Simona Stammelluti, Autore presso Sicilia 24h - Pagina 35 di 94
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Dobbiamo ringraziare la Lucky Red che ha deciso di distribuire un film fino ad ora inedito, datato 2009, nelle sale in questi giorni, candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero e premiato al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard.

Il film (imperdibile) è Dogtooth di quel genio di Yorgos Lanthimos.

Non avevo così paura al cinema dai tempi di L’esorcista, o Shining; insomma … una vita fa.

Dogtooth è un film che fa paura, che inquieta, che ti divora, a tratti ti imbarazza, e per tutta la durata ti trascina dentro la storia e poi ti fa riflettere.

Ci sono momenti in cui “non vuoi vedere” e invece malgrado non vorresti, guardi … impaurito da quel che scorre sul grande schermo, ma guardi.

Si apre poco alla volta, fino a divenire una voragine e lì dentro ci finisci, mentre diventi parte di una famiglia che non solo non ha nulla di normale, ma neanche di morale, e che rappresenta l’emblema di una vera e propria dittatura.

Il regista gioca con il comportamento umano, realizza un vero e proprio esperimento sociologico, mentre racconta magistralmente non solo la storia di una prigionia ma soprattutto di una forma subdola  di soggiogamento che lascia senza parole, che crea ansia e svilisce.

Un film senza colonna sonora.

Non serve, sarebbe controproducente. Lo spettatore non deve avere distrazioni, non deve essere condotto da nessun’altra parte se non dentro quella casa, dove ci si inventa un ruolo e si vincono adesivi come premio se si è i più bravi. Ma a fare cosa?

Geniale l’idea del film che reca come titolo “canino” inteso come quel dente che non cade mai, e che semmai per un motivo fortuito dovesse cadere, non ricrescerà.

Ma i 3 ragazzi personaggi del film – senza nome e dunque privi di identità – questo non lo sanno, e vivono tutta la loro esistenza dentro una casa senza mai uscire, imparando solo come interagire tra di loro in quella che per loro -e solo per loro -rappresenta una “normalità”, e senza mai conoscere il significato reale delle parole che costituirebbero una via di fuga e un contatto con il mondo esterno, che non hanno mai visto.

Un equilibrio assurdo e surreale dentro una costrizione emotiva oltre che fisica, che si incrina con l’arrivo in casa di una donna pagata dal padre padrone per soddisfare i bisogni sessuali del figlio maschio.

Il regista sceglie in molte scene di tagliare fuori le teste dei personaggi dalle inquadrature, sottolineando come la mente pensante, il giudizio critico e la coscienza di ciò che si rappresenta nel mondo, non ha fattezze, in quella condizione di vita.

La fotografia è perfetta per l’epoca in cui si svolgono i fatti anche se a tratti sembra quasi assumere i colori del cinema 8 mm.

Un film che scava nel tema sociale della inferiorità della donna rispetto all’uomo, e poi ancora l’incesto, la follia di chi inventa un nemico (innocuo) affinché nessuno si ribelli all’ordine costituito agli ordini imposti … cose da regime, insomma.

È tutto sempre in luce, ma c’è buio dappertutto.

Nel film ci sono innumerevoli riferimenti ad altre pellicole e i cinefili non faranno fatica a identificarli.

C’è un tentativo di riscatto, così come dovrebbe avvenire in ogni società che una volta annientata rialza la testa e si incammina. Ma a volte per salvarti devi conoscere che forma ha la libertà.

Una provocazione molto ben risuscita, in bilico tra una realtà alterata e fuori dal tempo e quella metafora che rende tutto credibile.

Simona Stammelluti

C’è una parte di noi che è in agonia.
E’ la parte che ha smarrito ogni forma di tolleranza.
Siamo divenuti intolleranti verso tutto ciò che non si uniforma al pensiero comune, a quella pseudo normalità che ha sembianze sempre più misere, grette, prive di pathos e carità.

Sembra come se per essere al sicuro in questo mondo così ostile si debba essere bianco, maschio ed etero e in nome di questa assurda formula c’è chi è capace di compiere reati efferati e violenze inaudite.
La parola omolesbobitransfobia è tanto difficile da pronunciare quanto da accettare, almeno per me.
E’ una parola che reca in se l’odio profondo verso ciò che in realtà è frutto di scelte di vita che non nuocciono a nessuno, se non al perbenisimo vile che fa sentire i prepotenti e gli odiatori seriali in diritto di “dare lezioni”, “spaventare”, “annientare”, “togliere di mezzo”, “fare pulizia”, comandando la vita e le scelte altrui, pena la morte.

Le parole pronunciate da trentenne napoletano che ha ucciso sua sorella perché legata ad un uomo trangender sono agghiaccianti e imperdonabili: “mia sorella era stata infettata“.
Da cosa? Chi stabilisce cosa sia una “relazione normale”?
A parte il fatto che nella propria stanza da letto ognuno fa quello che più desidera, la normalità presumibilmente si contempla all’interno di un rapporto psicologicamente e sentimentalmente equilibrato. Nel mondo etero sono innumerevoli i casi di rapporti psicologicamente e sentimentalmente inadeguati che finiscono in tragedia. E in quei reati, in quelle condizioni non vi è nulla di “normale”.
Chi infetta chi?
L’odio infetta.
L’amore no.
E l’amore inteso come sentimento non ha sesso, non ha codici genetici.
E’ necessaria una legge contro l’omolesbobitransfobia ma è anche un problema culturale perché la discriminazioni, gli atti di odio e di intolleranza si nutrono di parole non dette, di domande che restano senza risposta, di inciviltà radicata.
Urge una rieducazione ai sentimenti, al rispetto dell’altro e all’accettazione dei limiti in una società che crea mostri che si nutrono di prepotenza, apparenza, rabbia.
Sbagliamo a chiedere ai nostri ragazzi: “hai la fidanzata? Hai il ragazzo?
Dovremmo chiedere loro se “amano qualcuno”. 
Perché le parole sono importanti, hanno un peso, possono erigere, distruggere, innescare reazioni a catena, istigare. E al contrario se usate con lucidità e coerenza, possono consolare, rendere consapevoli, portare a compimento una condotta che talvolta smarrisce la via maestra, ossia quella dell’amore.
Non riesco a credere che non ci sia un “effetto famiglia” su quello che accade.
L’odio non nasce mai dal nulla, ha prodromi che nessuno a volte vuole vedere.
Nasce dal silenzio, da un mancato amore, da una disattenzione nei rapporti, da una incapacità di guardare e valutare. Che torni l’educazione civica, che si riprendano in mano le regole e le si facciano rispettare, che non si transiga su alcuni atteggiamenti che solo apparentemente possono sembrare innocui.
Quando accadono fatti di cronaca come quelli di questi giorni, esiste una responsabilità collettiva che va considerata, riconosciuta e analizzata. Il rispetto della libertà altrui, delle scelte altrui deve tornare in cima alle priorità di una società che è in agonia e nessuno sembra più intenzionato ad rianimarla.

L’arcobaleno che tanto si usa per “fingersi” schierati verso la libertà, per la difesa delle minoranze dovrebbe splendere in giorni qualunque, mentre teniamo stretto a noi la convinzione che quella tanto difesa famiglia tradizionale, partorisce sempre più spesso una schiera di uomini e donne che disconoscono l’essenza del vivere.

Simona Stammelluti 

 

 

E’ uno stimato avvocato agrigentino, si chiama Valeria Romano ed ha deciso di scendere in campo alle prossime elezioni amministrative nella qualità di consigliere comunale. Si candida con la lista “Uniti per la città” che appoggia il candidato sindaco Franco Miccichè. L’abbiamo incontrata per conoscerla più da vicino.

Perché decidi di scendere in campo?

“Perché non ho nessuna intenzione di guardare passivamente il mio futuro e il futuro dei miei figli, nelle mani di politici incapaci. Sento il bisogno di dare alla mia Città le mie competenze, le mie capacità, le mie idee”.

Sei un avvocato e comprendi che la politica potrebbe rubare molto tempo alla tua attività principale.

“A mio avviso ritengo che non rubo tempo alla mia professione poiché se una persona si dedica alla comunità con dedizione alla fine si è anche appagati nel dare un contributo per una città più vivibile da dare ai nostri giovani”.

Come trovi la città di Agrigento?

“Degradata. Negli ultimi anni la città è diventata sempre più sporca, marciapiedi impraticabili, scalinate diventate “foreste”, mezzi pubblici di trasporto insufficienti. Spazi verdi in condizioni pietose per la mancanza di manutenzione e vigilanza, incuria ed abbandono totale. Scarsa l’offerta culturale e ricreativa rivolta ai bambini o adolescenti”.

Di cosa necessita Agrigento rispetto a tutto ciò che non è stato fatto.

“Di piccole modifiche del vivere quotidiano che portino ad una grande rivoluzione culturale. È necessario che venga data una offerta culturale e formativa rivolta ai più giovani; aiuti alle famiglie meno abbienti; rafforzo dei servizi domiciliari per gli anziani e i malati gravissimi; sviluppo occupazionale giovanile; riqualificazione degli spazi pubblici-sistemazione delle vie cittadine- decoro urbano; lavori pubblici essenziali”.

Il turismo, volano della nostra economia; soluzioni per il rilancio.

“Bisogna far emergere l’immensa potenzialità insita nella nostra Città. Cultura, tradizioni, patrimonio artistico, enogastronomia del territorio agrigentino e delle città limitrofe per creare turismo concreto lungo tutto l’asse della Valle dei Templi. Valorizzazione delle coste e delle località balneari, le quali dovranno essere accessibili anche alle persone diversamente abili; predisposizione di bus navette per collegare il centro storico con la zona balneare; riqualificazione del lungomare”.

Il mondo della scuola nella nostra città.

“Come mamma di due bambine che frequentano la scuola dell’infanzia ho potuto constatare che le scuole agrigentine hanno bisogno urgentemente di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria.

Indispensabili, per la rinascita culturale e civica della nostra città, i servizi educativi ed integrativi offerti delle istituzioni scolastiche, oggi, purtroppo, scarsi e carenti; poche le scuole con luoghi o spazi che presentino le caratteristiche educative, ludiche, culturali e di aggregazione. Inesistenti nel nostro territorio i centri gioco, già previsti in passato, ma mai realizzati. Maggior controllo della qualità del servizio mensa”.

Grazie, in bocca al lupo!!!

 

 

 

 

 

 

Un concerto amabile, sofisticato, appagante; è sembrato quasi finire troppo presto. Mario Venuti conserva negli anni quel fascino e quel carisma che si coniuga perfettamente con quel suo riconoscibile modo di cantare e quel suo fare musica che, nella sera del 10 settembre scorso, non ha avuto bisogno di nulla se non di un pubblico attento, una chitarra, un pianoforte e un cielo pieno di stelle.
Un concerto in acustica, che inizia chitarra e voce, che profuma di bossanova, che ti contagia di entusiasmo e bellezza, come quella che attraversa da sempre i testi delle sue canzoni; testi ricercati e capaci di coniugare amore e attualità, e con i quali si potrebbe riempire un libro di poesie.
Elegante, raffinato, musicalmente colto, incastona il concerto dentro un pizzico di malinconia che rende tutto perfetto.
Un excursus senza fronzoli, dentro una carriera che gli ha concesso di scrivere pezzi indimenticabili, e che giovedì sera ha suonato con l’arte della delicatezza, alla chitarra e poi al piano, mentre l’atmosfera riusciva a coniugarsi con le emozioni di ognuno e i ricordi che facevano capolino ricordandoci che la vita scorre, mentre alcune cose come la bravura ed il talento sanno essere immuni al tempo che passa.
Il cantautore siciliano con generosità ha anche parlato al pubblico di Cetraro Marina, ha racconto piccoli aneddoti e quell’esigenza di sentimenti in un mondo che smarrisce tutto, a volte anche il cuore.
Le sue canzoni sono favole, ma a volte sanno essere anche viaggi verso posti lontani. Canzoni colme di sonorità sudamericane, di echi del mediterraneo, e poi di pathos che ti trascina dove lui vuole, ossia dentro le sue canzoni delle quali si finisce per sentirsi protagonisti.
Da Niña Morena a Caduto dalle Stelle, attraversando Veramente, Ciao Cuore. E poi ancora Un altro posto nel mondo, Tutto questo mare, e il racconto di Crudele a Sanremo.
Ad impreziosire il concerto di Mario Venuti alcuni elementi dell’Orchestra Filarmonica di Calabria che hanno accompagnato il cantautore nell’ultimo pezzo di viaggio.
Il finale proprio lì, dove tutto è iniziato, con quel pezzo che segnò la sua carriera di solita; Fortuna, il suo lasciapassare per un futuro tutto da scrivere e da regalare mentre si innamorava del domani, quel domani che finisce dritto dritto nel suo sorriso e nel suo modo di essere a discapito di qualunque apparire.
Dopo il concerto ho scambiato una chiacchierata con il cantautore. Trovate tutto questo nel servizio.

È bello scoprire che alcune cose sono come te le aspetti, che non deludono e che, al contrario, ti lasciano la consapevolezza che l’arte resta l’unica bellezza che ci salverà.

Simona Stammelluti 

 

La situazione è grave, gravissima.
Ignorarla è follia.
Va considerata e affrontata per quella che è, perché facendo finta che questi non esistano, provando ad ignorarli, si finisce per far passare il messaggio che “ad un metro dal mio culo, ognuno può fare tutto quel che vuole” (anche avere questo genere di voce in capitolo).

Sono il “popolo” contro la dittatura sanitaria e gridano al complotto, non hanno alcuna fonte certa, negano la realtà e difendono la libertà di opinione. Io sinceramente bestemmio ascoltandoli, pensando che il suffragio universale abbia fatto un bel po’ di danni.
Tornano in piazza, a Roma, assembrati e mostrano cartelli contro il distanziamento e le mascherine.
Di questo popolo che protesta fanno parte “le mamme per la libertà”: “speriamo che i bambini stiano a casa (lei dice “stanno a casa”, capite che è troppo chiedere che conoscano un congiuntivo) perché  se devono andare con le mascherine tutti bardati così come voi beh …” – dice alla intervistatrice di La7.
C’è sotto qualcosa di più grosso” – chiosa un’altra di quelle.
Ci vogliono lobotizzare” (anziché eventualmente “lobotomizzare”) – la più scienziata di tutte.
Non ce la si può fare. 
E non ce la si può fare perché ci sono anche i nonni: “Lo faccio per i miei nipoti. Non sono contro i vaccini (ahahahah) ma bisogna liberamente sceglie“, gli audaci: “Sono immunodepressa e non ho mai avuto paura“, i rivoluzionari e i credenti.
Ma l’apoteosi delle idiozie si sono sentiti da quelli di Forza Nuova, anche loro in piazza che si offendono pure ad essere chiamati fascisti.
Roberto Fiore di Forza Nuova dichiara: “siamo vicini agli italiani che sanno benissimo (chi noi? Italiano a chi, oh?!) che bisogna manifestare uscire e lottare per salvare l’Italia da questo momento che è gravissimo” (eh … ne avremmo da dire, vero?)
Allora l’intervistatrice prova ancora, con un’altro soggettone: “non è che c’è un po’ di populismo in questa manifestazione?” (un cicinino proprio!) E lui: “no no no, ne riparleremo nel prossimo lock down (ma quando?) quando due milioni di italiani verranno licenziati (ma dove?) quando le casse integrazioni non verranno più date (ma perché?!) quando i negozi chiuderanno definitivamente (ma chi?)”

Guai a chi li chiama negazionisti. 
Guai! Capito?
Perché c’è la signora che ci fa lezione di chimica e biologia e ci dice di aver letto su Facebook che tenendo su le mascherine “noi mettiamo dentro il nostro corpo candida polmonare” – medici di tutto il mondo unitevi e stracciate le vostre lauree, che c’è lei che vi darà 4 dritte.
Ed ancora quella che ha sentito gli scienziati! Fa due nomi in croce e uno di quelli – udite udite – è lì, sul palco della manifestazione, ed è un medico legale che risponde al nome di Bacco: “Nel vaccino c’è acqua di fogna” (lo dice, vi assicuro che lo dice, al popolo presente).
Poi a tu per tu con l’intervistatrice rincara la dose: “Il virus non è capace di uccidere nessuno (36 mila morti) è stata una strage di stato, al governo ci sono degli assassini (che si preparino le manette) ci dobbiamo infettare, ci infettiamo e ci immunizziamo“.
La situazione è grave perché questo popolo (mandria)  è guidato da soggetti che sono antiscienza, negano contro ogni evidenza, e contagiano gli indecisi. 
Ecco perché non possiamo tacere, ecco perché dobbiamo parlare, mostrare tutti i loro limiti, spiegare a chi è allo sbando ideologico che negare davanti alla realtà è un crimine, è istigazione al danno collettivo.

Quando sostengo che una delle piaghe di questo periodo storico sia proprio la completa assenza di giudizio critico non sbaglio. Dobbiamo assolutamente lavorare sui giovani, nei piccoli gruppi,  dissentire ogni qualvolta ascoltiamo baggianate, insinuando sempre il dubbio circa il sentito dire, coltivando la logica dello studio, del dato certo, della ricerca delle fonti, alla base anche del delicatissimo lavoro del giornalista.

 

Simona Stammelluti 

Quell’11 settembre del 2001, la parola terrorismo era già nota al mondo occidentale.
Il terrorismo cosiddetto “interno” era già stato considerato una piaga virulenta da combattere. Il terrorismo basco, le brigate rosse, o gli attentati all’occidente, “fuori” dall’occidente. Si pensi agli attacchi alle ambasciate di paesi occidentali. Eppure fino a quell’undici settembre di 19 anni fa, quel tipo di attacco terroristico, aveva una incidenza minima sugli equilibri e sugli scenari mondiali.

E mentre i nuovi libri di storia, hanno incominciato a menzionare quella data indimenticabile come il giorno in cui le sorti del mondo occidentale, sono cambiate irrimediabilmente, l’attacco all’occidente “in occidente” da parte del terrorismo islamico, ha aperto una lotta mondiale al combattente islamico che con se porta la strage, una lotta mondiale al sistema terroristico che da quell’11 settembre in poi, l’Occidente lo tiene in pugno, sveglio, vigile, insonne e sempre all’erta.

Quell’occidente che perde la sua “invincibilità“, che non solo non è poi così forte, ma diventa immediatamente vulnerabili, costretto a guardarti le spalle da un Allah nel nome del quale c’è chi si fa saltare all’aria per raggiungere un paradiso inesistente. Il mondo che cambia. Un mondo non più al sicuro. Un mondo viene minato nel suo quotidiano, nel suo essere comunità, nella sua capacità di “continuare”, malgrado tutto, di creare una sorta di “punto zero” dopo ogni paura, dopo ogni orrore, dopo ogni “terrore” che colpisce sempre il simbolo di una nazione, di una comunità, di uno stile di vita. Tutto il mondo occidentale si schiera per la lotta al terrorismo.

Ma in che termini? Pace o guerra?

Un 11 settembre in cui si ricordano le oltre 2947 vittime, i 411 soccorritori morti, quella scena apocalittica nella quale le torri gemelle vengono giù come se fossero di sabbia, un mondo che cambia e che ancora si chiede, come in una roulette russa, a chi toccherà.

Per me l’immagini più nitida dell’undici settembre del 2001 resta quella che ritrae l‘azzeramento di tutti i ceti sociali, razziali e di genere; ricco o povero, nero o giallo, povero o uomo d’affari…solo “sagome” di persone che sotto quella coltre di polvere grigia, rimasero sopravvissuti, in una New York che di megalopoli occidentale non ne aveva più né i connotati né i colori, e poteva essere scambiata per una qualsiasi città del medioriente.

E così nell’era dell’informazione globale ed “immediata” ci siamo resi conto che qualsiasi punto della terra è come se fosse il “dietro l’angolo“, New York come Bagdad, il Bataclan di una Parigi come Nairobi.

Sono passati 19 anni.
Cosa è rimasto di quella tragedia?
Abbiamo maturato una “coscienza” sul perché sono venute giù le torri gemelle, e perché ancora continueremo ad avere paura?
Basterebbe che ciò che è accaduto non ci torni alla memoria solo quando viviamo il fastidio di non poter portare in aereo il nostro shampoo preferito, perché superiore ai 100 ml.

Simona stammelluti 

Rinascere dalla bellezza dei luoghi, siano essi palazzi, chiese o affreschi ritrovati, villaggi fantasma o ville eleganti. Ma mai come quest’anno è necessario ripartire, in piena sicurezza. Il Festival che “racconta” l’Isola ritorna da sabato prossimo (12 settembre) per la seconda volta nei due borghi di Sambuca e Naro che l’anno scorso insieme avevano ottenuto un bellissimo successo inatteso di quasi seimila visitatori. Si visiteranno con un unico coupon, utilizzabile in tutti i siti. Partirà prima Sambuca, al fianco delle tre città del Trapanese – Marsala, Mazara e naturalmente Trapani –, poi Messina, Caltanissetta e Bagheria; tre weekend e nell’ultimo, il 26 e 27 settembre, si aggiungerà anche Naro. Dal 3 ottobre, la seconda tranche: toccherà a CataniaRagusaScicli e NotoSciacca, Monreale e l’ammiraglia, Palermo, dove il Festival durerà sei weekend, fino all’8 novembre. Trecento luoghi in tutto,  alcuni inediti, altri graditi ritorni, dove si entrerà sabato e domenica, preferibilmente su prenotazione e con numeri contingentati, nel pieno rispetto delle norme anticovid.

Le Vie dei Tesori, nato nel 2006 in seno all’Università palermitana, oggi coinvolge 15 città in tutta la Sicilia con oltre duecento partner pubblici e privati: Regione, Atenei, Comuni, Diocesi, gestori privati, istituzioni dello Stato, proprietari di palazzi nobiliari. Da Roma è appena arrivata, per il quinto anno consecutivo, la medaglia di rappresentanza del presidente della Repubblica. La scorsa edizione, cui hanno lavorato circa 600 giovani, ha contato in tutto 404 mila visite, con un indice di gradimento del 91 per cento. E ha prodotto cinque milioni e mezzo di indotto turistico sulla Sicilia, con una ricaduta sulla sola Messina, di 165.403 euro (dati Otie, Osservatorio sul turismo delle Isole europee).

Nell’anno in cui l’emergenza ha portato a riscoprire un turismo slow, spesso sostenibile, attento ai luoghi, Le Vie dei Tesori si è trovata già un passo avanti. Perché sia Sambuca che Naro sono due borghi-gioiello: la prima con la luce morbida che accarezza le cave di tufo, le case recuperate con un’intelligente operazione di marketing, l’attenzione per i suoi personaggi illustri, Navarro o Gianbecchina, ma anche l’area archeologica punica che sembra proteggerla dall’alto. Il festival, che quest’anno è sostenuto da Unicredit, a Sambuca ha il supporto del Comune. “Le Vie dei Tesori ci permettono di riscoprirci – spiegano il sindaco Leonardo Ciaccio e il vicesindaco, e assessore alla Cultura, Giuseppe Cacioppo – ci riappropriamo del nostro territorio. E soprattutto i sambucesi ritroveranno la chiesa della Concezione, chiusa da due anni per i restauri; o potranno salire a Monte Adranone dove già questa estate abbiamo organizzato spettacoli molto seguiti”.

E poi c’è Naro, arroccata, che nasconde un barocco sontuoso, anche se profondamente diverso da quello del Val di Noto. Anche qui il festival è alla sua seconda esperienza ed è sostenuto dal Comune. “Sono orgogliosa di riavere nella mia città questo importante appuntamento turistico culturale che valorizza nella sua pienezza tutte le bellezze di Naro Fulgentissima” sottolinea il sindaco Maria Grazia Brandara.

I LUOGHI DI SAMBUCA. FOTO MONUMENTI SAMBUCA

Dodici luoghi, da scoprire o da riscoprire. Con un collegamento netto tra il cuore antico di Zabut e le sue immediate vicinanze, sulle tracce di personaggi illustri che qui hanno scelto di vivere. A partire dal “pittore degli umili” Gianbecchina di cui si visiteranno sia la pinacoteca cittadina, nata dal lascito alla città, che (novità di quest’anno) la casa-studio sulla collina di Adragna. E ancora, si cercheranno le passioni dello scrittore (ignorato alla massa), amico di Verga e Capuana: a Emanuele Navarro della Miraglia è dedicata un’importante biblioteca allestita dalla Banca Sicana. Sarà una vera scoperta curiosa anche la “macchina” ottocentesca nascosta nella Torre dell’Orologio, che si raggiungerà con un ripida scaletta a chiocciola

Riaprirà le porte, dopo un lungo restauro durato due anni, la Chiesa della Concezione con il suo bellissimo portale arabo normanno, monumento nazionale, che proviene dall’ormai distrutta chiesa di San Nicolò di Adragna. E un portale simile lo mostra anche la Chiesa di San Giuseppe che invece risale al Seicento e nasconde straordinari affreschi di scuola palermitana e del sambucese fra’ Felice.

Sono dei graditi ritorni, invece – oltre alle antiche Purrere, le cave di pietra che corrono sotto il borgo – la casa natale del primo sindaco di Sambuca post Liberazione, Tommaso Amodeo, un intero complesso fatto di ambienti diversi, ex vicoli, slarghi, terrazze, scale e salottini, con un inaspettato giardino mediterraneo; la chiesa di Santa Caterina che faceva parte del monastero e è un vero tripudio: furono queste monache a creare le famose “Minni di vergini”; la seicentesca chiesa del Purgatorio dove da poco più di un anno è aperto il MuDiA, il Museo Diocesano; il rinascimentale Palazzo Panitteri con la bella collezione di reperti dagli scavi a Monte Adranone (che si raggiungerà durante la passeggiata); la collezione di sculture tessili della francese Sylvie Clavel; e infine, il Teatro l’Idea, creato da cinque imprenditori a metà ‘800, piccolino ma con una stagione seguitissima.

LE PASSEGGIATE. Verranno organizzate due passeggiate, condotte da Antonella Di Giovanna. La prima, che l’anno scorso ha avuto un grande successo, condurrà tra i vicoli saraceni, nel cuore antico di Zabut. Ma è l’altra ad essere molto attesa: si salirà fino all’area archeologica di Monte Adranone, a mille metri d’altezza, sulle tracce della comunità che già nel IV secolo a.C. viveva questa città-fortezza.  Info e prenotazioni su www.leviedeitesori.it

Nell’ambito della maxi inchiesta “Sorella Sanità” che sta facendo luce su intrecci tra il mondo politico e quello sanitario in Sicilia, rischia di finire agli arresti domiciliari il docente 46enne Vincenzo Li Calzi, di Canicattì.

I giudici del Tribunale del Riesame, ha accolto solo in parte il ricorso avanzato dalla Procura di Palermo, e nell’ordinanza depositata hanno tenuto in piedi il reato di corruzione, per il quale la richiesta di arresto.

L’indagine avrebbe accertato un vasto giro di tangenti nell’ambito degli appalti per le forniture a ospedali e aziende sanitarie provinciali e Li Calzi è considerato il braccio destro di Salvatore Mangarano, aspirante collaboratore di giustizia e stretto collaboratore del manager dell’Asp di Trapani, Fabio Damiani.

La misura cautelare però resta sospesa perché il legale di Vincenzo Li Calzi,  Angela Porcello, ha annunciato che ricorrerà in Cassazione.

 

 

Come sempre ho bisogno di metabolizzare, ho bisogno di capire (per quanto possibile) e di riflettere. Poco altro si può fare quando la cronaca ci restituisce una realtà che non si può ignorare … non più. Siamo ad un punto di non ritorno, la violenza ha la forza di un potere subdolo e ignobile. La bellezza della vita viene sotterrata, infranta, umiliata, annientata. C’è un dolore che si fa eco e una mostruosità che si insinua sempre più nei nostri giorni, nelle vite di tutti, rendendoci un po’ colpevoli e forse anche complici.
A che serve un processo, per 4 mostri che uccidono un loro coetaneo?
Una crudeltà così efferata, una colpevolezza così esplicita, che non si coniuga con il principio di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Chissà se un ergastolo potrebbe redimerli, ma io alla redenzione faccio fatica ormai a credere. Perché quei giovani così violenti, che si sono sentiti padroni del mondo e della vita altrui, che hanno massacrato di botte un giovane con tante speranza, un sogno nel cassetto e tutta una vita davanti, sono figli di famiglie che non hanno saputo insegnare loro il rispetto per la vita altrui e delle regole, non hanno insegnato loro l’educazione al vivere, non hanno saputo iniettare nelle loro coscienze la differenza tra bene e male, la forma di quell’essere parte di una società nella quale le differenze possono migliorarci, non scavare distanza che poi annientano, rendendo tutto così assurdo.
Concorso in omicidio preterintenzionale.
Calci, pugni senza sosta fino alla morte.
Non c’entra la passione per le arti marziali (che invece insegnano il senso di disciplina, il rispetto delle regole, l’autocontrollo, l’onore e lo spirito di sacrificio) né i tatuaggi, né il look. Non c’entra l’eventuale emulazione di violenza che da sempre nel cinema viene raccontata come parte di un mondo che si divide tra buoni e cattivi.
C’entra la mancanza di cultura, c’entra quella sottocultura che innesca questo genere di tragedia, c’entra una vita senza regole, il culto della violenza, i precedenti di questi ragazzi avvezzi alla rissa facile, su cui grava ad oggi un’accusa così tremenda.

In fondo che ha fatto, ha solo ucciso un extracomunitario“. Sono le parole dei familiari di uno dei presunti assassini. I genitori di Willy Monteiro, capoverdiani sono perfettamente integrati, e non “estranei” a quella comunità.
Se esiste un aggravante razziale saranno gli inquirenti a stabilirlo, ma se si cresce in un ambiente familiare in cui un ragazzo nero viene considerato “solo un extracomunitario” allora non c’è più speranza per una società che diventa sempre più insensibile al dolore.
Saranno testimoni e immagini di telecamere a dire come siano andate le cose, ma c’è una condizione sociologica che deficita, un grado di civiltà che si è assottigliato fino a spezzarsi, una disattenzione generale verso la crescita di una nuova generazione che non ha maturato l’importanza del limite che è alla base della differenza tra il lecito e il reato.
20 minuti per uccidere, per togliere la vita.
Un tempo sospeso che annienta e cambia i connotati della vita di molte persone.
Una realtà che ormai oltre ad una morte a tempo, ha sdoganato tutto, dalla violenza verbale al razzismo, dal delirio di onnipotenza all’atto di follia. Torniamo ad educare, al rispetto delle regole, all’onore, all’autocontrollo, allo spirito di sacrificio.
Per ora ci resta la speranza che chi ha commesso il crimine venga assicurato alla giustizia, venga punito in base al crimine commesso e che possa arrivare assieme alla giustizia terrena, anche una redenzione, affinché il male si esaurisca, piano e inesorabilmente, dentro le coscienze e oltre le sbarre di una prigione.

Simona Stammelluti