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Sembra essere fuori pericolo Alex Zanardi.
Non è in pericolo di vita.
Così recita il bollettino clinico dopo la seconda notte nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Siena dove è ricoverato a seguito di un incidente che l’ha visto coinvolto durante una gara di handbike. Ancora non è facile neanche per i medici stabilire quali saranno i danni neurologici permanenti che coinvolgeranno il campione dell’automobilismo che da anni viveva senza le gambe a causa di un altro incidente avvenuto durante una gara di campionato Cart il 15 settembre del 2001. Forse perderà la vista, forse, ma è ancora tutto da stabilire. Le condizioni nelle quali è arrivato in ospedale erano gravissime, con un trauma facciale importante, con fratture del cranio e del volto di notevole entità. Resta dunque stabile, ventilato artificialmente, Alex Zanardi e i medici incominciano ad esprimersi circa il suo futuro: si salverà, non è in pericolo di vita e questo conforta un po’ tutti.
Zanardi è da sempre il simbolo del coraggio, della ripresa, dell’energia vitale che pervade chi decide di non arrendersi, di reinventarsi un futuro, di  mettere da parte il dispiacere per ciò che si è perso e di ricominciare da quel che ancora si ha. Sorride anche con gli occhi, Alex, quegli occhi di chi divora la vita ed è capace di affrontare qualunque uragano.

Ed intanto il camionista alla guida del mezzo contro cui l’atleta si è schiantato è disperato e non si da pace: “me lo sono trovato davanti, ho sterzato, ma l’impatto è stato inevitabile”. 

Quella parola “inevitabile”, che risuona forte nella testa di tutti. 
E’ stato davvero inevitabile? Il camionista ha fatto il suo, e comunque saranno le indagini sul caso a chiarire ogni dubbio in merito all’incidente.

E’ chiaro che Alex Zanardi ha invaso l’altra corsia.
Ma perché?

Intanto la gara di handbike si è tenuta su una strada provinciale, la 146 tra Pienza e San Quirico d’Ocia, che non era stata chiusa al traffico per la manifestazione sportiva. Il sindaco di Pienza dichiara di non aver saputo nulla in merito, ed ci si chiede come si faccia ad organizzare una corsa su una provinciale senza comunicazione ufficiale al Sindaco, al Questore, al Prefetto. Perché se è vero che se l’evento si svolte in un posto più piccolo basta il permesso del primo cittadino, l’entità della gara sportiva richiedeva la comunicazione alle autorità di cui sopra.
Si trattava della staffetta tricolore di Obiettivo tre, viaggio che attraverso tutta l’Italia, che fa diverse tappe e che si sarebbe dovuta concludere in Puglia. E’ una competizione che vede tra i partecipanti atleti paralimpici in handbike, bici o carrozzina olimpica, ma anche generici appassionati di ciclismo o sportivi che via via si potevano accodare al gruppo. Assurdo dunque che si potesse darne notizia solo attraverso le pagine Facebook.  Sembrerebbe invece che gli organizzatori l’abbiano definita “una scampagnata tra amici” e non una gara vera e propria. Fatto sta che la “scampagnata” è costata tanto, forse troppo.

Ma dalle indagini che continuano, sulla vicenda nella quale è rimasto gravemente ferito Zanardi, emerge un’altra grave verità. La procura di Siena che indaga sulla corsa, ha acquisito un video dal quale si evincerebbe che a causare la perdita di controllo del mezzo sia stata una leggerezza dello stesso Zanardi che a quanto pare stava riprendendo il panorama con il telefonino, così come testimoniato anche da un ciclista che correva la fianco di Zanardi: “stava filmando il panorama, non si è accorto di aver invaso l’altra corsia” – avrebbe detto.

Una imprudenza, dunque, che sarebbe stata fatale. 
Una serie di leggerezze, che hanno provocato una situazione gravissima, che in queste ore tiene lo sportivo in bilico su un futuro drammatico, tutti con il fiato sospeso, mentre ancora sono da chiarire un bel po’ di responsabilità.

Simona Stammelluti 

 

Avere paura del domani. 
Ma non del domani inteso come futuro che verrà; proprio del domani prossimo, di domani inteso come le prossime 24 ore.
Che quel 21 giugno segnalato come il giorno della fine del mondo – perché a quanto pare i maya si sarebbero sbagliati a fare i conti –  è nulla rispetto all’apocalisse periodale che ci instilla il vivere quotidiano.

La pandemia è ormai qualcosa che abbiamo provato sulla nostra pelle, e quel “Pan-demos” che dal greco ci ha investito tutti, in tutto il suo orrore, sembra aver lasciato uno strascico di paura costante, ci ha resi fragili, quasi indifesi verso alcuni eventi che non possono essere contrastati con la sola voglia di vivere … e di resistere.

Ma a me viene da pensare a Peirce, uno dei più grandi pensatori e filosofi e logico-matematici (e tante altre cose tutte insieme) di tutti i tempi, fondatore della semiotica moderna, immortale nel suo modo di concepire l’essere e la sostanza, l’epistemologo della filosofia – come lo definisce Emanuele Fadda nel suo libro “Peirce” – che ha passato la vita a ragionare su un metodo comune alle scienze naturali, umane, formali e filosofiche e che ha – come lui stesso sosteneva – fornito un’ipotesi:

“[…] Il massimo che si possa fare è fornire un’ipotesi, non priva di una sua verosimiglianza, che si collochi sulla linea generale di crescita delle idee scientifiche e che sia capace di venire confutata o verificata da futuri osservatori”

Penso alla sua “primità” (che è così tenera che non puoi toccarla senza rovinarla) , all’origine, vivido e conscio ed evanescente, al presente che è positivamente così com’è, quel qualcosa allo stato iniziale, come un semplice tono di coscienza, come il feeling nella sua immediatezza. Quell’essere in sé prima ancora di appartenere alla categoria dei mortali, e quindi di esserlo, mortale.

La certezza della morte incombe sull’essere umano da sempre, tanto che c’è chi ha azzardato la definizione della vita, del venire al mondo, come “un brutto film, un film dell’orrore, che per quanto brutto, è sempre meglio vedere come va a finire“.

La probabilità di qualcosa che può accadere nel mentre che tutto si compia, quel ricondurre tutto, dal particolare della condizione dell’essere umani, all’universale che ci tiene incollati ad un dato certo, quel pronostico che vorremmo non sbagliare lungo quella camminata che – sappiamo per certo – si interromperà, da qualche parte, in un tempo che non conosciamo.

Ed infatti non è la morte in sé a farci più paura del solito,  ma il ricordo della caducità della vita che si manifesta ai nostri giorni come se vivere un giorno felici, senza incertezze sia divenuto un reato del quale tocca scontare una pena; e tutto questo mentre ad andar via quest’anno, sono persone che per un motivo o per un altro abbiamo sentito vicine.

Sembra come se questo 2020 rechi in se il compito maldestro di togliere via ogni sicurezza, intaccare ciò che è bellezza ed arte; come se voglia mettere alla prova le nostre fragilità, quelle che coccoliamo affinché ci siano amiche e non tornado capaci di spazzare via ogni certezza.

In questi mesi il verbo morire è diventato quello più coniugato, la parola “morti” al plurale, una luce ad intermittenza che non si spegneva, mai, come quelle dei motel di terza categoria. Il contare i morti ci ha stremato, così come la speranza – qualche volta perduta – di non dover contare morti troppo vicini al nostro cuore.

Ma quelle fragilità che proviamo a tenere in bilico, così come il coraggio e forza di resistere sono stati bombardati dalle morti e da eventi che ogni giorno ci hanno resi sempre più deboli, affranti, miseri davanti alla vita che ha contorni piccoli ed incerti ed imprevisti, lì dove l’imprevisto non sempre vira verso la bellezza dell’imprevedibilità.

Sepúlveda va via stroncato dal coronavirus, Kobi Bryant muore in un incidente in elicottero, Ezio Bosso va via, in punta di piedi, lasciando il ricordo di quel suo modo di vivere che tanto ci ha commossi, il cancro porta via Zafón, ieri Alex Zanardi si schianta contro un tir, perdendo il controllo del mezzo e ribaltandosi durante una gara di handbike e abbiamo anche sfiorato l’ennesimo conflitto mondiale. Tutto in questo anno maledetto, che è appena a metà del suo incedere. Lo so, è solo un caso, ma vorrei restare in quella primità di Pierce, vorrei semplicemente aprire gli occhi e descrivere ciò che vedo, non ciò che viene a mancare.

…e ricordati, che devi morire.
[Dal film “Non ci resta che piangere”]

Simona Stammelluti 

ORE 16:30 Lampedusa – di fronte al molo Favaloro 

È di pochi minuti fa l’ennesimo sbarco di clandestini a Lampedusa, che arrivano ormai a tutte le ore, evadendo anche i controlli delle forze dell’ordine. Sono sbarchi autonomi e i lampedusani sono allo stremo. La situazione è ormai fuori controllo e urge una soluzione a questa condizione incontrollabile che si perpetua ormai da troppo tempo

130 eventi per un mese di programmazione in luoghi all’aperto, 10 sezioni e 28 prime di spettacoli italiani 

A partire dall’autunno spazio agli internazionali con Dimitris Papaioannou, Jan Fabre, Ramzi Choukair e Sulayman Al-Bassam

Il teatro rinasce con te.
È un invito a rivivere le emozioni del teatro lo slogan della tredicesima edizione del
Napoli Teatro Festival Italia, la quarta diretta da Ruggero Cappuccio, realizzata – nonostante l’emergenza sanitaria – con il forte sostegno della Regione Campania e organizzata dalla Fondazione Campania dei Festival, presieduta da Alessandro Barbano.

Inizialmente fissata per giugno e poi rinviata a causa della pandemia, la manifestazione torna con una ricca programmazione quasi interamente a cielo aperto che si declina tra teatro, danza, letteratura, cinema, video/performance, musica e mostre: 130 eventi, per un calendario di un mese, distribuiti in 19 luoghi tutti all’aperto con una sola eccezione: il Teatro di San Carlo.

Platee allestite nel rispetto delle distanze di sicurezza, divise tra Napoli e altre città della Campania (Salerno, Solofra, Pietrelcina e Santa Maria Capua Vetere), dove andranno in scena creazioni italiane e coproduzioni a conferma dell’attività produttiva della Fondazione.

L’edizione 2020 presenta 34 spettacoli di prosa nazionale, di cui 28 prime assolute, consolidando la struttura in sezioni, ormai tratto distintivo della direzione artistica firmata Cappuccio.
Italiana, Osservatorio, Danza, SportOpera, Musica, Letteratura, Cinema, Mostre, Progetti Speciali: il Festival rinnova la sua grande attenzione alla multidisciplinarità in un dialogo che mira a una visione organica e interdisciplinare dell’arte. La sezione Internazionale, che negli anni passati ha portato a Napoli grandi nomi della scena contemporanea, è stata invece riprogrammata a partire dall’autunno e vedrà in scena, tra gli altri, il coreografo greco Dimistris Papaioannu, l’artista belga Jan Fabre, e Ramzi Choukair e Sulayman Al-Bassam.

Con l’intento di supportare la ripresa di un settore in grave difficoltà in quest’anno segnato dalla crisi economica indotta dal Covid-19, NTFI conferma l’attenzione e il sostegno a favore di produzioni e compagnie del territorio campano e napoletano, insieme a tante realtà del panorama nazionale.

Tra i protagonisti di questa edizione Silvio Orlando, Vinicio Marchioni, Francesco Montanari e Gianmarco Saurino, Bruno Fornasari, Andrea De Rosa, Luana Rondinelli, Antonio Piccolo, Lino Musella, Federica Rosellini, Ciro Pellegrino, Laura Angiulli, Joele Anastasi, Salvatore Ronga, Lucianna De Falco, Francesco Saponaro, Lara Sansone, Vincenzo Nemolato, Chiara Guidi, Claudio Ascoli, Marcello Cotugno, Ettore De Lorenzo, Massimiliano Gallo, Alessio Boni, Gianni Farina, Sarah Biacchi, Lina Sastri, Franca Abategiovanni, Riccardo Pippa, Corrado Ardone, Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, Federico Tiezzi eSandro Lombardi, Roberto Rustioni, Enzo Vetrano, Stefano Randisi, Mario Scandale, Arturo Cirillo, Valentina Picello, Francesco Tavassi, Mariangela D’Abbraccio,  Euridice Axen, e le compagnie Anagoor, Carrozzeria Orfeo,  Casa del Contemporaneo, Nuovo Teatro Sanità, e Mutamenti/Teatro Civico 14.  

Per la sezione Musica si avvicenderanno invece Roberto De Simone, Raffaello Converso, Pippo Delbono e Enzo Avitabile, i Foja, Stefano Valanzuolo con Sarah Jane Morris e i Solis String Quartet, Massimiliano Sacchi, Maria Mazzotta, Francesco Di Cristofaro, Valerio Sgarra, Ars Nova, Ciro Riccardi, EbbaneSis, i Folkonauti, Raffaella Ambrosino, Ambrogio Sparagna con Iaia Forte, Giada Colagrande, Roberta Rossi, Ivo Parlati e Nadia Baldi, Renato Salvetti e Antonella Ippolito. Nella sezione Danza si segnala la partecipazione del coreografo francese figlio di minatori di origine italiana Alexandre Roccoli.

La collaborazione con il Teatro Stabile di NapoliTeatro Nazionale si concretizza attraverso la coproduzione di due spettacoli inseriti nella sezione Progetti Speciali del Festival con Mimmo Borrelli, Renato Carpentieri, Claudio Di Palma. Tra gli altri protagonisti della sezione del NTFI, da anni ormai terreno di sperimentazione di nuove pratiche sceniche, Roberto D’Avascio, Carlo Geltrude, Maria Rosaria Omaggio, Marco Dell’Acqua, Alberto Conejero, Davide Scognamiglio e Daniele Ciprì.

Nel Real Bosco di Capodimonte e al circolo Canottieri per lasezione SportOpera a cura di Claudio Di Palma, che propone 8 spettacoli di cui 7 in prima assoluta, si alterneranno Mariano Rigillo, Patrizio Oliva, Pino Maddaloni, Fulvio Cauteruccio, Andrea Zorzi, Beatrice Visibelli e Nicola Zavagli, Rosario Giglio, Marina Sorrenti, Chiara Baffi, Rossella Pugliese, Antonio Marfella, Paolo Cresta, Ferdinando Ceriani, Gennaro Ascione,Alfonso Postiglione.

E ancora per la sezione Letteratura, progetto a cura di Silvio Perrella, ospiti Maurizio Bettini, Daniele Ventre, Caterina Pontrandolfo, Alberto Rollo, Mimmo Borrelli, Silvia Bre, Piera Mattei, Claudio Damiani, Vincenzo Frungillo, Igor Esposito, Maria Grazia Calandrone, Sonia Gentili, Enza Silvestrini, Fiorinda Li Vigni, Mariafelicia De Laurentis, Antonio Biasiucci, Alfio Antico.

Siamo riusciti a compiere in tempi strettissimi un vero miracolo mantenendo la struttura del Festival fedele rispetto a quella iniziale”, dichiara Ruggero Cappuccio, direttore artistico del Festival.

Per il quarto anno consecutivo, in collaborazione con la Direzione regionale Musei Campania, sarà Palazzo Reale di Napoli la sede principale del Festival, luogo di assoluta centralità in città. I suoi cortili, d’Onore e delle Carrozze, e il Giardino Romantico ospiteranno spettacoli di prosa e le sezioni Cinema e Osservatorio. Con l’obiettivo di valorizzare beni architettonici e paesaggistici della Campania, la tredicesima edizione del Festival si avvarrà anche di diverse aree del Real Bosco di Capodimonte, ambientazioni che porteranno il pubblico a immergersi nella bellezza non solo del teatro, ma anche del parco cittadino.  

Tra gli altri luoghi coinvolti a Napoli, Palazzo Fondi, i cortili deipalazzi del rione Sanità, il rione De Gasperi, la spiaggia delle Monache a Posillipo (con accesso da Lido Sirena – Via Posillipo) , il Teatro di San Carlo, e il circolo Canottieri. Per la regione, invece, il Duomo e il cortile del teatro Ghirelli a Salerno, il complesso monumentale di Santa Chiara a Solofra, il Teatro Naturale di Pietrelcina, e l’Anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere, altro sito della Direzione regionale Musei Campania.

Organizzare la manifestazione in questi mesi di lockdown – sottolinea il presidente della Fondazione Campania dei Festival Alessandro Barbanoè stato possibile soltanto grazie all’impegno di coloro che hanno continuato a lavorare senza sosta. A loro va il mio sincero ringraziamento”.

Anche quest’anno, prosegue la collaborazione con il maestro Mimmo Paladino, che ha creato la nuova immagine del Festival, in linea con l’identità della programmazione 2020, per il catalogo e i materiali promozionali. Si rafforza inoltre la sinergia creata tra la Fondazione Campania dei Festival e gli Istituti di cultura (Institut Français; Goethe-Institut; Istituto Cervantes; British Council). Il racconto di alcuni momenti del Festival sarà invece affidato a Rai Radio 3 e Radio CRC Targato Italia, media partner della manifestazione.

Il Napoli Teatro Festival Italia, che fa parte della rete Italia Festival e dell’EFA (European Festival Association), si pone come organismo di crescita culturale e sociale, e in tal senso favorirà la partecipazione del pubblico continuando a proporre un’oculata politica di prezzi, con biglietti popolari (da 8 a 5 euro) e agevolazioni assolute per le fasce sociali più deboli. I titoli potranno essere acquistati online sul sito www.napoliteatrofestival.it e ai botteghini allestiti nei luoghi degli eventi. Il ricavato degli spettacoli inseriti nella sezione Musica sarà devoluto in beneficenza all’Istituto nazionale tumori “Fondazione Pascale” di Napoli.

Intervistare Paolo Di Giannantonio, storico giornalista Rai, ha cambiato il mio modo di guardare al ruolo del giornalismo ai tempi dei social network e delle fake news.

Una carriera straordinaria, la sua, come conduttore del Tg1 ma anche come giornalista d’inchiesta e inviato, che ha potuto raccontare alcune vicende che hanno cambiato il mondo, a cavallo di due secoli.

Un grande privilegio intervistarlo, una lezione sul difficile mestiere del giornalista, i rischi, e poi l’intuito, quel pizzico di fortuna che a volte serve e la bravura di gestire le difficoltà.

Pezzi di vita, la passione per la sua città e quel suo essere poco mondano. L’uomo, il giornalista Paolo Di Giannantonio al Sicilia24ore

Questo e tanto altro nella video intervista 

 

La situazione è ormai insostenibile.

A Lampedusa i cittadini sono stanchi, non ce la fanno più, la situazione attuale diventa sempre più drammatica ad ogni giorno che passa.

È accaduto poco fa: è stato dato fuoco a tutte le carcasse delle imbarcazioni dei clandestini che erano ammassate accanto allo stadio comunale, in pieno centro cittadino, dunque, oltre che presso la discarica. 

Il vento delle ultime ore ha facilitato l’aggravarsi delle fiamme, domate poi dai Vigili  del Fuoco.

E intanto continuano gli sbarchi, fino a tre al giorno e per ognuno si conta un centinaio di migranti.

 

 

 

Tutto ebbe inizio il 1930 … e che inizio!
Difficile immaginare oggi quel 31 maggio del 1930 quando Clint Eastwood veniva al mondo, sicuramente senza cappello da cowboy e il mezzo sigaro tra le labbra.
Sappiamo però che il giorno della sua nascita, le infermiere dell’ospedale lo soprannominarono “Samson” per il suo peso spropositato: pesava 5 chili e 200 grammi, e che nacque con tutte le passioni al proprio posto, coltivate e messe all’opera per una vita intera.

Un carattere timido e schivo, una gioventù tra tanti mestieri per aiutare la famiglia e poi una carriera artistica sfolgorante, una vita sentimentale abbastanza movimentata, e l’amore per il jazz (Che condivide con suo figlio Kyle), come leit motiv di una esistenza piena di traguardi sognati e raggiunti.
Icona con quel suo sguardo da bello ed impossibile, mito del cinema a cavallo di due secoli, produttore e regista sopraffino (anche di se stesso) con uno sguardo critico sul presente, quando l’uomo viene messo alla prova, e poi nella condizione di poter cambiare, o perdersi o morire, ma attraverso la visione di scelte consapevoli, soffiando su personaggi apparentemente ordinari in situazioni straordinarie.

A 90 anni nutre preoccupazione sulle sorti del mondo, ma ammette di riuscire ancora ad essere ottimista.

C’è tutto un mondo, una intera vita e una straordinaria carriera tra gli anni in cui Sergio Leone lo scelse come protagonista della trilogia del dollaro con le pellicole Per un pugno di dollariPer qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo, capostipite del genere spaghetti-western di cui Eastwood divenne l’interprete principale, col ruolo del freddo Uomo senza nome, e i giorni nostri in cui è lui a scegliere gli attori, le storie, i finali, cosa raccontare e come.

Clint Eastwood si porta dietro come bagaglio un curriculum stracolmo di ruoli ben fatti ma ad oggi è un raccontastorie, racconta storie americane, ma non fa film all’Americana, storie in cui la condizione umana è messa alla prova, si confronta con le regole, con la possibilità di scegliere, con i valori sacri della vita, con processi fondamentali come la perseveranza, la solitudine, i sentimenti,  il senso spesso traumatico dell’esistenza, il dolore e la fedeltà non all’altro ma a sé stesso e ai propri desideri. Il tutto dentro l’azione, il rischio, la resistenza.

Affascina quel suo modo di fare il cinema, quella sua capacità indiscussa di trasformare un evento singolo, diventato paradigma, mentre mette in relazione la singolarità di ogni sua opera con l’universalità del tema trattato e del concetto da cui parte l’idea, questa la forza del suo carattere artistico.

Ero troppo piccola quando negli anni 70 la critica cinematografica lo sottovalutava come attore (erano gli anni di “Il texano dagli occhi di ghiaccio“), ma abbastanza grande per apprezzarlo nel tempo che gli fu propizio quando incominciò a vincere gli oscar con “Gli spietati”, che in tutto sono stati 5. Ammetto di aver visto quasi tutti i film da lui diretti, con una passione per “Gran Torino” 

  • “La cosa che tormenta di più un uomo, 
    è quello che non gli hanno ordinato di fare” 

Ha avuto tanto da dire come regista, e sembra che non abbia nessuna voglia di smettere e noi siamo felici per questo, altro che!

Auguri Eastwood, buon compleanno e lunga vita a te e al tuo sorriso, così raro, così vero e alla forma espressiva di quel tuo cinema, che non produce solo immagini

 

Simona Stammelluti 

 

Amministrare una città non è cosa semplice, perché il rispetto delle regole deve camminare di pari passo con il buonsenso, la competenza, la lucidità e le responsabilità da prendersi … tutte.

Ed invece ci ritroviamo davanti ad una scena che non si può certo ignorare; quella del sindaco di Avellino Gianluca Festa, che si unisce ai ragazzi della movida della città campana, tra assembramento e selfie e cori contro il governatore De Luca, tutto in barba alle disposizioni del Ministero, della Regione e della città stessa, considerato che proprio Festa aveva promesso che avrebbe supervisionato sulla ripresa delle attività e soprattutto della vita notturna della città.

Lui, che sui social dichiara “di aver deciso di fare un sopralluogo nell’isola pedonale per assicurarsi che tutto fosse nel pieno rispetto delle regole”. Ma in realtà sembra che sia mancato proprio il senso civico del primo cittadino, ripreso in un video in mezzo a centinaia di giovani senza mascherina, senza distanza di sicurezza,  che si è lasciato coinvolgere letteralmente dalla movida smisurata, senza che ci fosse nessun controllo delle forze dell’ordine, nessuna multa sull’assembramento, in barba alle regole e ai pochi commercianti che si sono invece attenuti alle regole, come è giusto che fosse.

“Dove c’è la vita ad Avellino ci sono io” – sostiene Gianluca Festa, il cui cognome in queste ore fa da cassa di risonanza al suo comportamento non consono al suo ruolo di primo cittadino.

Ma un sindaco deve dare l’esempio, deve educare i giovani, deve difendere la proprio comunità, soprattutto in questo momento in cui ogni errore di superficialità potrebbe costare cara, e non è certo quel suo comportamento il modo migliore per lasciarsi alle spalle le difficoltà vissute nei mesi di pandemia, che non sono così lontano come invece sembra apparire dalle immagini della movida avellinese della scorsa notte.

Dove sono i famosi “lanciafiamme” di De Luca? Si attende una reazione da parte della Regione Campania e dal Governo, oltre che una decisione in merito a questa vicenda che inevitabilmente è saltata alle cronache.

Ma come in “vite parallele” di Plutarco, c’è un antitesi anche nel genere umano, nel modo di amministrare, in etica e senso civico. Eccellenza, vizi e virtù passati al setaccio per lasciar emergere carattere e modalità, in positivo e in negativo.

Infatti alle cronache si può (e si deve) saltare anche per il rigore e la competenza e la capacità del ruolo del primo cittadino. E allora non posso non ricordare che esistono sindaci come Antonio Decaro, che amministra la città di Bari per il secondo mandato consecutivo e che è un esempio di come si supervisiona per davvero sul comportamento dei cittadini, di come si fanno rispettare le regole. Decaro che nel corso di questi mesi si è commosso davanti alle vetrine abbassate in quella parte di città che era fiorita di attività, che ha rimproverato a denti stretti i ragazzi sul lungomare di Bari all’indomani della riapertura post pandemia, che ha dichiarato come “gli assembramenti, la cosiddetta movida, sono un terribile alleato del covid 19“, che ha intensificato i controlli, che ha fatto scattare le multe in tutte le zona della movida cittadina.

Difende così i suoi cittadini, quelli che lui stesso chiama “compagni di strada” e che poco più di un anno fa lo hanno scelto ancora affinché tutto il buono realizzato per la città nei cinque anni precedenti, non restasse a metà.

Si può stare in mezzo alla gente, si deve; è il compito primario di un primo cittadino, ma con la massima attenzione agli effetti negativi di azioni superficiali che rischiano di produrre effetti irrimediabili a stretto giro e come dice Decaro, “questo non possiamo permettercelo

 

Simona Stammelluti 

 

Io ancora mi tormento, ancora mi meraviglio e ancora mi indigno.
Temo il giorno in cui tutto sarà “come da ordinaria amministrazione”.

Le ultime parole di George Floyd – “non posso respirare” – si sono trasformate nello slogan della manifestazione di protesta ed indignazione, contro la morte dell’afroamericano che 48 ore fa è morto, o forse dovremmo dire è stato ucciso, da 4 poliziotti a Minneapolis, durante un controllo, senza ancora un perché.

Però una domanda nasce spontanea: “Vale più un resoconto fatto a parole, o un video dettagliato realizzato in presa diretta, lì sul posto, che racconta di come siano andate le cose?

Per adesso sappiamo solo che i 4 poliziotti sono stati licenziati, che sulla vicenda si sta indagando, che l’uomo è morto e sul suo corpo si effettuerà l’autopsia e che la manifestazione di protesta ha riempito le strade della città, e non ha avuto connotati docili tanto che la polizia ha dovuto usare i gas lacrimogeni contro la folla in cerca di una risposta.

Un poliziotto bianco uccide un nero.
Un classico da film americano.
Qual è la condotta della polizia nei confronti dei neri?
Sembra esserci ancora una ingombrante condizione di razzismo, in essere, tanto che nel 2016 nacque un movimento chiamato “Black Lives Matter” (le vite nere contano) impegnato nella lotta contro il razzismo perpetuato a livello socio-politico verso le persone di colore.

Che aveva fatto, dunque, George Floyd, quel giorno  in cui è morto? Chi era George Floyd?
46enne afroamericano che per vivere faceva il buttafuori di un ristorante, poi chiuso per il lockdown, in cerca di una nuova occupazione, fermato all’interno della sua auto dai 4 poliziotti che avrebbero avuto una segnalazione circa un traffico di documenti farsi, c’è chi sostiene che fosse in possesso di sostanze stupefacenti. Un po’ ostica la motivazione, ma facciamo che andava bene così.

Il poliziotto che si è inginocchiato letteralmente sul collo di George Floyd, si chiama Derek Chauvin, 19 anni di carriera e diverse denunce per uso eccessivo della forza, con una causa relativa ad un’accusa di violazioni dei diritti costituzionali federali di un prigioniero.

Il punto è perché da un controllo si finisce per morire.
Noi certo, non abbiamo nulla da invidiare agli americani anche in circostante come questa.
Non ci dimentichiamo  (no, non ci dimentichiamo perché tanto è impossibile dimenticare) di Stefano Cucchi, per il quale la giustizia ha incominciato ad arrivare dopo 10 anni, quando finalmente sono venute fuori le responsabilità di chi lo arrestò, lo trattenne, lo picchiò fino ad ucciderlo. Omertà, silenzio che è tanto violento quanto un pugno, un calcio, un ginocchio sul collo, come quello che ha presumibilmente ucciso George Floyd poche ore or sono.

E se per Cucchi (e per molti altri come lui, vittima della condotta violenta e non maldestra come spesso si cerca di giustificare) non c’erano testimoni che ripresero con il telefonino in mano gli eventi, lì, sul posto, a Minneapolis mentre si consumavano, due giorni fa una ragazza che era presente, ha filmato tutto e le immagini sono molto eloquenti, sono vere, pulsano e fanno male.

(Ho scelto di non inserire il video, ma se volete lo trovare in rete, ma preparatevi perché fa male).

Un uomo nero, a faccia in giù, ammanettato con un poliziotto bianco che gli preme un ginocchio sul collo, che non si ferma malgrado gli venga detto che non può respirare, malgrado il sangue che esce dal naso, malgrado l’implorazione dei presenti che urlano di smetterla. Arriva l’ambulanza, il medico infila la mano sotto il ginocchio del poliziotto per verificare se ci sia ancora il battito, carica l’uomo sull’ambulanza, ma lo stesso in serata, viene dichiarato morto.

Perché tanta violenza?
Cosa è avvenuto prima dell’arresto?
Purtroppo il filmato non mostra gli istanti che precedono quell’atto di forza.

Ci sono sentimenti che vengono fuori, che non si possono tenere a bada, che ci pongono nella condizione di riflettere sul perché ancora accadano questi episodi. Orrore, rabbia, dispiacere, sofferenza, affollano pensieri e sensazioni e ci si interroga su come sia possibile provare così tanto odio verso qualcuno, soprattutto quando si indossa una divisa. Violenza, contro persone che implorano prima di morire, che si lasciano morire, che lottano fino alla fine prima di soccombere, di soffocare, di morire tra dolori atroci, da soli, vittime (forse consapevoli) dell’odio che un altro essere umano prova verso di te.

Nessuna colpa può giustificare tanta violenza, nessuna.
Vi prego, vi prego, vi prego, sto soffocando, non posso respirare (please, please, please i can’t breathe” – sono state le ultime parole prima che George Floyd morisse soffocato e senza più fiato. Ripete tre volte le parole “Per favore” prima di morire.

Anche Stefano Cucchi morì martoriato da danni irreversibili da percosse così evidenti che ancora oggi, quando sua sorella Ilaria mostra quella gigantografia, a me viene da restare senza fiato. Chissà quante volte ha chiesto di fermarsi, Stefano Cucchi.

Giustizia sia fatta, e al più presto.
Giustizia per George Floyd.
Perché non esistono al mondo tante Ilaria Cucchi, lei che non si è mai, mai, mai arresa davanti alla morte di suo fratello e ha lottato insieme ai suoi genitori per 10 lunghi anni, affinché venisse fuori la verità, solo la verità e insieme all’avvocato Fabio Anselmo sono riusciti a far condannare i due carabinieri, colpevoli della morte del giovane romano che avvenne il 22 ottobre del 2009.

La violenza deve essere bandita, la violenza che nasce da una forma di razzismo profonda, radicata ancora in una società che può provare a difendersi da tutto tranne che da atti come quelli che ancora si perpetuano per le strade, dentro le caserme, oltre il muro del rispetto della vita umana.

 

Simona Stammelluti 

 

Ci pensavo da tempo.
Pensavo che avrei voluto porle un po’ di domande, perché dopo l’ascolto del disco “Mister Puccini in jazz” di Cinzia Tedesco (qui la recensione) una serie di curiosità mi avevano fatto visita e allora ho atteso il momento propizio che è arrivato in questi giorni, e così malgrado la distanza, abbiamo chiacchierato e ne è nata una delle più belle interviste mai realizzate.

Lei, Cinzia Tedesco, eclettica, simpatica, prorompente, disarmante nel suo essere per niente diva, è fatta per il 100% di identità artistica.
Abbiamo parlato del suo disco, di come è nata l’idea, dei suoi straordinari compagni di viaggio, dei progetti futuri, dell’importanza dell’ascolto, della gavetta e del lavoro d’insieme.
Ha le idee chiare Cinzia Tedesco, è così lucida nella visione del mondo della musica.
Abbiamo disquisito sul perché si facciano tanti dischi, dell’Italia spiccatamente esterofila, di come si possa andare controcorrente quanto si ha un’idea e un progetto che tocca un repertorio “eterno”.

Come si conserva il segno distintivo di un artista?
Cos’è la bravura? Di cosa è fatta?

Questo e tanto altro ancora.
Grazie, Cinzia.

 

Buona Visione 

Simona Stammelluti