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2 novembre 1975
Pier Paolo Pasolini, fu talmente tante cose in vita, che una vita non basterebbe per conoscerlo in ogni sua pregevole attività svolta.
Poeta, scrittore, regista, giornalista, drammaturgo, sceneggiatore, editorialista, saggista, traduttore.
Bisognerebbe amare ed essere appassionati di ognuna di queste categorie artistiche, per amarlo profondamente, forse.
Eppure, Pasolini, resta il più straordinario intellettuale del ‘900 e nell’epoca nella quale tutti si atteggiano ad uomini “di sapere” lui spicca, con tutta la sua crudeltà – che poi é stata anche il suo punto d forza – nel criticare la società moderna, la società dei costumi, le abitudini borghese, quei cambiamenti del vivere che ha avuto protagonisti che Pasolini analizzò in maniera quasi maniacale.
E poi quel rapporto con la sua omosessualità, alla quale fu attribuita anche la sua morte, considerato che il suo omicidio sarebbe avvenuto proprio a seguito di richieste sessuali rivolte a Pelosi.
Manca ad oggi una figura come Pasolini, perché nessuno ha saputo mai più dopo di lui essere figura così centrale della nostra cultura, un poeta capace di segnare un’epoca, un geniale regista e un uomo con cui la parola era davvero inesauribile.
Forse non tutti sanno che Pasolini scrisse anche canzoni, scrisse per Sergio Endrigo, per Gabriella ferri, per Domenico Modugno. Non ci fu per davvero un campo nel quale non si cimentò, riuscendo con successo.
Poi ci fu chi l’amò profondamente, pur vestendo solo i panni di un’amica speciale che pur essendo sempre rimasta nell’ombra, defilata, descriveva il suo rapporto con lui come “una ingordigia del reale”. Per lei, Donna borghese, PPP era il piccolo Gesù di paese.
“La sua vita era fatta di regolarità e disciplina, eppure credo che non fosse felice di quella sua vita” – racconta la donna che l’amò.
Visse portando addosso la delusione umana, e quella tristezza che – chi lo ha letto ed amato – conosce bene.
In questo giorno che di anno in anno non passa mai inosservato, ho deciso di porre l’attenzione su alcuni scatti che raccontano bene chi fu Pasolini.
La prima è una foto scattata da Mario Dondero, grande amico di Pasolini, che lo ritrae con sua mamma amatissima Susanna Coluzzi.
Sono abbracciati, sembrano avere le stesse rughe, lo stesso sorriso accennato e il medesimo sguardo che lascia intendere un sogno comune.
Sono una cosa sola, sono all’unisono, sembrano proteggersi vicendevolmente.
La seconda è l’Alfa Romeo GT 2000 spider  verde di Pasolini, quella che lo condusse ad Ostia quella sera del 2 novembre ’75 quando fu assassinato.
L’auto esiste ancora, è spuntata fuori l’anno scorso a Varese e il nuovo proprietario ha promesso un restauro per esporla. Un’idea stupenda e tutti aspettiamo di poterla rivedere perché pezzo di storia, della storia di Pasolini.
La terza foto ritrae Pasolini con i capelli al vento sulle dune di Capocotta, mentre spiega che l’Italia sta vivendo uno “sviluppo senza progresso”, e da allora tutti hanno imparato che sviluppo e progresso non sono sinonimi, ma che nella loro sostanza possono anche rappresentare degli opposti.
Nella quarta foto l’assegno firmato da Pasolini, per pagare l’ultima cena nell’osteria di Aldo Bravi.
Ultima cena con Ninetto Davoli, che gli costò 11 mila lire. Assegno mai incassato e incastonato in una teca per ricordare quel giorno, il 2 novembre del 1975, nell’osteria Pommidoro. Quell’assegno, quella firma, furono per Aldo Bravi, morto lo scorso anno, un modo per tenere stretto il ricordo di un amico.
L’ultima foto è sul luogo dell’omicidio, all’idroscalo di Ostia. Uno spiazzo fatiscente. Le indagini sul suo omicidio non furono brillanti, la verità completa non è mai emersa; gli amici chiedono ancora di fare luce sull’accaduto. Tante le versioni riguardo all’uomo che per la giustizia italiana è stato l’assassino di Pier Paolo Pasolini, Pino Pelosi.
La scena del crimine è significativa.
Pasolini viene ucciso di notte, il corpo viene scoperto all’alba, è domenica e quel luogo dopo i primi rilievi viene subito sgombrato, perché è un campo da calcio, ci sono un sacco di ragazzini che sono arrivate da tutte le periferie di Roma per un torneo.
Lì, dove Pierpaolo – che era una super ala destra nel calcio – era morto, poche ore dopo si giocò a pallone.
Qualcosa di poetico che accompagnò quella sua uscita di scena.
LA FOTO DI COPERTINA È DI PROPRIETÀ DI SICILIA24H   © 

Da sempre la Calabria fa i conti con i terremoti, e vivere qui, significa accettare di doversi svegliare nel cuore della notte, inermi ed impotenti davanti alla forza – e a volte anche alla violenza  – della terra che trema.

Anche ieri sera in scena la paura, il panico, durante e dopo la scossa di magnitudo 5.1 registrata alle 22.42 al largo della costa calabra Scalaea-Cosenza.

La sala sismica dell’Ingv ha localizzato il terremoto ad una profondità di 286 km, al largo della costa nord-occidentale.

Dai primi controlli non ci sarebbero danni, e questo proprio perché la scossa si è consumata in fondo al mare attutendone l’effetto sulla terraferma. Ma continuano i controlli della Protezione Civile.

Nel cosentino, nella zona montana, l’effetto si è sentito ancora meno.

Intanto la scossa si è avvertita in tutta la Calabria, fino a Messina.
Nel crotonese, nel vibonese, a Catanzaro, nella Piana di Gioia Tauro e a Reggio Calabria.
Da ogni parte della regione, sono giunte segnalazioni.

 

È tornato in Calabria lo scorso 23 ottobre, Andrea Puglisi, raffinato attore di teatro che sul palco del Teatro Comunale di Mendicino (Cs) ripropone un testo che lui stesso ha scritto e che mette in scena con una sensibilità intensa e coinvolgente.

“Paulinuzzu Millarti“,  storia di Paolo Montalto –  che parte per la guerra per poi far ritorno a casa, da una madre ormai vecchia che stenta a riconoscerlo, dopo mille vicissitudini –  si muove nelle parole e nei gesti scenici di Andrea Puglisi, capace di fare da solo in scena tanti personaggi, con un ritmo serrato che ben si presta alle vicende narrate.

L’orrore della guerra, la necessità di doversi preservare, il dolore della perdita, le atrocità viste, il destino, le opportunità, tutto ben  raccontato ed interpretato dentro una scenografia efficace, che l’attore sa vivere e trasformare mentre prende forma crudeltà che non fa sconti.

Credibile, cresciuto e capace, Andrea Puglisi – diretto in scena da Benedetta Nicoletti che ne cura la regia – utilizza in maniera virtuosa il dialetto siciliano, per raccontare vicissitudini, sentimenti, e quella storia vera che lui fa sua, dopo un racconto ricevuto da colui che quella guerra l’ha vissuta per davvero.

Ai microfoni di Sicilia24h, l’attore racconta il suo teatro e si racconta amabilmente

 

 

È venuta a mancare oggi Rita Calore, la mamma di Stefano e Ilaria Cucchi. A darne l’annuncio l’avvocato Fabio Anselmo attraverso i canali social:

«Non ce l’ha fatta. Questa mattina Rita Calore si è arresa per andare a riabbracciare Stefano. Il figlio mai perduto. Lo scrivo con tanta emozione e mi stringo a Giovanni ed Ilaria. Non mi viene altro da dire a questa grande famiglia»

Lunga la battaglia per la giustizia arrivata dopo 13 anni dalla morte del figlio Stefano.
Un periodo estremamente doloroso per tutta la famiglia Cucchi, che oggi piange la mamma Rita.

Le parole in aula della signora Rita quando raccontava dell’ultima volta che ha visto suo figlio Stefano morto:

Non l’ho riconosciuto. Quello che vedevo non era più Stefano era uno scheletro, tutto nero, un occhio di fuori, la mascella fratturata. E la sera prima dell’arresto, forse un presagio. Mio figlio mi disse ‘abbracciami, dormi tranquilla, vedi che adesso sto bene’. Fu l’ultimo abbraccio con mio figlio. Verso l’una di notte sentii suonare il citofono: erano i carabinieri che venivano per la perquisizione

Giunti messaggi di cordoglio per Ilaria Cucchi,  dal mondo politico.

Ci stringiamo a Ilaria Cucchi. Oggi ancor più di ogni giorno

ha scritto su Twitter il segretario del Pd Enrico Letta.

 

Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana:

La nostra comunità si stringe ad Ilaria Cucchi e ai suoi cari. Un abbraccio fortissimo. Ricorderemo sua mamma Rita come una donna coraggio

 

Tutta la redazione del Sicilia24ore insieme al direttore Lelio castaldo e al vicedirettore Simona Stammelluti porge le condoglianze a Ilaria e al signor Giovanni per la perdita della cara Rita

Il periodo storico (e politico) è quello che è e dunque ogni occasione è buona, per dissentire da ogni forma di violenza verbale, atto di razzismo, discriminazione.

Sono giorni difficili, nei quali tocca fare i conti con la realtà cruda e a tratti cruenta, che vede seduti sui due più alti scranni del Parlamento Italiano Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana, che – come hanno spesso dimostrato insieme a tutta la destra salita al governo e quindi al potere – sono molto lontani da tutto ciò che può essere inclusione e rispetto dei diritti civili di tutti e che su molti temi etici si sono dimostrati non solo conservatori, ma hanno anche disprezzato ogni forma di identità che non fosse canonicamente riconosciuta. Per non parlare del razzismo puro mascherato dal “aiutiamoli a casa loro” e “prima gli italiani”.

In questo clima così teso, finisce che in una trasmissione leggera come “Ballando con le Stelle” che va in onda su Rai 1 il sabato sera in prima serata, ci si ritrovi ad emozionarsi mentre vanno le note e le parole di “W l’Italia” di De Gregori, brano scelto per la coreografia di Giampiero Mughini che balla con Veera Kinnunen; e così quel valzer si trasforma in un momento di tenerezza, di riflessione.

L’Italia derubata e colpita al cuore 
Viva l’Italia, l’Italia che non muore.
L’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura 
Viva l’Italia, l’Italia che non ha paura. 

E sullo sfondo le immagini di una Italia “che resiste”, con Sandro Pertini, i campioni del mondo dell’82, Luciano Pavarotti, Samantha Cristoforetti, Rita Levi Montalcini, Coppi e Bartali, Sofia Loren, Falcone e Borsellino.

Una sensazione di essersi stretti intorno a degli ideali imprescindibili, a quella forma di libertà che sentiamo oggi un po’ perdere i contorni e che temiamo possa tramutarsi in una forma di discriminazione, di razzismo, di offesa.

La stessa che all’interno della stessa puntata viene raccontata e sottolineata da un indignato Ivan Zazzaroni che – proprio prima del commento della esibizione di Mughini – esprime massima solidarietà verso la pallavolista Paola Egonu, offesa ieri da quella domanda: “ma sei italiana?”

Mi hanno chiesto anche se fossi italiana…questa è la mia ultima partita in Nazionale, sono stanca. Non puoi capire.

Queste le parole dette in lacrime a bordo campo al suo procuratore Marco Reguzzoni, alla fine della partita contro gli Usa, dopo il 3 a 0 che ha regalato alle azzurre il bronzo ai mondiali di Volley.

Poi continua:

Nei commenti mi hanno chiesto se fossi italiana. Fa male perché se indosso questa maglia vuol dire che ci credo, che mi sento italiana e sentir dubitare di questo fa tanto male, perché altrimenti non darei il mio cuore per questo, non farei sacrifici per portare in alto questa maglia. In questo momento parla la ragazza che c’è dentro di me che è ferita, tanto ferita. Non ne può più di essere giudicata ogni volta

 

Zazzaroni indignato, ha definito Paola Egonu la “Ronaldo della pallavolo” ha sottolineato quanto sia vergognoso chiedere ad una donna se sia o meno italiana, solo per il colore della sua pelle.
Bisognerebbe riflettere – a mio avviso –  su come Paola e la pallavolo femminile italiana siano un patrimonio del nostro Paese. Lei, insieme alle sue compagne di squadra, sono entrate nelle case di milioni di italiani che le hanno seguite, in tv e sui social e questa popolarità inevitabilmente le pone nella condizione di essere anche offese, da chi pensa ancora che sia il colore della pelle, a fare la differenza, quando l’unica differenza possibile è tra una fuoriclasse come Paola Egonu e tutti gli altri.

Questo è il clima, queste le sensazioni che si accalcano in molti italiani, questa la frustrazione che attanaglia nel sapere che la tutela del diritto di ognuno, può essere messa a rischio. E si ripensa alle parole della senatrice a vita Liliana Segre che durante il discorso di apertura al Senato, ha sottolineato l’importanza dell’articolo 3 della costituzione che dovrebbe essere dipinto nei muri delle scuole:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Tutti.

 

I libri hanno il privilegio di allenare le nostre aspettative, quelle deluse “lì fuori” dove meno ti aspetti e meglio è.

Questo libro a mio avviso va ben oltre le aspettative, costringendo il lettore a mollare la presa e ad emozionarsi fino in fondo. Da questo libro non si scappa, anzi, ci si vuole immergere sempre più, si vuol far parte di quella classe, di quella scuola, di quel tempo e di quelle intenzioni che sfidano tutto, ogni vicissitudine, ogni difficoltà oggettiva e ogni momento di sconforto, perché l’obiettivo è arrivare al traguardo, che per i ragazzi raccontati nel libro sarà la maturità, per il lettore la certezza che ci sono insegnanti a cui basta essere sé stessi, fino in fondo, per salvare e salvarsi. Sì, si può, lo racconta Gaja Cenciarelli nel suo libro “Domani interrogo” edito da Marsilio.

Un libro che sa di autobiografico, considerato che – al netto di qualche passaggio che probabilmente sarà stato romanzato – racconta di una storia vera, dell’anno di supplenza che la prof di letteratura inglese accetterà nella V A in un quartiere difficile di Roma, in una scuola difficile con ragazzi che non sanno ancora di “non essere difficili” (o almeno non troppo) fin quando non arriva lei, con la sua cultura smisurata e il suo modo di essere e di fare, che non ha nulla di canonico, che scende dalla rigidità del docente che spiega, interroga e terrorizza, e si mette ad insegnare non solo ai ragazzi, ma in mezzo ai ragazzi, chiamandoli per nome (e quando serve anche per soprannome), accettando tutti i loro limiti, accogliendo le loro paure, (che a tratti saranno le sue) e provando (riuscendoci), a sradicarli dalla convinzione che il loro futuro risiede lì dove non c’è scampo. La prof sarà la loro via di scampo, la loro rotta, il loro faro quando si sentiranno smarriti, e tra dubbi ed incertezze, si costruirà un rapporto destinato a durare nel tempo, al di là del destino di ognuno, dentro la consapevolezza di potersi fidare (fino in fondo) e di scegliere di stare dalla stessa parte, almeno per un po’.

Verrebbe da dire “la buona scuola esiste”, verrebbe da dire che “dovrebbero essere tutti così gli insegnanti” e forse la lettura di questo libro potrebbe essere un buono spunto per ridisegnare quella linea di confine tra sé e gli alunni, ognuno diverso dall’altro, spesso incapace di esprimere la volontà di sapere davvero quale siano le proprie attitudini.

Leggendo “Domani interrogo” si ride e si piange. Si piange fino al singhiozzo. Non si ha scampo, è un libro che ti mette nell’angolo considerato che la crudezza di una realtà che pulsa ed è difficile da domare, viene affrontata a viso aperto da colei che non ama la vocazione ma la possiede, da colei che cammina e pensa, da colei che non insegna solo letteratura inglese ma a sentirsi parte di un microcosmo fatto di desideri e di passioni, di amicizia e di volontà.

L’incontro di due mondi così diversi, tra chi insegna e chi dovrebbe imparare, la crudeltà di un quartiere che ti allontana dai sogni, la vita sregolata di giovani pieni di vita ma che quella vita a tratti la buttano via, che trovano con la loro prof un codice comunicativo che tra alti e bassi li legherà indissolubilmente, fino a divenire “famiglia”.

È un eccellente testo narrativo, con una dettagliata descrizione di luoghi, personaggi, personalità e intenti. Intrattiene, e la narrazione non è mai fine a sé stessa, suscita nel lettore una “emozione estetica”, raccontando gli eventi e i dettagli nei minimi particolari: i colori, le posture, le forme dei sorrisi e degli occhi stanchi.

L’utilizzo del dialetto o del gergo molto vicino ai ragazzi, diventa il mezzo che permette al tutto di compiersi. Avvicina, accoglie, stritola, se serve. Eppure la scelta che la scrittrice fa delle parole a corredo del racconto, non è solo efficace, è anche suggestiva, capace di “effetti collaterali”. Sono parole mai banali, a volte ricercate, che tessono uno suo personalissimo stile, capace di trascinare il lettore al centro della storia narrata.

È tutto al suo posto, in questo libro.

Lo schema narrativo che parte dall’antefatto (e dal principio) passa per peripezie e spannung fino a giungere al “superamento delle prove” proprio come accade spesso per gli eroi, fino a giungere ad un finale chiuso, che chiude praticamente il cerchio lungo un anno scolastico dove gli eroi sono gli studenti, che allungano la mano e afferrano “l’oggetto del loro desiderio” che non sapevano ancora di avere.

Sono presenti all’interno dell’opera dei flash forward, delle prolessi che aiutano il lettore a capire cosa ne sarà della storia di ognuno dei ragazzi.

Avrebbe potuto narrare la storia in prima persona, la Cenciarelli, ma ha fatto una scelta diversa; ha scelto il narratore eterodiegetico, onniscente, la “mano di Dio”, colui che narra sapendo tutto di tutti, più di quello che sanno i personaggi. Una scelta difficile ma intensa, considerato che quel narratore non concede sconti, racconta ogni risvolto dei protagonisti, analizza pensieri, parole ed opere … ed in questo caso anche le omissioni.

Un patto narrativo intenso e fortissimo quello tra la scrittrice e i suoi lettori, non solo perché la storia narrata è storia vera, ma anche perché ci si fida di chi scrive, ci si lascia guidare dentro “le parole giuste”, come quelle che la prof del libro cerca disperatamente e che puntualmente trova e che sono efficaci, a volte in romanesco, a volte affilate e che non lasciano scampo.

Ci sono delle storie d’amore difficili, complicate e travolgenti, che ci cambiano irrimediabilmente e spesso in meglio. È questo che accade in “Domani interrogo”, una storia d’amore tra i discenti e la prof, tra la scuola e la vita di ognuno, tra il passato e quel futuro nel quale ci si salva, nel quale ci si può salvare se reciprocamente non ci si lascia la mano.

 

Paolo Virzì ha la capacità artistica di trattare temi sociali, problematiche del vivere con una sorta di leggerezza tipica della commedia; ma non lo fa mai in maniera superficiale. Trova sempre la strada giusta, la sua strada, quella che finisce dritta dritta nella storia di protagonisti che con le loro vicissitudini e con una sorta di coralità, riescono a mettere l’accento su quel che spesso conosciamo ma facciamo finta di non sapere.

Un linguaggio, quello di Virzì, palpitante, che non mostra incertezze, sa sempre cosa dire e come, aiutato – in questo caso – dalla fotografia di Luca Bigazzi, capace di dare alla pellicola il colore della “Siccità” quel giallo che sa di arido, di deserto, di secca e ci si domanda come abbiano fatto a creare quelle inquietanti zone desertifiche lì dove scorre il Tevere.

Una desolazione che ricorda il cinema neorealista, non solo nella rappresentazione dei luoghi ma anche nella distanza angolare dal tema principale, per addentrarsi nella crudeltà di alcune vite, in un determinato periodo storico, ed in questo caso distante, posto più in là, surreale ma non troppo.

E così, in una ipotetica Roma in cui non piove da tre anni e dunque schiacciata dal dramma della siccità, si muovono vite che in un momento così difficile, mostrano tutti i propri limiti.

Virzì mette in scena la “siccità” di una società che vive di apparenza, di consensi, di mancanza di dialogo, di deriva, di scontentezza, di irrisolto. Tutte le storie che finiscono per far incontrare e scontrare i vari personaggi, narrano di piccoli drammi, di tradimenti, di sfiducia, di incapacità di gestire il proprio vivere con tutte le problematiche annesse, siccità compresa.

La logica dell’egoismo di chi lava la macchina o annaffia una piantina, la voglia di riscatto di coloro che hanno perso tutto sin da tempo ma che hanno ancora qualcosa in sospeso con il passato, la volontà di scappare da un vivere che è angosciante anche se agiato; tutto si muove velocemente, in maniera dinamica nel film, come le blatte che infestano la città, che ci sono ma che tutti fanno finta di non vedere, come se tutto fosse normale, come se ci si possa abituare a tutto.

Fino al punto di rottura, fino a quando una nuova malattia di natura virale incomincia a mietere vittime.
Eppure Virzì sa mettere sotto i riflettori le problematiche che sono davvero all’ordine del giorno: soluzioni che arrivano troppo tardi, le Tv a cui non interessa nulla se non l’audience, le ospitate degli esperti che finiscono nel meccanismo perverso della notorietà. Tutto mentre fuori si prova a continuare a vivere e a sopravvivere.

E poi la distanza tra il mondo dei ricchi e gli altri. Non c’è problema che possa coinvolgere chi ha, chi sa dell’esistenza di un problema ma lo vive di striscio, perché i soldi possono tutto, possono tracciare una linea di confine che lascia fuori ogni problematica, anche la siccità.

Non in ultimo nel film si racconta la conseguenza delle azioni umane, quelle consumate come se non avessero mai conseguenze ma che un giorno ti si parano dinanzi chiedendoti il conto, o meglio destinandolo alle generazioni successive, senza tralasciare il significato di “fare a meno”, di razionare, di “non sprecare”.

Tutto questo raccontato senza retorica, senza prosopopea, con un impianto narrativo che scivola dentro la coscienza di tutti.

Gli attori scelti da Virzì sono una garanzia di riuscita; Silvio Orlando che fa un detenuto che per sbaglio esce dal carcere, sembra essere finito in un’altra epoca, e sfrutta quella situazione fortuita per ricongiungersi ad un passato lontano e doloroso; Valerio Mastandrea, ex autista di Palazzo Chigi che si reinventa come simil tassista, separato dalla moglie, con una talentuosa figlia adolescente che fa i conti con gli stenti e il fallimento, Claudia Pandolfi nei panni di un medico, in una nuova relazione, ma che sa e che tace circa il tradimento del suo nuovo compagno (Vinicio Marconi), con una sua ex compagna di liceo, (Elena Lietti), che a sua volta vive con un ex attore, (Tommaso Ragno), intrappolato nella logica del dover mantenere alta la sua popolarità sui social tanto da dimenticare di avere un figlio troppo giovane per essere così insoddisfatto, che tenta ogni giorno di rovinarsi la vita; e poi ancora la storia di un giovane scarto della società che trova un lavoro come bodyguard presso una famiglia prestigiosa ma che alla fine non reggerà il peso degli eventi, e un ex commerciante che ha perso tutto (Max Tortora) che vuole raccontare in tv le sue disavventure. Nel film c’è anche Monica Bellucci che fa un piccolo cameo.

Incapacità di comunicare, una “siccità” di comprensioni, dentro una valanga di fragilità.

Ma anche i giovani attori, nel film, fanno egregiamente il loro compito; sono credibili e sanno essere anche il file rouge che unisce le storie.

La vita di tutti loro in qualche modo si intreccia con quella degli altri, mentre regna il caos, il dramma a tratti vestito a festa, e su tutto la consapevolezza che da alcune situazioni – siccità compresa – non si scappa.

Bravo Virzì a “non risolvere” le storie. Il finale aperto su tutti i personaggi, proprio quando la siccità cessa, lascia allo spettatore la libertà di scegliere il finale più giusto, soprattutto per il personaggio con il quale si è empatizzato di più.

Un film che parla di umanità, di una umanità che è assetata, continuamente alle prese con problematiche e dinamiche spesso spiacevoli.

Non si fa fatica a riconoscere il riferimento biblico che Virzì inserisce nella pellicola, mentre Silvio Orlando vaga per la città “deserta” alla ricerca di una persona a lui cara, e si imbatte in un uomo che tira un asino con sopra una donna incinta; un Giuseppe con Maria, post apocalittici, e al contempo un salto all’indietro all’anno zero.

Virzì sceglie la siccità, come dramma di sfondo, ma lo spaccato raccontato potrebbe riguardare qualunque situazione estrema, come la pandemia, una profonda crisi economica, una guerra inattesa. Ecco perché è tutto così vicino allo spettatore.

Nel caos del dover sopravvivere, nel dramma del dover sopravvivere alla crisi della società e a quella interiore, Virzì regala però la speranza che alla fine, in qualche modo, ogni essere umano così imperfetto e così pieno di fragilità, alla fine può salvarsi e a volte basta la scelta giusta

 

L’aveva immaginata bene la festa per i suoi 30 anni di carriera, Joe Barbieri, il cantautore partenopeo capace di raccontare la vita e l’amore in maniera sofisticata e con quel suo inconfondibile modo di “cantare piano”. Quello che non si aspettava però era sicuramente la torta a fine concerto, davanti a quasi mille persone giunte da tutta Italia per stare con lui in una data così significativa.

E così sabato 7 ottobre (data significativa per la sua carriera) Joe Barbieri festeggia 3 decenni di musica e parole, nella sua Napoli, al Teatro Acacia al completo e lo fa anche invitando non solo i suoi fan, ma anche suoi amici, coloro che sono stati importanti e fondamentali nella sua carriera, costellandola di collaborazioni. Musicisti e cantanti di grande levatura che hanno abbellito e reso indimenticabile la serata.

Sul palco, insieme al festeggiato, Serena Brancale, Mario Venuti, Nino Buonocore, Tosca e Peppe Servillo. Ognuno di loro con il proprio innegabile talento, ha raccontato la propria musica e quella di Joe Barbieri. Ognuno di loro ha rappresentato in maniera appassionata il proprio ruolo nella vita e nella carriera del cantautore, che in un concerto di più di due ore, ha ripercorso quel tempo in musica, iniziato proprio quel 7 ottobre 1992 dal Palco del Festival di voci nuove di Castrocaro, quando ebbe inizio un viaggio pieno di emozioni ed di entusiasmo che l’ha condotto sino a qui.

Durante il concerto, Joe Barbieri ha regalato le canzoni del suo repertorio, colto, delicato, pieno di amore raccontato con raffinatezza e poi l’allegria, tutti dettagli meravigliosi che i suoi fan hanno amato nel tempo e nei quali si sono riconosciuti perché parte della vita di ognuno, di quella vita che ha bisogno sempre di una colonna sonora.

Ad accompagnare Joe Barbieri sul palco, che ha cantato imbracciando la sua chitarra, un trio di professionisti sopraffini del mondo jazzistico italiano. Con lui al piano Pietro Lussu,  Daniele Sorrentino al contrabbasso e Bruno Marcozzi alla batteria. Professionisti dotati non solo di talento indiscusso ma anche di quella capacità di rendere tutto vibrante e coinvolgente e i loro sofisticati assoli durante l’esecuzione dei brani di Joe Barbieri hanno reso tutto magico. L’anima jazz che si lega alla canzone d’autore, crea una dimensione accattivante ricca di dettagli sonori e improvvisativi.

Joe Barbieri è partito da pezzi scritti quando ancora ragazzino sui banchi di scuola immaginava una vita dedicata alla musica, ripercorrendo poi i suoi brani più famosi, alternandoli a quelli meno sentiti, che meritavano un posto d’onore in quella serata così significativa.

Dal 7 ottobre è anche disponibile il nuovo disco antologico dal vivo, “tratto da una storia vera” proprio per festeggiare i suoi trent’anni di carriera. Fil rouge di questo lavoro, le radici nel vissuto del cantautore, le storie incontrate, alla ricerca di un continuo “sentire”.

 

 

A Santa Margherita Belice pioggia torrenziale e una violenta tromba d’aria ha ribaltato un pullman che percorreva la Statale 624 Fondovalle e si è ribaltato nel tratto Sambuca di Sicilia e Contessa Entellina.

I passeggeri del bus sono fortunatamente illesi; alcuni hanno riportato qualche confusone.

I pompieri intervenuti hanno sollevato il mezzo con una autogru. Sul posto anche il personale medico del 118, e gli addetti dell’anas