutte le frequenze, su tutte le tv locali gli stessi programmi contemporaneamente dando l’idea di una tv nazionale. Ma poi nacque Fininvest, che divenne Mediaset, poi arrivò Banca Mediolanum, la politica e lo slogan “Meno male che Silvio c’è”.
È stato un uomo di potere, per molti un idolo, poi il Cavaliere, il Presidente, e ancora i vari nomignoli, per ogni periodo della sua vita. Anche gli scandali ha indossato con stile come il suo famosissimo doppiopetto. La sua personalità, il suo atteggiamento nei confronti della vita è stato per gli italiani, un modo di capire come e quanto prendere le distanze.
Lo abbiamo valutato, giudicato, offeso, attaccato, esaltavo, condiviso, deriso, disprezzato. Eppure sotto sotto quel suo potere piaceva a molti, soprattutto a chi ha provato a fare le sue stesse cose senza però riuscirci nella stessa maniera.
Silvio Berlusconi è morto. Da tutto il mondo, sono arrivate le condoglianze non solo nei confronti della sua famiglia ma anche nei confronti di questo paese.
C’è stata una Italia con Berlusconi e ora ci sarà una Italia senza di lui.
Tra critiche e obiezioni, ha sempre annunciato “nuovi progetti”, questa forse è stata la sua vera forza. Le sue amicizie sono state sempre opinabili, ma alla fine nessuno è mai stato come lui, nel bene o nel male. Attraverso l’immaginario ha cambiato il paese, nel bene o nel male.
I suoi “concetti” saranno stati anche sbagliati, ma ha convinto tutte le persone che lo hanno votato, cambiando anche la mentalità degli italiani. Il 92% degli italiani con lui, i giudici contro di lui. Vantaggi e svantaggi e lui al centro, sempre in perfetto equilibrio, tra i big della politica.
Vittorie e sconfitte, processi, condanne e tante assoluzione.
Berlusconi era destinato a diventare tutto, e tutto è stato, anche una ossessione, fosse essa magnifica o maledetta.
Come saremo noi senza Berlusconi?
Lo scopriremo, forse. Ma oggi no.

 

 

Il mondo accademico ed umanistico piange il professor Nuccio Ordine, 64 anni, docente di letteratura Italiana presso l’Università della Calabria. Amatissimo dai sui studenti che oggi sgomenti hanno appreso la notizia che ha lasciato tutti addolorati e senza parole. Aveva accusato un malore nei giorni scorsi, un mal di testa forte, poi aveva perso conoscenza e dopo la terapia intensiva non ce l’ha fatta.

Ci lascia uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo, conosciuto presso gli atenei di tutto il mondo. Filosofo, saggista, teologo, calabrese fiero di insegnare all’università della Calabria, recentemente insignito del premio Principessa delle Asturie 2023 per la Comunicazione e le Scienze umane, ha sempre difeso il “sapere” a discapito dei titoli di studio conseguiti semplicemente per “fare soldi”.

Insegnava ai ragazzi a coltivare le loro passioni, ad inseguire il sogno e a temprarsi attraverso le difficoltà.

Diceva:

se si studia con passione, si riesce sempre. Impegnatevi ragazzi, perché sarete gli arbitri della vostra vita. E anche se la via della passione è sempre la via più difficile da seguire, poi vi darà delle ricompense straordinarie”.

La stessa passione che ha messo in tutto quello che ha fatto, dagli studi perenni all’insegnamento.

Oggi lo ricordano così:

Io conseguii un dottorato di Ricerca all’Unical ed ebbi modo di conoscerlo ed intrattenermi con lui tante volte.

Ne ho sempre apprezzato l’autenticità, la semplicità, la disponibilità; le sue riflessioni, i suoi suggerimenti, i suoi trattati sono un autentico faro.

Adolfo Adamo autore attore regista

Apprezzavo la sua grande cultura,  e mi entusiasmavo al pensiero che rendesse internazionale la fama della mia università. Ma ciò che davvero ho amato,  che mi ha fatto sentire “letta dentro”,è l’idea che si debba scegliere cosa studiare seguendo le ragioni del cuore.  Perché io avevo fatto così.  L’idea che solo studiando con passione e per passione, si possa eccellere.

Il pensare che le materie non immediatamente utili, o meglio utilitaristiche, siano quelle che davvero ci restituiscono il senso di essere uomini e donneo.

Livia Blasi giornalista
vice caporedattore della Sede Rai della Calabria

Diciamolo, noi donne sui 50 anni – che un tempo erano “di mezza età” e oggi “vivono la loro seconda giovinezza” [mah] – scopriamo per la prima volta nella nostra vita il significato della parola “decadimento” e viviamo inesorabilmente la sconfitta (irreversibile).

Capita, ci dicevano. Ed infatti è capitato.

Dai su non facciamo quelle che “ma io” ecc. ecc.
“Ma io” niente. 

Sperimentiamo – ma dovremmo dire subiamo – quel “fantastico mondo” che è la premenopausa, e dunque cose come l’insonnia (mai provata prima), la stanchezza cronica (un tempo si spaccava il mondo a mani nude), i dolori in parti del corpo che non pensavi neanche esistessero, il caldo improvviso (quando mai?!), il freddo che ne segue (e questo in tutte le stagioni dell’anno), il gonfiore, l’irritabilità (alcune di noi però sono nate irritate e pure irascibili) e poi ancora la sconfitta dei jeans di una vita che non ti entrano e non ti entreranno più (questo accade anche alle eterne magre) della pelle del viso che un bel giorno, mentre così passi davanti allo specchio senza volerlo, ti appare diversa da tutto il resto della tua esistenza. Ti appare come dire … spenta; e allora tu sorridi, pensando che si riaccenda qualcosa ed invece niente. 

Se prima mangiavi la qualunque e stavi sempre bene ora provi a mangiare bene e ti senti rallentata, e poi l’acidità di stomaco, e la stitichezza, e il reflusso. 

E allora capisci che devi fare qualcosa. 

E qui scattano le due – e dici due – opzioni. 

Lottare o arrendersi. 

Ecco, io appartengo alla categoria di donne che si sono arrese.
Arrese al tempo, che passa inesorabile e lascia i suoi segni ma anche dosi di inaspettata saggezza. Ma continuo ad avere sogni, desideri (più o meno possibili), traguardi (più o meno raggiungibili) e voglia di “esistere”. 

Quella ammetto che va e viene, ad intermittenza, a giorni alterni. Perché capita che ci siano giorni in cui vorrei che il mondo non mi vedesse, non mi considerasse, non contasse su di me e sul mio modo di essere e di esistere. Vorrei talvolta essere l’anello mancante; senza che però gli altri se ne accorgano. 

Dicevamo, le due opzioni. 

Arrendersi e allora chi se ne frega!
I jeans non vanno? Me ne compro uno nuovo.
Le rughe segnano il viso? Provo a portarle con disinvoltura, così come tutti gli altri difetti che ci sono sempre stati e magari nessuno li ha mai visti o non vi hanno mai fatto caso.
Sono stanca? Mi riposo. Non posso? Resisto. 

Insomma … cose così. 

E poi c’è l’altra opzione: fare la guerra al tempo. Combatterlo, con tutte le proprie forze (e anche soldi, perché senza quelli, non si fa poi tanto). E allora “pronti, via!” 

Creme, massaggi, punturine, cambio di colore di capelli, trattamenti, digiuni più o meno intermittenti, palestre, pillole per dormire e altrettante per stare sveglie. 

Sia chiaro … io non giudico nessuno, anzi sono molto solidale con tutte quelle a cui la famosissima “crisi di mezz’età” mette un po’ in crisi. 

Ognuno fa ciò che vuole e ciò che sente, e preserva quello che ritiene più giusto preservare. 

Io personalmente credo che contro il tempo non si possa mai vincere; magari per un po’, illudendosi di ingannarlo in qualche modo, ma alla fine qualcosa di noi rivelerà sempre ciò che siamo diventate. Che poi o ti rifai tutta (da testa a piedi) oppure qualcosa “non tornerà”. 

Già. Qualcosa non tornerà. 

Non torna ciò che è stato, ma resta ciò che siamo diventate, dopo essere state, aver sbagliato e dopo aver goduto di una giovinezza alla quale – diciamolo – non abbiamo mai fatto caso. 

Io se proprio devo proteggere qualcosa vorrei riuscire a preservare la mia testa (cervicale permettendo!) Vorrei riuscire a ricordare, avere pensieri belli, avere ancora la forza di gestire una emozione che si traduce poi in parola e che mi accompagni per il tempo che resta. 

Vorrei continuare ad essere ispirata, appassionata e gentile con il prossimo. 

Il capello bianco alla fine lo copri se non ti piace, ma se perdi il mordente ti senti come un sacco vuoto che non sta più in piedi. 

E allora care mie, forza e coraggio. 

Ognuno faccia quel che crede giusto per sentirsi bella e viva. Bella e sopratutto viva e semmai qualcosa non dovesse andare per il verso giusto, c’è sempre il piano B: una bella botta di fortuna che ci conduca dove vogliamo; centro estetico o pasticceria non importa, l’importante è arrivare a sera con la solita accogliente frase: “anche oggi, ce l’abbiamo fatta”. 

Peace & love 

S 

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Classe 1940, nata a Salvador di Bahia, Astrud Gilberto è stata una famosissima cantante brasiliana. Al secolo Astrud Evangelina Weinert, aveva cambiato il cognome dopo essersi sposata con il famoso cantante e chitarrista Joao Gilberto. Nel 1963, suo marito doveva registrare un disco insieme al sassofinista statunitense Stan Getz, e lei lo accompagnò. Durante la registrazione il produttore Creed Taylor propose di fare una versione di “Garota de Ipanema” cantata in parte in portoghese e in parte in inglese, con l’obiettivo di farla conoscere il pezzo ormai celebre anche al pubblico statunitenseTaylor fece cantare le parti in portoghese a Joao Gilberto e quelle in inglese alla moglie Astrud, che non aveva esperienze nel canto, ma era l’unica in sala di registrazione a conoscere bene l’inglese. Nella versione di Astrud Gilberto e Stan Getz la canzone vinse il Grammy Awards nel 1965. Da lì partì la sua carriera di raffinata cantante jazz e di bossa.

Ma la storia di quella famosissima canzone, nacque tempo prima. La storia di quella canzone altro non è che la storia di una amicizia, di due amici di Rio De Janeiro, di due amici musicisti, poeti, compositori che avevano l’abitudine di incontrarsi tutti i giorni in un bar di Ipanema, il bar Veloso.
Erano gli inizi degli anni ’60, loro erano Antonio Carlos Jobim (uno dei più grandi geni musicali del Brasile) e Vinìcius de Moraes, poeta e compositore eternamente innamorato.
Quasi tutti i giorni, diretta alla spiaggia, passava davanti al tavolino del bar Veloso una bellissima ragazza, che per i due amici era una visione celestiale, e quella visione ispirò la famosa canzone “Garota di Ipanema” (La ragazza di Ipanema). La leggenda racconta che l’ispirazione fu così fulminea che Vinicius prese un tovagliolino di carta e scrisse le parole e contemporaneamente Jobim ne accennò la melodia. La canzone è nata lì, nel 1962 davanti alla birra alla spina (Cerveza gelata con la schiuma) che Jobim ordinava, e al wisky con giacchio ed acqua minerale. Dall’innocente  turbamento platonico verso la ragazza sconosciuta, da quella visione abbagliante della giovinezza quasi inconsapevole, nacque la canzone quella che poi divenne la bandiera della musica brasiliana nel mondo. Canzone che vanta quasi 600 versioni diverse (Caetano Veloso, Joao Gilberto, Gal Costa, Elis Regina, Frank Sinatra, Stan Getz, Madonna, Cher, Ella Fitsgerald ecc)
Garota di Ipanema, vinse anche il Grammy Awards nel 1965 e la prima volta che fu suonata in pubblico fu proprio in un bar, il 9 agosto del 1962, al Night Club di Copacabana e fu costituito da un trio formidabile, ossia i due autori e il vate della bossanova Joao Gilberto.
I tre la introdussero con un siparietto musicale che poi passò alla storia:

Tom (Jobim) e se tu adesso ci cantassi una canzone che possa rivelarci cos’è l’amore?

Vedi – diceva Jobim – io non lo saprei fare senza Vinicius con la sua poesia.

Rispondeva Vinicius: perché si possa realizzare questa canzone, magari ci fosse Joao a cantarla! Joao rispondeva: e chi sono io senza di voi, il meglio sarebbe cantarla tutti e tre insieme.

E così cominciavano a cantare:

Guarda che cosa bella,
così piena di grazia,
la ragazza che viene e che passa,
nel suo dolce dondolio
mentre va verso il male.
Ragazza dal corpo dorato
dal sole di Ipanema, i
l tuo ondeggiare è
più che un poema,
è la cosa più bella che
abbia visto passare.
Ah … perché è tutto così triste,
perché sono così solo,
quanta bellezza che esiste …
ah se solo sapesse
che quanto passa tutto il mondo
si riempie di grazia e diventa più bello. 

Un invito alla contemplazione della bellezza, la giovinezza che viene passa e se ne va.
Prima lo stupore, poi la riflessione circa la solitudine.
Nel verbo passare c’è la chiave poetica del brano.
Il passare della giovinezza che appunto “passa”, come la ragazza che passa e consola e benedice con la sua bellezza.
Quando questa canzone fu lanciata da diverse case discografiche compresa l’americana Verve, tutti si domandarono chi fosse questa ragazza e la stessa esistesse per davvero. Molte ragazze dichiararono di essere loro “La ragazza di Ipanema”, ma fu Vinicio de Moraes, che nel 1975 fece un annuncio ufficiale, dichiarando che la vera ragazza di Ipanema era Elò, e loro la vedevano tutti i giorni passare davanti al bar Veloso e il suo ondeggiare era quasi in samba. Lei era il paradigma di un fiore carioca in procinto di sbocciare, ma porta verso il mare la giovinezza che prima o poi sfiorisce.
Quel bar adesso si chiama “La garota di Ipanema”.
La via Montenero ora si chiama “via Vinicio De Moraes”.
Elò divenne famosa, ma la famiglia non le permise mai di partecipare a trasmissioni o film.

Maestro Paolo Tagliaferri, ma per noi in questa intervista è Paolo, con tutta la sua cultura musicale, con i suoi titoli, con il suo amore verso la musica sacra e con la sua voglia di vivere con gioia.

S: Se dovessi raccontare a chi non ti conosce chi sei e cosa fai, cosa diresti?

P: Sono un musicista: suono l’organo in Chiesa e faccio concerti con un coro che dirigo da ormai cinque anni.In generale, direi che sono un essere umano abbastanza visionario che vive con entusiasmo e leggerezza quest’esistenza, consapevole che ogni giorno ha 24 ore di vita “gratis”. 

S: Ecco, adesso raccontaci il tuo percorso di vita, fino ad arrivare al ruolo prestigioso che hai ricoperto nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore.

P: Sono figlio di mamma pianista e papà compositore, quindi in un certo senso sono stato “allattato” con la musica. A 6 anni ho cominciato a studiare pianoforte con mia mamma e a 8 sono entrato nella Cappella Musicale Pontificia “Sistina” (il coro del Papa, nda); lì mi sono innamorato della Musica sacra e della Liturgia, così in terza media mi sono iscritto al Conservatorio “S. Cecilia” di Roma, dove mi sono diplomato in Organo e Composizione organistica. Ho avuto la fortuna di trovarmi fra le mani un “ministero” che a Roma potevo esercitare in luoghi davvero unici nel loro genere! Ho cominciato nella mia Parrocchia, Santa Maria ai Monti, uno dei primi esempi di barocco nella Capitale; negli anni ho poi lavorato come organista a Sant’Agnese in Agone (Piazza Navona, nda) al Pantheon e in tante altre Basiliche meravigliose.
A 21 anni la Provvidenza mi ha portato a Santa Maria Maggiore, dove sono stato organista titolare per otto anni.

La mia Vita è sempre stata una concatenazione di circostanze fortunate; la ritengo davvero una benedizione e per questo ogni giorno, quando la mattina apro la finestra, dico: “Grazie Gesú, per avermi fatto così fortunato!

S: L’organo e il coro polifonico “Canticorum Jubilo” che dirigi sono per te una sorta di cerchio che “abiti” con armonia, restandovi meravigliosamente al centro?

P: Durante le Celebrazioni liturgiche, il mio è un servizio: mi sento proprio su un altro binario e mi metto da parte perché so che il centro di quel momento è la gloria di Dio e l’elevazione dei fedeli.
Con il “Canticorum Jubilo” svolgo prevalentemente attività concertistica, quindi sono più portato a mettermi al centro di questo cerchio – che poi in Verità è un semicerchio (sorride, nda) – perché sento tutta la responsabilità della resa musicale. Quello col coro è un clima davvero sereno e per me questo è molto bello ed importante: per creare l’armonia musicale, bisogna prima partire da un’armonia a livello umano.

S: Quali sono le difficoltà dell’essere un organista liturgico e quali sono le caratteristiche che bisogna avere per dirigere un coro?

P: Una difficoltà è quella economica: qui in Italia – diversamente da quello che accade in alcuni altri paesi – è difficile dedicarsi a tempo pieno a questo servizio, non essendo prevista l’assunzione di un organista liturgico per il ruolo che svolge.
Per il resto, non ci sono altre particolari difficoltà, se non quelle di relazionarsi con sacerdoti con diverse sensibilità. Grazie al cielo, negli anni ho sviluppato quella libertà di coscienza che mi permette di essere il più coerente possibile con il mio sentire.
Per quanto riguarda il coro, penso che la caratteristica principale debba essere una forte empatia ed una grande capacità di stabilire relazioni; ovviamente cantare aiuta molto, la mia esperienza di cantore e di organista favorisce il gran lavoro che faccio con i miei coristi sulle dinamiche e sul fraseggio. Io ho sempre avuto delle visioni ben chiare in testa, i coristi mi “concretizzano” queste visioni con le loro voci ed ogni brano è per me un vero e proprio “viaggio”.

S: Sono curiosa di sapere se tu canti oltre a dirigere il coro, se ti piace cantare 

P: Io adoro cantare! La musica ce l’ho sempre in testa, debbo ancora capire se è una sciagura (ride, nda). Canto sempre, canto sotto la doccia, canto quando passeggio per il centro con le cuffie nelle orecchie, canto quando suono e – interiormente – canto anche quando dirigo! A casa, poi, quando sono particolarmente felice, metto un disco di Sinatra o di Luttazzi … e canto!

S: Che musica ascolti, oltre a quella che esegui come organista e direttore?

P: Ascolto molto swing americano, George Gerschwin, Cole Porter, Erroll Garner.
La mia “tripletta” in cuffia però è sempre quella: Palestrina, Bach, Morricone.

S: Un incontro che ti ha cambiato la vita o quello che ti ha completato

P: Ne ho avuti tanti, sia sul piano musicale che su quello umano.
Il Maestro Liberto, che dirigeva il coro del Papa quando ero piccolo, fu la persona che mi suggerì di “suonare coi piedi” (sorride, l’organo si suona anche con i piedi, nda); il Maestro Miserachs, che dirigeva la Cappella Musicale Liberiana (il coro della Basilica di Santa Maria Maggiore, nda), mi accolse a Santa Maria Maggiore quand’ero ancora un ragazzetto e mi fece crescere tantissimo come organista. Vorrei però ricordare anche due Maestri sicuramente meno “visibili” di Liberto e Miserachs, ma sempre discreti e fedeli nel volermi bene: padre Fausto d’Antimi, mio primo insegnante di organo e Claudio Adrian Menéndez, mio amatissimo maestro di pianoforte che è scomparso circa un anno fa lasciandomi un grande vuoto culturale.
Una persona che in tempi recenti mi ha “completato” è Michele Prattichizzo, un sacerdote speciale, della cui amicizia sono davvero fiero ed orgoglioso.

 

S: Prossimo concerto e progetti per il futuro

P: Il prossimo concerto sarà Domenica 18 giugno alle ore 19.00 nella Basilica Papale di San Paolo fuori le Mura. È il mio regalo di compleanno per gli 80 anni di due grandi Maestri della musica sacra contemporanea, a cui sono legato tantissimo: Giuseppe Liberto e Valentino Miserachs.
Dirigerò il “Canticorum Jubilo” insieme ad un ensemble di archi e uno di ottoni, sarà molto bello!
Progetti per il futuro non ne ho, non sono abituato a farli; dopo le vacanze, si vedrà … con leggerezza!

Era da tempo che volevo fargli questa intervista, senza fretta, godendo di tutta la personalità di un artista che si sta sempre più facendo conoscere nel mondo del teatro.
Da un nostro incontro è venuta fuori questa lunga ed appagante intervista, nella quale l’attore regala emozioni e riflessioni sul mestiere che ha scelto, così difficile eppure così bello. E poi momenti di vita personale, ricordi, aneddoti e tutto l’amore che lega un attore alla sua arte.

Buona lettura

S: Andrea, che momento è della tua vita artistica ed anche personale
A: è un momento felice, di appagamento, ma anche di crisi.
Crisi e felicità, per quanto mi riguarda, vanno di pari passo.
La felicità, sfortunatamente, non cresce sugli alberi e per raggiungerla è necessario superare un momento di crisi. Molti sono stati i progetti che mi hanno messo alla prova e tantissime le soddisfazioni raggiunte una volta conquistati gli obiettivi e superati gli ostacoli. La mia vita artistica, posso affermarlo, va di pari passo con la mia vita personale.
Il mio lavoro – che è anche la mia più grande passione – permea ogni momento della mia giornata.
Pochi mesi fa, ad esempio, la grande crisi è arrivata in un momento di ricerca. Io sono un cacciatore di storie ed un grande appassionato di Storia. Quella storia con la “S” maiuscola che ha inglobato – e ingloba – migliaia di microstorie che, inesorabilmente, vengono deteriorate dalla clessidra del tempo. La crisi in questione faceva riferimento ad un lavoro di ricostruzione storica a proposito della guerra che mio nonno Natale ha combattuto tra il 1940 ed il 1945 in Jugoslavia. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, ma sfortunatamente ero troppo giovane per chiedergli personalmente tutto quello che gli era accaduto durante la sua permanenza sotto le armi. Così ho cominciato a cercare documenti, lettere, fotografie. Sono riuscito a ritrovare moltissime notizie tra i faldoni e le carte sepolte, tra gli scaffali dei distretti militari. Poi mio padre, un giorno, mi racconta una storia che avevo già sentito, ma che avevo riposto in qualche antro della mia memoria. Un aneddoto che mio nonno gli raccontava sempre. E da questo aneddoto, da questa micro storia vissuta da un soldato qualunque, ho ricostruito la vita. E l’ho ricostruita nero su bianco con Il libro di Natale che è stato premiato come miglior racconto al Premio Nazionale Ercole Patti e che uscirà prossimamente edito da Algra Editore.
Come vedi, vita artistica e personale sono amalgamate alla perfezione. Ogni tanto si confondono ma tutto questo mi rende felice.

S: Che bambino sei stato e che uomo sei oggi

A: Sono il terzo figlio maschio, il piccolo. Arrivato a dodici anni di distanza dal maggiore (Massimo) e a dieci dal secondo (Fabio).  Il “bastone della vecchiaia” si potrebbe dire. Sono stato un bambino qualunque, che faceva molte domande, con la passione per tutto quello che lo incuriosiva e certamente viziato da mamma Maria e papà Salvo che non mi hanno mai fatto mancare nulla. All’età di quattro anni, mamma e papà mi catapultarono (con mia grande gioia) sul palcoscenico, con la commedia in dialetto siciliano ‘U sapiti com’è. Ricordo le prove con tanti attori, l’odore della polvere dietro le quinte di quel teatro parrocchiale ed il colore rosso delle poltroncine che, dal palco, spiccavano come tanti fiammiferi ordinati nella loro scatoletta. Da lì, io riuscivo a vedere tutto. Tutti quelli che c’erano seduti. Il giorno della prima rappresentazione, però, il rosso di quelle poltroncine venne meno. Quando entrai in scena – lo ricordo benissimo – sulla platea era calata la coltre nera del buio in sala. Quel buio mi aveva scioccato; intriso l’immaginario di una miriade di storie. Chi c’era lì? Immerso in quel misterioso mondo oltre il sipario? Non era dato sapersi. Non fino alla fine dell’ultimo atto, almeno. L’uomo di oggi porta con sé, ancora, l’immagine potentissima di quel buio e, forse, per questo, ha deciso di sposarla. Ho deciso di intraprendere questo mestiere “solo” per quel momento di buio. L’uomo di oggi sa che, immersi in quel nero, ci stanno tanti esseri umani: piccoli, adulti, anziani, che nella solitudine di quella coltre nera, vivono i loro sogni, piangono e ridono. Con me; insieme a me.

 S: Scegliere di fare questo lavoro pensi ti abbia reso una persona più consapevole, rispetto al genere umano?

A: Per fare questo mestiere è necessaria una buona dote di follia. Di questo, certamente, ne sono consapevole. Quando parlo di follia, però, non intendo parlare di quell’irrazionalità che porta alcuni individui – che amano definirsi artisti – a perdere le staffe in scena, a creare scompiglio e ad inserire forzatamente un elemento di distruzione (e pertanto chiamato erroneamente folle) all’interno di un’esibizione.
No. Per me la follia è quella capacità, quella consapevolezza, di trovarti all’interno di una gabbia e sentirti libero. Il mio mestiere spesso viene visto come il lavoro della libera espressione, del “tutto è possibile”, del “dimmi questa battuta così come se dovessi dirla al bar, così viene naturale”, del “tutti siamo attori”. Non è vero. Non tutti siamo attori o attrici. Così come non tutti siamo medici, veterinari o farmacisti. Bisogna studiare per esserlo. E poi, il mio mestiere è estremamente vincolante. Lontanissimo dalla mera libertà e dalle possibilità infinite. Basti pensare che abbiamo il vincolo della sceneggiatura, del ruolo, delle luci, i limiti fisici del palcoscenico. Tutto, nel nostro modo di finzione, ha un limite. Follia, quindi, è sentirsi liberi dentro questo limite con la consapevolezza di riuscire a raccontare storie diverse, personaggi diversi. Di trovare il brutto nel bello ed il bello nel brutto.
Non so, in conclusione, se questo mestiere mi abbia reso più consapevole rispetto al genere umano. So per certo che questo lavoro mi ha permesso di vivere i panni di centinaia di individui e questo mi ha insegnato a riflettere prima di emettere una qualsiasi sentenza nei confronti di una qualsiasi persona o situazione.

 S: Come affronti un nuovo testo, come lo studi, come lo fai tuo. Ma soprattutto come scegli se accettare o meno un ruolo.

A: Partiamo dall’ultima domanda. In questo momento storico della mia carriera posso dire di avere la fortuna di scegliere, soprattutto a teatro, il ruolo da poter interpretare. Ogni anno mi vengono proposti, con immensa gioia, molti lavori.
Ad un certo punto della carriera, però, non si può più dire di sì a tutto; e questo non perché ci si sente ormai realizzati. Semplicemente perché con il passare del tempo i ruoli diventano sempre più importanti e impegnativi e con una consistente mole di lavoro da affrontare. Pertanto, la mia scelta si fonda soprattutto sulla concretezza del progetto.
Non accetterò mai un lavoro senza delle solide basi artistiche ed umane. Io amo lavorare con gente educata e corretta. Mi piace affrontare il mio mestiere con la giusta dose di adrenalina ma senza nervosismi.
Nella mia vita artistica mi è capitato (raramente e soprattutto agli inizi) di lavorare con gente poco educata. Il lavoro ne risente; moltissimo.
Poi, decido anche in base al ruolo che mi viene proposto. Prediligo i drammi ma non disdegno le commedie.
In ultima analisi, ma non meno importante, valuto l’aspetto produttivo e remunerativo. Ne approfitto per ricordare che il nostro è un mestiere difficile anche dal punto di vista delle leggi che regolano la giusta contrattualizzazione dei lavoratori dello spettacolo. La presenza di una produzione solida e conosciuta, pertanto, è un ulteriore fattore che valuto prima di accettare.
Nel momento in cui accetto di lavorare su di un personaggio, prima di cominciare a “fare memoria” del testo, provo a documentarmi il più possibile; soprattutto se si tratta di un personaggio storico e realmente vissuto. Lo faccio attraverso i libri, i video originali (se esistono) e tutti i materiali che possono tornare utili ai fini di un approfondimento ed uno studio mirato. Dopo di che passo allo studio della memoria, delle battute che il personaggio deve interpretare. Lavoro moltissimo di fronte allo specchio, quando mi è possibile e, anche durante le prove, utilizzo sempre (o quasi) il costume, soprattutto le calzature. Queste, infatti, sono fondamentali ai fini della giusta postura del personaggio. Diciamolo chiaramente: non è possibile interpretare Napoleone Bonaparte con le scarpe da ginnastica!
Io sono un attore molto tecnico. Prima di lasciare il sopravvento al sentimento, provo a costruire nel dettaglio ogni minima azione da ripetere in scena strutturando uno spartito fisico. Lavoro come un musicista che segue lo spartito. Io non leggo le note, ma le azioni. L’insieme dei miei spartiti fisici, costituisce l’intera partitura del mio personaggio. In poche parole, costruisco la mia gabbia per provare a sentirmi libero una volta che è stato chiuso lo sportello d’ingresso.

S: Sei reduce dal nuovo spettacolo “PPP amore e lotta”, andato in scena al teatro Cilea di Reggio Calabria. Che Pasolini avete portato in scena?

 A: Abbiamo portato in scena un Pasolini non convenzionale. Il testo di Katia Colica, diretto da Matteo Tarasco non metteva in scena la vita e le opere di Pierpaolo Pasolini. Non si trattava di agiografia del poeta ma di una storia inedita.
La drammaturga ha immaginato una bolla temporale venutasi a creare nel momento in cui Pierpaolo viene ucciso all’idroscalo di Ostia. All’interno di questo limbo il poeta ritrova lo spettro del fratello Guido e l’immagine della madre Susanna che, come ogni sera, lo avrebbe aspettato – stavolta invano – alla finestra.
L’allestimento è stato davvero spettacolare e le musiche di Antonio Aprile hanno dato un tocco magico e spettrale alla scena. Devo dire di essere stato molto fortunato. Ho avuto la possibilità di essere diretto da un grandissimo regista come Matteo Tarasco e la grande occasione di lavorare insieme a Maria Milasi, collega bravissima che ha interpretato la madre Susanna e ad Americo Melchionda che è stato veramente straordinario.
In scena, spesso, data la sua somiglianza con il poeta, sembrava davvero di vivere in un sogno e di avere Pierpaolo Pasolini a pochi passi da noi, insieme, sul palcoscenico del teatro Cilea. Uno spettacolo di cui, sono certo, sentirete parlare molto.

S: Che ruolo hai avuto in “PPP amore e lotta” e come l’hai fatto tuo

A: In PPP ho avuto l’immensa fortuna di interpretare Guido Pasolini, fratello di Pierpaolo, partigiano della brigata Osoppo ucciso dai partigiani comunisti della Brigata Garibaldi, appena diciannovenne, nei fatti legati all’eccidio di Porzûs, controverso episodio della resistenza italiana. Io avevo sempre sognato di interpretare un personaggio simile; un soldato, un ragazzo che ha immolato la propria vita per un ideale. È vero, anche io scrivo spesso di soldati e di episodi legati alla guerra, ma il ruolo che per me ha scritto Katia Colica è stato davvero emozionante. Anche in questo caso prima di cominciare ho comprato molti libri e ho cercato di reperire moltissime notizie a proposito de “l’altro Pasolini”. Ho scoperto un mondo, per me, assolutamente nuovo. Sono stato catapultato, improvvisamente, in Friuli Venezia Giulia; una regione, per me, geograficamente lontanissima e che non avevo mai preso in considerazione per le mie ricerche storiche. Ed invece ho scoperto un luogo meraviglioso che pullula di storie, di fatti; terra di confine, non soltanto crocevia di disgrazie e di racconti da far rabbrividire.
Nello spettacolo rappresento lo spettro di Guido che apprende, in quel momento, di essere morto: fucilato con un colpo alla testa e seppellito in una fossa comune insieme ad altri diciassette compagni.
Da quel momento questo personaggio è divenuto, per me, un’ossessione. Ho scoperto moltissime cose: il suo volto, le lettere che scriveva alla madre Susanna ed al fratello Pierpaolo, le poesie, le fotografie.
Una cosa continuava ad ossessionarmi. La sua voce. Non ne ero a conoscenza. Così, un giorno, il regista Matteo Tarasco mi propose di render giustizia alla voce di Guido. Un ragazzo che aveva vissuto tutta la vita tra la gente che parlava friulano che accento avrebbe potuto avere? Friulano, ovviamente, ed imbastardito dal dialetto emiliano del padre Carlo Alberto. Mi sono imbattuto così nel più complesso lavoro della mia carriera. Io, siciliano, avrei dovuto recitare con un accento friulano con cadenze emiliane. Pertanto, ho chiesto aiuto all’attrice friulana Rachele Sarti che mi ha aiutato come vocal coach. Abbiamo studiato i suoni, la musica e le cadenze di quel dialetto così estraneo e, per me, lontano. Da quel momento Guido si è pian piano fatto strada nella mia anima ed è diventato, per sempre, un pezzo del mio cuore.

S: Ti capita di tirare fuori battute dei tuoi lavori teatrali, nella vita?

A: Assolutamente sì. Ho un grande amico, Pierpaolo Laconi, straordinario mago di bolle internazionale, con il quale abbiamo condiviso moltissimi spettacoli. Le nostre conversazioni vanno avanti solo per battute ripescate da vecchi lavori teatrali. Questo ci fa ridere. È un modo per esorcizzare il tempo che passa ed allontanare con meno rimpianti i progetti che vengono riposti per sempre nel cassetto.

S: Le emozioni sono sempre le stesse, quando sei in scena?

A: No, le emozioni non sono mai le stesse.
Per me, molto dipende da diversi fattori. Ultimamente mi rendo conto di essere molto più emozionato quando so che tra il pubblico c’è qualcuno della mia famiglia. Spesso mi trovo a recitare lontano da casa, con un pubblico a me non familiare. Anche in quel caso sono emozionato, ma quando recito “in casa” ho sempre un fremito in più. Da anni ormai, come sai, porto in scena il monologo La guerra di Paulinuzzu Millarti. Quando so che in platea sono presenti anche i parenti del signor Montalto, tutto cambia e mi sembra di tornare indietro alla prima volta che ho messo piede sul palcoscenico da professionista. Ho girato tantissimi posti e ho recitato in teatri molto grandi, ma l’emozione più grande per me, oggi, è avere la mia famiglia ed i miei nipotini in platea. Vederli dal palco è, per me, lo spettacolo più bello del mondo.

S: Hai mai pensato: quasi quasi smetto, faccio altro? In fondo questo è per davvero un mestiere difficile

A: Il nostro è davvero un mestiere difficile. Cosa vendiamo in fin dei conti? Storie. E le storie cosa sono? Fumo. Noi attori siamo venditori di fumo. Non vendiamo qualcosa che si può stringere tra le mani, che si può appoggiare sopra una mensola o che si può possedere realmente. Vendiamo qualcosa di immateriale; di effimero. E vendere storie, oggi, è davvero complicato. Ma mi chiedo, in questo momento storico, quali altri lavori sono così sicuri? La sicurezza economica potrebbe arrivare da un posto fisso, certamente. Ma noi liberi professionisti siamo tutti sulla stessa barca. Io mi trovo ad affrontare le stesse difficoltà di un avvocato, di un architetto, di un ingegnere che a fine mese devono far quadrare i conti con lo spettro e la consapevolezza di non avere uno stipendio fisso. E poi ci vuole coraggio per potersi barcamenare in questa ridda di pescicani che è il mondo dello spettacolo. Ma a me il coraggio non è mai mancato. Di questo sono più che sicuro. Ricordo ancora il giorno in cui, tredici anni fa, lasciai la sicurezza delle mura di casa e partii per realizzare il mio sogno. Andai via per studiare in accademia.
Ricordo i sacrifici dei miei genitori per non farmi mancare nulla, anche a centinaia di chilometri di distanza. Devo tutto a loro. Ogni traguardo raggiunto, non solo la vita che mi hanno donato.
Per questo ti dico: no. Non ho mai pensato di smettere.
Non potrei mai farlo per l’amore, la dedizione, il sacrificio e lo studio che ho dedicato in questi anni di lavoro. E anche volendo rinunciare cosa potrei fare? Senza questo io non riuscirei a fare altro.
C’è una frase del mio maestro Carlo Giuffrè, “gigante” del teatro con il quale ho avuto l’onore di lavorare – e che è stato uno dei miei più grandi maestri – che per me è una sorta di monito.
Dice: “Se non ci fosse stato il teatro non avrei saputo fare altro. Il teatro è tutta la mia vita. […] gli attori vivono più a lungo, perché vivendo anche le vite degli altri, le aggiungono alle loro”.
Anche io spero di vivere a lungo. Non una vita soltanto, ma centomila.

 S: Che ambiente è quello dell’arte e del teatro, e come si gestisce il successo quando arriva, secondo te

A: Il successo può arrivare da un momento all’altro, quando meno te lo aspetti ed a qualsiasi età. Bisogna essere pronti, mentalmente e professionalmente. Se arriva quando si è adulti, nella maggior parte dei casi, si riesce a capire che non si tratta di un marchio che attesta maggiore bravura rispetto agli altri. Può essere, ma non è sempre così.
Ho visto attori straordinari, a teatro, avanti con gli anni, che hanno successo tra le fila degli addetti ai lavori, ma che non possono essere definiti popolari a livello nazionale.
Il successo deriva semplicemente da un insieme di fattori che hanno permesso alla nostra immagine (proiettata o mandata in diretta di tv) di essere vista da svariate migliaia di persone.
Se il successo arriva da piccoli, invece, bisogna avere la lungimiranza di incanalarlo verso uno studio ed una formazione che permetta all’attore o all’attrice in questione di non rimanere relegato per sempre allo stesso identico ruolo. Oggi, soprattutto in televisione, si ha una tendenza a prendere attori che aderiscano già perfettamente con il personaggio. Spesso questi prodotti sono distribuiti su scala nazionale e questo può portare al successo ed alla popolarità. La lotta successiva sarà quella per riuscire a scrollarsi di dosso il ruolo che ci era stato imposto, e per farlo sono necessarie solide basi di studio che possano permettere agli individui in questione di calzare diversi ruoli altrettanto comodamente.
Come si gestisce il successo? Non saprei dirti, cara Simona, spero di parlartene presto nelle prossime interviste. (Sorrido).

 S: Il successo è popolarità, oppure la popolarità non sempre cammina di pari passo con il successo? Insomma cos’è il successo? E il talento?

A: Non credo che la popolarità cammini sempre di pari passo con il successo. Essere popolari non significa, per forza, essere riconosciuti nell’ambito del proprio lavoro e della propria disciplina. Ci sono molti casi in cui successo e popolarità camminano a braccetto. È il caso, questo, dei colleghi che, oggi, sono riconoscibili alle grandi masse che li hanno potuti ammirare nei loro lavori in televisione o al cinema. Riescono a realizzare lavori di chiara fama, con registi qualificati (anche loro popolari e di successo) e vengono spesso insigniti di premi e riconoscimenti. Nella maggior parte dei casi sono amati dalle folle. In questi giorni abbiamo avuto modo di leggere dell’ennesima donna vittima di un compagno violento. In questo caso, l’individuo in questione, diviene popolare – ovvero riconosciuto dai più per i fatti commessi – ma certamente non possiamo dire che questi sia un individuo amato e di successo.

Il talento? Non credo nel talento e non ci ho mai creduto. Credo che esista una predisposizione per determinate cose. Questa predisposizione, però, va supportata da uno studio, duro ed approfondito che possa permettere all’individuo in questione di poter avere gli strumenti adatti per realizzare il proprio lavoro nel migliore dei modi. Il genio (e non il talentuoso) è infatti colui che, dopo aver appreso tutto ciò che la propria arte può trasmettergli, cambia le prospettive, rompe gli schemi e ne fonda degli altri. È colui che riesce a vedere le cose da un punto diverso. Così è stato per i grandi maestri della pittura: Picasso, ad esempio. Così per i grandi visionari del novecento come Carmelo Bene.

Talento, oggi, è una parola abusata e utilizzata ai fini dell’imbroglio. Moltissimi enti di formazione artistica, vantano tra le loro file allievi di “talento” che sono riusciti a lavorare nelle grandi produzioni cinematografiche o teatrali. E se il talento è la risposta a tutto allora perché hanno dovuto studiare? Il talento viene elevato allo stesso livello della fortuna. So fare una cosa e allora la faccio; così, senza metodo.

Nessuno si sognerebbe mai di sottoporsi ad un’operazione a cuore aperto fatta da un chirurgo di talento ma che non ha mai studiato o che si è ritrovato poche volte ad incidere delle carcasse in diretta televisiva. Per questo, a mio modesto parere, dovremmo smettere di dare così tanta importanza a questo fantomatico talento e dovremmo trattare gli artisti come professionisti della cultura, come individui formati, che possiedono un mestiere, appreso nelle accademie o sul campo.

Il talento non esiste, esiste lo studio, forsennato ed incessante e la caparbietà di dire: io farò questo; costi quel che costi.

 S: È vero che un attore è bravo se il regista che lo dirige lo è?

A: No, non credo. Sicuramente se un regista è bravo lo spettacolo ne guadagna in bellezza visiva, in fluidità scenica ed emozionalità. Il regista, in fondo, è colui che riesce ad amalgamare e fondere i differenti piani interpretativi di tutti gli artisti coinvolti nell’allestimento. Riesce a far combaciare il piano narrativo con quello interpretativo, e poi con quello dello scenografo e con quello del musicista e del light designer. Un bravo regista deve avere una perfetta visione di insieme e deve cercare di mantenere i punti d forza di ciascun artista implicato nell’operazione.

Io credo, poi, che il lavoro regista-attore sia un lavoro di continuo scambio. Non è vero che l’attore è un pupazzo nelle mani del regista e nemmeno che il regista sia un terzo incomodo che si intromette e riduce i virtuosismi dei primi attori. Nella mia carriera ho sempre avuto la fortuna di lavorare con registi bravissimi e molto intelligenti come Francesco Giuffrè, Natale Filice, Americo Melchionda, Benedetta Nicoletti, Giancarlo Sammartano, Matteo Tarasco, Tommaso Sassi e tanti altri.  Con loro il dialogo è stato sempre frequente e professionale. Questo non significa che le nostre visioni fossero sempre uguali, ma ciascuno spettacolo è frutto del lavoro di ciascun individuo implicato.
Senza dibattito non c’è vita, senza vita non c’è teatro e senza teatro non c’è comunità che possa definirsi civile.

S: Prossimi progetti?

A: Questa estate sarò in giro con tre diversi spettacoli. A partire dalle prossime settimane tornerò in scena nei panni di Guido Pasolini in PPP Amore e Lotta. Saremo in tournée nella zona della locride. Dopo di che continuerò il mio tour, sempre con la compagnia Officine Jonike, con lo spettacolo Ulisse on the Road dove interpreto il ruolo del dio Poseidone, in una riscrittura del mito. Lo spettacolo la guerra di Paulinuzzu Millarti invece sarà di scena a Reggio Calabria immerso nel suggestivo panorama dello stretto. Per la prossima stagione ho già in cantiere altri lavori tra i quali un ruolo di Mercuzio nell’opera Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Contemporaneamente al lavoro di attore continuo con il mio lavoro di formatore teatrale, insegnante di movimento scenico. Inoltre insegno, presso un’accademia di recitazione romana “utilizzo della maschera integrale della Commedia Nuova” che, grazie a Giancarlo Sammartano, ho avuto modo di approfondire e perfezionare con la mia laurea.

S: Grazie Andrea, a presto. 
A: A presto, grazie.

 

 

 

 

Potrebbe tranquillamente essere considerato un film storico, se non fosse un film di Marco Bellocchio che come sempre, attraversa la storia e gli avvenimenti dal suo punto di vista, senza pregiudizi e con la giusta tensione, utilizzando dettagli che sono propri del suo modo di fare cinema.

Anche questa volta, con “RapitoMarco Bellocchio non delude, anzi, affascina e coinvolge, disseminando all’interno della pellicola degli indizi, sfidando lo spettatore a riconoscerli e a sistemarli come tessere di un puzzle creato ad arte. Sa ben raccontare i rapimenti, Bellocchio; lo aveva già fatto occupandosi di quello di Aldo Moro.

Come sempre Bellocchio fa, pesca la trama nei temi che gli sono cari e dei quali è nutrito tutto il suo cinema: il potere, la chiesa, la famiglia, ed il ruolo dei personaggi che si muovono dentro un tessuto storico che viene analizzato con ricercatezza.

La storia di Ergardo Mortara, un bambino ebreo che nel 1758 a soli 6 anni viene strappato alla sua famiglia per essere educato in Vaticano e convertito alla religione cattolica, è quasi sconosciuta, e Bellocchio la scova e la plasma non solo per renderla nota al grande pubblico, ma la utilizza come stratagemma per puntare l’attenzione e dunque l’obiettivo sul potere della Chiesa, lo stesso che stregherà il bambino che una volta adulto, rinnegherà la sua origine e la sua religione.

Sullo sfondo le lotte intraprese dalla famiglia, le sconfitte della comunità ebraica da parte del potere del Vaticano, e poi quella parte di storia dimenticata, quella che va dal periodo in cui comandava il papa Re di una Italia in bilico, fino alla breccia di Porta Pia, quando un neonato Stato italiano, insorge e risorge.

Il tutto attraverso le vicissitudini di un bambino, diviso tra il dolore e la disperazione che prova lontano dalla sua famiglia, e la necessità di sopravvivere in un ambiente che pian piano gli è sempre meno ostile. Una esistenza tra sensi di colpa e voglia di libertà.

Pur in maniera molto aderente alla realtà, Bellocchio mostra senza alcun pregiudizio, tutte le sfumature ed anche le contraddizioni delle parti in causa. E così lo spettatore finisce dritto dritto dentro l’istruzione ecclesiastica di quegli anni, ed anche nelle metodiche esistenziali della famiglia ebraica. La complessità umana e psicologica dei personaggi, è analizzata con dovizia e con rispetto.

Il film drammatico, affianca il ruolo e la personalità di Edgardo (da bambino Enea Sala, da adulto Leonardo Maltese)  che cresce e trova la sua strada, a quello del papa Pio IX, interpretato da un Paolo Pierobon in gran forma, che esalta il carattere di quel pontefice che influenzò la fede cattolica anche con il modo in cui si occupò del caso di Edgardo Mortara, vittima di un battesimo clandestino. Grottesco, fin quasi ad assomigliare alle caricature che Bellocchio vuole prendano vita. Nella pellicola anche il fedele Fabrizio Gifuni, immenso nel ruolo del “rapitore del rapito”, padre Feletti, che irrompe nella casa dei Mortara per strappar via il piccolo Edgardo dalle braccia di suo padre (Fausto Russo Alesi). La scena nel film è magistrale come l’interpretazione di Gifuni che si conferma uno dei più bravi attori contemporanei del cinema italiano, che Bellocchio più volte ha scelto per i suoi film.

Nella pellicola il passaggio onirico, segno distintivo del cinema di Bellocchio, coinvolge il Papa, e poi sarà il piccolo Edgardo, che durante un sogno, farà scendere Gesù dalla croce, che diventa così uomo e si allontana da quel calvario che è anche la vita di un piccolo bambino che vede in quella croce, tutti i mali del mondo compreso il suo.

Bravo Bellocchio ad analizzare le imperfezioni umane, le sfaccettature del potere e la libertà di scegliere chi essere, a dispetto di ciò che gli altri si aspettano tu sia. Diventare, mentre si prova ad essere, è quella forma di libero arbitrio che il regista affida alla figura di Edgardo Mortara, che sceglierà la chiesa cattolica come sua casa e suo destino, consacrandosi ad un Dio che in tenera età gli era stato imposto.

Il colore dei film di Bellocchio è riconoscibile già dalla prima scena raccontata. Il buio anche quando c’è luce, l’assenza del sole perché nel plumbeo del vivere risiedono dolori ed incertezze, disperazione e quella verità nascosta sotto la coltre di un potere temporale che annienta anche il senso della chiesa stessa. Quei chiaroscuri che a tratti inquietano e regalano il senso di quel vivere e del dolore dei volti.

L’uso del grandangolo, di cui Bellocchio si serve per abbracciare luoghi e simboli, per poi passare ai dettagli che scrutano sguardi e paure, sentimenti e bellezza.
Perché il regista è maestro di bellezza, di stile, in quel suggestivo affresco narrativo, che incede con un ritmo del montaggio che travolge e coinvolge.

Restano impresse le scene non a caso di Ergardo bambino che dalla gonna della mamma che lo nasconde quando stanno per portarlo via, alla gonna papale sotto la quale sarà il papa a nasconderlo affinché non lo trovino mentre giocano a nascondino. La differenza sottile tra il potere papale che nasconde consapevole che nessuno oserà stanare, e quello di una madre a cui l’amore non basta per mettere in salvo suo figlio. E poi l’urlo del padre, quando capisce che è tutto perduto. Un crescendo di sensazioni che trasmigrano dall’attore allo spettatore.

La storia dunque, ancora una volta al servizio di un regista che riscrive le dinamiche, lasciando intatte le vicissitudini.

 

 

 

 

 

 

 

La scuola fatta di emozioni provate e condivise.
La scuola che nasconde il senso della vita.
La scuola dove si impara, ma si impara anche ad imparare.
Perché è vero che esiste un metodo per imparare ad accogliere il sapere e la cultura che poi si tramuta in un metodo appassionato per imparare a vivere, a riconoscere le proprie attitudini, per accogliere i propri limiti senza sentirsi inadeguato o continuamente in competizione con gli altri, perché alla fine i limiti da superare sono sempre con se stessi.
Il metodo “Vecchioni”, del professor Roberto Vecchioni, che con i ragazzi del Liceo Beccaria passava 18 ore alle settimana insegnando loro greco, latino, italiano, storia e geografia (ma la geografia non la facevano quasi mai) … e non solo; insegnava loro a migliorarsi, a crederci, ad andare oltre, a confrontarsi, a capire e a non arrendersi mai. Al posto della geografia, analizzavano il pensiero letterario dei greci e dei latini.

Ieri sera Massimo Gramellini durante l’ultima puntata di “Le Parole” in onda tutti i sabati alle 20.30 e su Rai 3, ha fatto una sorpresa al suo compagno di viaggio, invitando i ragazzi della V A che con lui si sono diplomati nell’anno scolastico 1998-1999, causando in Vecchioni una profonda commozione.

Il “metodo Vecchioni” che prevedeva interrogazioni programmate e di gruppo, non certo facili (come hanno sottolineato i suoi ex alunni ormai adulti ed affermati).
E poi il premiare sempre l’impegno, la costanza. Non interessava se fossi andato benissimo, all’interrogazione. L’importante era non studiare all’ultimo minuto, preparandosi di fretta.

Interista sfegatato, il lunedì era una giornata che rifletteva i risultati delle partite.
lui, che tirava il gessetto – senza che nessuno mai se ne avesse a male – quando i suoi alunni dicevano corbellerie.
Il suo metodo prevedeva il togliere lo 0,5 per ogni errore commesso sui paradigmi, salvo poi non considerare mai quei voti che ne venivano fuori. E poi quel -2 dato per un compito in classe con i verbi tutti sbagliati. Ma non era mai cattiveria la sua, anzi li spronava a raggiungere degli obiettivi, studiando di più.
E così finche la sua alunna, che lui riteneva capace di grandi cose, non raggiunse il 7, continuò a metterle 4 anche se il compito non era da 4. Ma alla fine il “metodo Vecchioni” funzionò. I 4 sparirono; erano solo scritti a matita! rimase solo il 7.
In classe faceva i tornei di “mercante in fiera” e in palio c’era anche la cancellazione di un voto brutto, o una giustificazione. Era un modo per stimolare, giocando. Le risposte giuste, alle domande di cultura generale e non solo specifiche delle sue materie, facevano guadagnare carte.
Insieme ai suoi ragazzi, giocava anche la schedina di classe.
Anche con i genitori aveva un rapporto particolare. Stemperava la soggezione, chiedendo ai genitori di parlare dei loro figli, che per Vecchioni non erano numeri da incasellare o nomi in elenco, ma delle persone con peculiarità, caratteri diversi e sogni, come quelli che lui cantava nelle sue canzoni.
Il cantautore famoso che però sapeva fare il prof, appassionando con le sue spiegazioni.
Appassionando, perché alla fine è indurre ad appassionarsi, la chiave per rendere i giovani non solo colti ma anche consapevoli dell’importanza di ogni cosa che imparano e che servirà loro nel vivere, conservando la medesima passione e l’entusiasmo, quello che Vecchioni ha lasciato nei suoi alunni.
Il prof che entrava in classe e si sentiva felice.
Il “metodo Vecchioni” prevedeva di essere “in una sfera”, come fuori dal mondo, quando era con i suoi ragazzi, ma al contempo dentro al mondo, capendo il mondo da dentro la loro sfera, attraverso le domande, lo scherzo, il parlare, non solo attraverso le materie didattiche da programma.
Era il loro professore, non il loro amico. Autorità e confronto.
Il “metodo Vecchioni” prevedeva delle ricerche, spesso a tema libero; a lui serviva per comprendere in che  direzione andassero le loro idee.
Oggi alcuni dei suoi alunni sono diventati a loro volta docenti, ed hanno portato in questo difficile ma meraviglioso mestiere, tutta l’esperienza di vita vissuta con il professor Roberto Vecchioni.

La scuola è insieme. La prima cosa è accorgersi dell’altro, degli altri. Confrontare idee, pensieri, sorrisi e pianti, le problematiche dell’età. La prima cosa della scuola per me, non è la materia insegnata ma l’insieme. La cosa fondamentale della scuola è che deve prima insegnare a guardarti dentro, a capire come sei fatto, all’umanità che dai dentro e poi quello che c’è fuori, compreso il lavoro. Perché se ti scruti dentro, e non dimentichi la storia, hai sicuramente la capacità di superare tutto quello che c’è fuori compreso le difficoltà. Quel fare che c’è fuori, a scuola lo impari, anche se non è quella la tua strada. Avere cognizione di ciò che vive fuori da te. La storia non va mai lasciata indietro. Bisogna andare a scuola, per essere uomini 

Roberto Vecchioni