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Si attendeva una ventata di aria nuova, di nuove forze che potessero dare nuovo slancio al territorio, che con competenza si interessassero dell’aspetto politico e culturale della cittadina di Montalto Uffugo

È proprio il direttivo, costituto da giovani professionisti a spiegare in una nota stampa, le motivazioni che hanno spinto il gruppo a costituire questa nuova realtà politico-culturale:

La consapevolezza di voler essere protagonisti e non spettatori delle scelte che riguarderanno il futuro dei cittadini ha spinto un gruppo di giovani di Montalto Uffugo a unirsi nell’associazione politico – culturale denominata “Innoviamo”.
Abbiamo raccolto l’invito che viene da più parti sia a livello nazionale e sia locale di impegnarsi in politica e per il territorio fornendo un punto di vista in più, unanime e innovatore, nel pensiero come nell’azione.
Da tempo condividiamo momenti di confronto sui temi esteri, nazionali, regionali e locali che hanno dato vita a una convinzione sempre più marcata della necessità di occuparci fattivamente di tutti quegli aspetti che influenzano nel bene e nel male la vita dei cittadini, il progresso della società, lo sviluppo di un territorio.
Noi di “Innoviamo” crediamo che le sorti di Montalto Uffugo siano in mano ai cittadini, pertanto, guardiamo con attenzione e interesse alle prossime amministrative per la creazione di una valida alternativa alimentata dal contributo e dall’impegno di coloro che desiderano realmente un cambiamento mediante una nuova visione di città.

L’associazione, che vede presidente Antonio Brogno, vicepresidente Maria Esposito, segretario Federica Giannuzzi nonché l’assemblea dei soci quale organo collegiale, conta già tantissime adesioni e sostenitori.

Così prosegue la nota:

Siamo fiduciosi di poter interloquire con tutti coloro che hanno a cuore la nostra comunità, attraverso argomentazioni programmatiche sui temi più sentiti e di maggiore interesse.

Nei prossimi giorni l’associazione si presenterà al territorio con un incontro pubblico.

“Innoviamo” sarà protagonista assoluta delle sorti della nostra città

– conclude la nota.

Quando sentiamo parlare di malasanità pensiamo sempre agli ospedali del Sud, Sicilia compresa.
Ed invece il racconto di vita vera di Michela e del suo papà, il racconto della disavventura patita all’ospedale Sant’Orsola di Bologna dal 19 dicembre scorso e che dura ancora oggi, è significativa di come manchino tante, troppe cose nella sanità da nord a sud, e in primis, manca l’empatia, la voglia di essere utile al prossimo, manca l’umanità, manca il senso del dovere che dovrebbe spingere a fare il lavoro del medico, dell’infermiere, dell’Oss, dell’inserviente.
Di seguito il racconto che ho raccolto, l’ennesima denuncia, perché è giusto che si sappia cosa accade negli ospedali, spesso osannati per buona sanità, ma che devi provare assolutamente a scansare se …
Come primo punto fondamentale, al di là del motivo e indipendentemente dalla gravità di ciò che ti ha portato in ospedale, la prima cosa che ti devi augurare è che sia un giorno feriale. Perché un paziente nei giorni di domenica e festivi, smette di essere paziente, oppure detto meglio, deve esserlo ma nel vero senso del termine e incrociare le dita sperando di poter arrivare presto e velocemente al primo giorno feriale successivo. Sembra paradossale, ma purtroppo è così. Se poi ti dovesse capitare, come nel caso di mio padre, di accedere pochi giorni prima di Natale … allora beh… la cosa si complica e di parecchio.
Non parliamo nemmeno dell’eventualità che tu sia un paziente “fragile”, del tipo che magari coltivi da anni alcune patologie, li il rischio di non cavarci la pelle diventa esponenziale.
Da qui la mia triste e surreale storia, o meglio, quella di mio padre da 20 giorni ricoverato in ospedale vittima inconsapevole di una malasanità imbarazzante.
Tutto ha inizio domenica 19 dicembre, quando nel prepararlo per la notte, scopro il pannolone completamente asciutto. Campanello d’allarme.
Voi mi direte: beh per così poco?
Dovete sapere che mio padre (83 anni) non è un paziente che potremmo definire “fragile”, ma fragile al cubo: affetto da una malattia degenerativa da oramai una decina d’anni (in tutto questo tempo non sono riusciti a fare una diagnosi precisa), allettato, incapace di intendere, di parlare e di muoversi, portatore di peg (alimentazione tramite sondino gastrico… “regalo” di un precedente ricovero…). Praticamente l’emblema della fragilità. A parte questo quadro clinico molto impegnativo, per tutto il resto gode di una ottima salute: esami sempre perfetti tanto che mia mamma (di un anno più giovane) è spesso risentita perché a un controllo incrociato, i suoi esami sono peggio.
Torniamo a noi.
Campanello d’allarme.
È domenica sera, quindi si chiama la guardia medica. La guardia medica, consiglia di andare subito al pronto soccorso. Eccallà la parola magica: pronto soccorso. Mi di rizzano tutti i peli solo al sentirla pronunciare: pronto soccorso. Purtroppo viste le precedenti esperienze cerco di capire se non c’è altra possibilità, magari che la guardia medica venga prima a visitarlo a casa magari anche a pagamento. No assolutamente no. La cortesia che ci muove è quella di chiamarci l’ambulanza. Grazie.
Dalle 21.30 che mettiamo giù il telefono, alle 01.00 siamo in pronto soccorso.
Mio padre entra direttamente con l’ambulanza e io entro in sala di aspetto.
Spero in cuor mio che gli abbiamo dato almeno un codice arancione che leggo sul monitor essercene solo 5 in attesa, perché di verdi ce ne sono ben 18… azzurri e bianchi non li considero nemmeno.
Dopo due ore mi convocano e il medico di turno mi spiega la gravità della situazione: setticemia.
Lo trovo in un gabbiotto, sulla barella con la maschera di ossigeno e una flebo attaccata. E così rimane per ben due giorni perché “ci dispiace ma non abbiamo posto per ricoverarlo”. Evito di descrivere la situazione di quei due giorni passati li.
E intanto io veglio e prego accanto a lui senza abbandonarlo un solo attimo.
Finalmente dopo due giorni ci trovano un posto: medicina interna.
Il primo “regalo” appena lo visitano in reparto è scoprire una piaga di 4o grado sul sacrale e una nella coscia destra: in confronto alla setticemia, le piaghe sono trascurabili…
E così passano i giorni, io e mia mamma e la badante a darci il cambio perché mio padre ha bisogno di una assistenza “h24” e non posso fare tutto da sola.
La terapia sembra funzionare, i valori dell’infezione migliorano costantemente, i polmoni sono a posto, i reni pure, il cuore è un portento anche se i medici dicono e ripetono che con pazienti così fragili non si può mai dire di essere fuori pericolo. E va bene, oramai è prassi che mi senta dire che mio padre è un paziente sul chivalà.
E poi il primo dell’anno arriva la bella notizia: finiscono la terapia antibiotica il 5 e il 6 gennaio lo dimettono. Deo Gratias.
Tutto sembra procedere per il meglio… quando in camera (in dieci giorni si erano avvicendati diversi degenti) vengono portate due pazienti entrambe affette da polmonite: mio padre paziente “fragile” nella stessa stanza con due affette da polmonite… da li la tragedia. Dopo pochi giorni (il 4 per l’esattezza) una delle due (quella che strangosciava interrottamente maledicendo il Signore per avergli inferto un simile supplizio, ovviamente tutto questo senza aver indossato per un solo minuto la mascherina) viene trovata positiva al covid.
Lei viene immediatamente spostata e agli altri viene fatto un tampone di controllo: tutti negativi. La camera diventa immediatamente area covid quindi per entrare bisogna bardarsi come palombari… e va bene
Quello che non va bene è che la sera stessa mio padre ha un picco di febbre fino a 39.4.
I medici evidentemente non pensano al covid ma a una nuova possibile infezione alle vie urinarie (vai a capire il perché…) e gli fanno sostituire il catetere prelevando nel mentre un campione biologico per fare nuovi accertamenti. In reparto però non hanno un catetere della sua misura e ne mettono uno più grande. Risultato? Una notte passata a fare lavaggi alla vescica con siringhe piene di sangue e coaguli. E il giorno dopo arriva l’altra batosta: tampone positivo.
E così a due giorni dalla dimissioni veniamo trasferiti al reparto covid con l’aggiunta dell’incognita sangue nelle urine.
Mia madre intanto a casa si fa un tampone di controllo e risulta positiva, la badante pure.
Lo faccio anche io: negativo. Fantastico
Sono una highlander ce la farò.
E così adesso sono qui seduta in una camera del reparto covid tutta bardata come una mummia: doppia mascherina, tutta anti traspirante, visiera e doppi guanti, sudata, senza poter bere, né mangiare, né fare pipì, dopo aver avuto l’ennesima discussione con il medico di turno (oggi è domenica… e il medico di reparto non c’è..) per rivendicare non chissà cosa solo il minimo di assistenza sindacale, circondata dalla supponenza e costretta a supervisionare il mio povero padre colpevole solo di aver avuto bisogno di ricevere delle cure. Tutto qui.
Non so quando usciremo, se usciremo e se sì in che condizioni usciremo, ma vi assicuro che quello che è capitato a mio padre purtroppo non è assolutamente un evento straordinario ma potrebbe capitare anche a vostro padre o madre o fratello o sorella o amico o amica, perché se come me che non fai parte del sistema e che stai in ospedale dalle 15/20 ore consecutive e non solo per quei 45 minuti giornalieri concessi a chi non ha parenti “fragili”, ti rendi conto purtroppo di tante cose dalle più piccole e banali alle più grandi.
Tipo?
Beh tipo che se hai bisogno e suoni il campanello, prima che qualcuno ti dia udienza possono trascorrere anche 10 minuti: in effetti se sei un paziente, qualcosa vorrà pur dire.
Tipo che devi imparare alla svelta a distinguere chi sono i medici, gli specializzandi, la caposala, gli infermieri, chi gli Oss, chi i semplici inservienti (ovviamente su tutti i turni) perché ognuno ha le sue competenze e guai a chiedere alla persona sbagliata.
Tipo appunto che se ti capita di chiedere a un infermiere se può posturare tuo padre, ti guarda offeso e va via a culo dritto sbuffando “ora passano i colleghi” e li ai 10 minuti se ne aggiungono altri 10 e più.
Tipo che mezz’ora prima e mezz’ora dopo il cambio turno (ce ne sono ben 4 nell’arco della giornata) puoi spingere il bottone, essere in agonia, metterti a urlare, ti devi mettere il cuore in pace perché tanto non arriverà nessuno.
Tipo che se tu hai i diverticoli (non parlo di mio padre eh, lui è quello sano come un pesce!) e il medico di fa una dieta a base di pasta al pomodoro e mela che lo sanno anche le galline che con i diverticoli è veleno e tu ti sfoghi con l’inserviente che ti ha portato il pasto e lui allarga le braccia “non posso farci nulla, l’hanno detto i medici” e così pure quella che avendo problemi di masticazione non c’è stato verso di farsi dare una minestrina in brodo (si proprio quella, la classica minestrina insapore e inodore neppure se ci aggiungi tre etti di grana grattugiato dentro): no pure a lei è toccata la pasta al pomodoro…
Tipo che se ti sporchi e il turno degli inservienti nella tua camera è già passato, aspetti il turno dopo…
Tipo che se ti tengono tuo padre due giorni con la flebo pensi che debba rimanere a digiuno e invece scopri che la sua nutrizione è stata ordinata ma non arriva e me lo tieni a flebo senza dirmi nulla, dai lo capisci anche tu che non stai lavorando bene. Lo chiedi e te la porto io da casa eh.
Tipo che ora mi viene in mente anche la mia surreale vicenda di 4 anni fa (chi mi conosce sa tutto) e tutto torna senza soluzione di continuità.
Tipo…
Tipo che la lista sarebbe ancora lunga ma sono talmente stanca e provata che la finisco qui.
E siamo in una città virtuosa di una regione virtuosa…
Statemi bene, mi raccomando.

Se n’è andato, è scivolato via da questa vita in un’altra dove speriamo non si provi più dolore.
È morto Gianluca Vialli,  a 58 anni, campione nel calcio e nella vita, dopo aver resistito con tutte le sue forze a quel “compagno indesiderato”.

Un campione che segnava gol eccezionali, un uomo eccezionale, che lascia questa vita dopo aver vissuto con dolcezza e spavalderia, amando e rispettando tutto e tutti, anche quel male che non gli ha lasciato lo spazio giusto per dribblare e vincere.

Ha combattuto con tutte le sue forze, è stato simbolo di vita e gioia di vivere. Riservato, innamorato della sua famiglia, viveva ormai a Londra dove negli ultimi giorni era ricoverato per l’aggravarsi della sua malattia, di quel maledetto tumore al pancreas diagnosticato nel 2017.

È la sua famiglia a dare notizia della sua dipartita:

Con incommensurabile tristezza annunciamo la scomparsa di Gianluca Vialli circondato dalla sua famiglia è spirato la notte scorsa dopo cinque anni di malattia affrontata con coraggio e dignità. Ringraziamo i tanti che l’hanno sostenuto negli anni con il loro affetto. Il suo ricordo e il suo esempio vivranno per sempre nei nostri cuori.

Che vita la sua!

A 16 anni lascia la scuola e incomincia a dedicarsi solo al calcio. Il diploma lo prenderà quando sarà già famoso, quando per tutti sarà un campione. Poi il professionismo, il suo modo di calciare, fresco, efficace, agile, tanto da consacrarlo tra i migliori al mondo. Tra i migliori attaccanti tra gli anni 80 e 90, ha realizzato 300 goal in partite ufficiali.

Sarà nella vita un grande amico, che sa  cogliere occasioni ma sempre con sensibilità.

Ai ricercatori che si occupano di tumore disse:

Forza e coraggio ragazzi, abbiamo bisogno di voi. Buon lavoro

Il 14 dicembre scorso l’ex attaccante della Nazionale aveva lasciato il ruolo di capo delegazione degli azzurri con un messaggio:

Al termine di una lunga e difficoltosa ‘trattativa’ con il mio meraviglioso team di oncologi ho deciso di sospendere, spero in modo temporaneo, i miei impegni professionali presenti e futuri. L’obiettivo è quello di utilizzare tutte le energie psico-fisiche per aiutare il mio corpo a superare questa fase della malattia, in modo da essere in grado al più presto di affrontare nuove avventure e condividerle con tutti voi. Un abbraccio.

Adesso in paradiso c’è la più grande squadra di calcio dell’universo.

 

C’è qualcosa che va molto oltre la fede, oltre quel sentimento indefinibile, potente e prepotente che prova chi “si fida” di qualcosa che non può vedere né verificare con i mezzi concessi all’essere umano.

C’è qualcosa di molto meno pregevole della fede, nella macchina organizzativa e in tutto quello che ruota intorno alla morte di Papa Ratzinger venuto a mancare l’ultimo dell’anno, e che ancora “non trova pace”.

Allora sarebbe interessante soffermarsi e analizzare questo “qualcosa” che mette in piedi un impegno e un incredibile dispendio di energie e mezzi per giorni e giorni, per celebrare le spoglie umane e mortali di un Papa Emerito che – come tutti i papi – deve essere conservato, preparato, mostrato, adorato, per l’appunto celebrato e poi, dopo giorni, tumulato lì dove lui stesso ha deciso di essere sepolto.

È a mio avviso interessante interrogarsi sul perché ad un uomo (benché Papa), non un santo, venga riservata tanta attenzione. Per giorni e giorni, i giornali gli hanno dedicato pagine e pagine per raccontarlo in tutte le maniere, così come hanno fatto i Tg che da 4 giorni hanno abbandonato tutto il resto, per raccontare quel che è accaduto nell’attesa del funerale che verrà trasmesso a reti unificate, solo domani a 5 giorni dalla sua dipartita.

Le risposte dei “fedeli” alla domanda sul perché siano giunti a Roma per dare un ultimo saluto al Papa, sono state delle più diverse. Da chi lo ha fatto perché amava quel Papa, a chi lo ha fatto con tutti i Papi che hanno attraversato la loro vita.

Eppure c’è qualcosa che un po’ angoscia in questa spettacolarizzazione della morte, seppur papale. Vedere lavorare operai per giorni, dediti a montare palchi, luci, transenne, come si fa per i concerti delle rock star; e sapere che “si può accedere anche senza invito fino ad esaurimento posti”, fa un certo effetto, se prendiamo un po’ le distanze dal ruolo che un papa ha – o forse dovrei dire – dovrebbe avere.

E per “durare così tanto” le spoglie umane di Papa Benedetto XVI sono state sottoposte alla tanotoprassi, una sorta di imbalsamazione temporanea, che permette al corpo di non decomporsi, nella fase post mortem. Pensate all’equipe che si occupa dell’aspetto estetico (proprio così è una pratica estetica)  che ha provveduto a iniettare nel sistema arterioso un fluido conservante, una particolare tipo di formaldeide. E poi trucco, parrucco, vestizione.

Pronto ad essere “mostrato”, sotto gli occhi di curiosi, oltre che di fedeli.
Perché il voyeurismo è insito nell’uomo, è il segno di una curiosità un po’ perversa, quel guardare dal buco della serratura tutto ciò che è lontano dal proprio vivere, ed anche la morte di un Papa che non era più “il papa” ma “un papa”, intriga.
Una sorta di distrazione di massa, autorizzata però.
Ed intorno un discreto business. E non ditemi che non c’avete pensato.
Una città, la città eterna che pullula di turisti fuori stagione, che arrivano ma nessuno li aveva considerati, che prendono posto in alberghi, ristoranti e che “già che ci sono” fanno un giro in un museo, in un locale, in un negozio di griffe.
Uno spettacolo, in piena regola, un po’ religioso un po’ no.
Un evento, raro (come si dice: succede una volta ogni morte di papa), ma pur sempre un evento e come tale viene trattato.
La fila per vederlo (con in mano coca e panino), per pregare (forse), per adorarlo (come se fosse un santo).
Ah già … vogliono proporlo alla santificazione.
Sarebbe da capire bene per quali motivi, e non vorremmo certo che si finisca per non negare a nessuno una santificazione come se fosse un semplice altro titolo di quelli che si usano ormai anche come intercalare.

Insomma oltre a cardinali e vescovi, domani ai funerali di Papa Ratzinger ci saranno 3.700 preti.
Tutto il mondo avrà rappresentati istituzionali. Arrivano anche i Re e le Regine.
Tutto in pompa magna, dove per magno, si intende potere, e sinceramente non esiste nessuno più potente di un Papa anche se emerito e adesso defunto.

La fede, lo studio, la conoscenza porta ognuno a vivere a proprio modo questo evento.
Ognuno ha per se un giudizio, perché se Dio non giudica, l’uomo sì ed è forse la cosa che gli riesce meglio.
Ed anche Ratzinger è stato un uomo (di Dio) che ha operato delle scelte, che ha avuto una opinione, che ha studiato e ha dato la sua versione su molte cose che uniscono (o contrappongono) da sempre il sacro e il profano, la scienza e la fede, il laico e il religioso.
Non si vuole pertanto giudicare la sua figura, ma tutto ciò che è ben lontano dalla semplicità e l’umiltà che la chiesa impone ma dalla quale prende le distanze quando deve esporre la potenza indiscussa del Vaticano e del capo della chiesa, colui che discende da Pietro.

Alla fine è la prima volta che muore un Papa Emerito, e forse la curiosità è tutta lì.
Personalmente se proprio dovessi esprimere una curiosità in merito, mi piacerebbe leggere il rogito, quel testo scritto che descrive il suo pontificato, che è posto in un cilindro di metallo, all’interno del feretro. Sì perché insieme a quelle cose così terrene ed effimere come monete d’oro e medaglie coniate durante il suo pontificato e ai paramenti liturgici indossati, c’è anche qualcosa di meno materiale e più spirituale.
Perché alla fine, è lo spirito che si “festeggia” durante un funerale, sempre che qualcuno se ne ricordi oltre la coltre di quello spettacolo che va in scena domani alle 9.30. E mi raccomando … puntuali.

 

 

 

 

 

… A te e famiglia.

Molti passeranno il tempo delle festività a rispondere a messaggi ciclostile, mandati a tutti, come se un messaggio uguale per tutti possa mettere tutto a posto, mettere in pace le coscienze, o dare il senso a questa festività.

Peccato che non basti, che non sia mai bastato tutto questo, compresi i regali dell’ultimo momento, simbolo di festività dedite solo ad un consumismo compulsivo che accomuna sotto il segno dell’apparire e quasi mai dell’essere.

Davanti al mio dissenso circa questo Natale, davanti alla mia voglia di restare in silenzio, di non rispondere agli auguri e di non consegnarne, davanti alla mia inquietudine, tristezza, malinconia circa quello che sta avvenendo nel mondo (mai troppo distanti da noi) mi sono sentita rispondere “ma mica possiamo piangerci tutti i guai del mondo“.

Ed è qui che queste persone si sbagliano: non solo possiamo, ma dobbiamo.
Dobbiamo assolutamente mettere da parte egoismo, indifferenza, senso di superiorità, menefreghismo e riscoprire le uniche due cose che andrebbero impacchettate e consegnate al destinatario più prossimo: speranza ed empatia.

Non possiamo girarci dall’altra parte e non si può più dire: “ma io cosa posso fare?
Perché si può fare  … e molto.
Si può prendere parte ad un progetto di solidarietà, si può prendere una posizione, si può dire la propria, si può rinunciare a qualcosa, ad un Natale come tutti gli altri, anche solo per rispetto a tutto quello che sta accadendo. E se proprio per davvero, si vogliono “piangere tutti i guai del mondo” basta un gesto, semplice, silenzioso, accorato e pieno di amore, dello stesso Amore che nasce la notte di Natale e che non ha nulla a che fare con “ricchi premi e cotillion”.

Perché dietro ad alberi superaddobbati e a chi ostenta a “chi ce l’ha più grande e più bello”, dietro i numeri del consumismo, delle milioni di persone in vacanza come sempre (che alla fine non rinunciano a nulla e se ne fregano di ciò che di terribile sta accadendo nel mondo) c’è una realtà che è non solo immensamente triste, ma tremendamente ingiusta.

Ditemi come si fa a non pensare ai bambini sotto le bombe e al freddo, a chi resiste ma non ce la fa più, che non ha più nulla, neanche un futuro da sperare.
I nuovi poveri, coloro che un tempo avevano di che mangiare e oggi sono in fila per un pasto caldo, che oggi, come ieri e pure come domani, non hanno nulla, neanche la speranza di un giorno normale.
Gli anziani soli e spesso abbandonati, che non “riconoscono” più la vita, perché la sopravvivenza è fredda, sterile e fa male, molto male.
I bambini piccoli che muoiono nelle acque del mediterraneo, che non sanno cosa sia il Natale e che non sapranno mai, che sentono il sonno dell’assideramento rapirli e portarli via, mentre la speranza annega insieme a loro.
Le vittime di un regime che vieta alle donne di studiare, di investire in un futuro e che piangono quella speranza che si fa sempre più piccola ma che provano a lottare; e se non dovessero lottare da sole, sarebbero più forti e più tenaci.
I condannati a morte in pubblica piazza per crimini che non esistono, perché semplicemente hanno “respirato la vita”, senza velo in testa, ribellandosi a quella morsa che rende la vita buia, perché senza libertà non esiste la luce del domani.

È un Natale dunque, senza il “camino del mondo”, senza libertà, senza cibo, senza crescita, senza vicinanza, senza solidarietà.
E la solidarietà non è soltanto un aiuto ma un investimento affinché gli altri possano non sentirsi soli.
La carità non è solo un modo per lavarsi la coscienza, ma anche per colmare il vuoto che abita il cuore di chi non ha nulla da mangiare, ma neanche la speranza. Ed è per questo che un dono a chi ha non ha nulla, insieme ad una chiacchierata può essere un regalo meraviglioso. Un pacchetto rosso con dentro la speranza.

Il mondo è distratto, l’occidente è distratto, è con lo sguardo alle proprie misere cose, mentre l’altra faccia del mondo è sotterrata dalle macerie del vivere, di un vivere spaventoso, che fa orrore, che chiede a tutti di schierarsi, di non “lasciare che sia”, di piangere sì le sorti di chi non ha abbastanza voce.

Direte: “Simona ma cosa possiamo fare, concretamente?”

Posso solo dirvi quello che farò io, anzi ciò che non farò.
Non ostenterò nulla, non mi tufferò nel consumismo a tutti i costi, non ricorrerò ad inutili sovrapprezzati regali dell’ultimo momento, non invierò auguri a nessuno.
Proverò a tendere la mano, a dividere quel che ho con chi non ha nulla, proverò ad “esserci” lì dove c’è il buio, la paura di non farcela, dove c’è la solitudine e la fame.
Urlerò il mio dissenso sempre verso ciò che è censura, violenza, privazione di ogni qualsivoglia libertà.
Userò il mio ruolo per tenere alta l’attenzione sui soprusi e i drammi che sono proprio lì, fuori dalla porta delle nostre case, perché nulla è così lontano, se sappiamo guardare senza lasciarci distrarre da tutto ciò che è effimero e destinato a spegnersi allo scadere di una collaudata mezzanotte.

Il mio augurio ve lo lascio qui, cari lettori:

Che sappiate ancora stupirvi davanti alle scelte del vostro cuore, che sappiate commuovervi e soffrire davanti al dolore di chi nulla chiede se non che ci si metta al loro fianco anche se geograficamente lontani; vi auguro di abbuffarvi di solidarietà anziché di torroni e che sappiate esprimere sempre un desiderio che possa coniugarsi con la parola “speranza” che è l’unica luce che non deve spegnersi mai.

 

BUONE FESTE DA ME, DAL DIRETTORE CASTALDO E DA TUTTA LA REDAZIONE DI SICILIA24H.IT

 

Qualche tempo fa, scrivevo un articolo che raccontava “il giorno perfetto” ossia un giorno ideale fatto da tutte quelle persone che sono solite fare semplicemente il proprio lavoro, quello che hanno scelto, per il quale vengono pagati e grazie al quale possono vivere, quello che fanno con buona volontà, abnegazione, empatia, impegno, serietà ed onestà, e che grazie alla loro condotta rendono tutto quasi “sincronizzato” affinché ci sia un mondo migliore.

E così dall’operatore ecologico al poliziotto, dall’insegnante al medico, ognuno nel proprio piccolo realizzavano un purtroppo utopico giorno perfetto.

Non ho potuto non ripensare a quello scritto, dopo aver ricevuto il racconto di vita vera di un uomo, che tutte le settimane da diverse settimane, accompagna sua moglie presso il reparto di oncologia dell’Ospedale Ciaccio di Catanzaro, affinché possa sottoporsi alla chemioterapia.

Un racconto che lascia sgomenti e a tratti delusi, perché in questa terra martoriata dal malaffare, ci si aspetterebbe almeno nel momento tragico del bisogno, di non dover subire la condizione e l’umiliazione di “non essere figli di … amico di … paziente di …”.

Ed invece la storia di questo signore – di vita vera – è piena di situazioni che fanno indignare, che buttano inevitabilmente la sanità nel fondo torbido del privilegio, che favorisce qualcuno a discapito di altri. E ribadisco, che a nessuno piace frequentare reparti d’oncologia dove chi vi si reca cerca solo di essere assistito al meglio, curato al meglio, accolto al meglio.

La storia di questa coppia, che parte da Cosenza alle 5 del mattino, che prova ad avere un numero di ingresso tra i primi, affinché la giornata di terapia iniziata così presto non finisca con il buio, uguale a quello con il quale sono partiti al mattino.

Ebbene quei numeri, distribuiti alla porta del reparto, talvolta sono presi da addetti, per poi consegnarli agli amici, perché favorire qualcuno a discapito di altri, è pratica comune nella nostra società, e dunque anche negli ospedali, anche in questo ospedale. Ma due giorni fa, la coppia di cui riporto la storia, arriva per prima, prende il numero 1 e così ci si aspetta di essere i primi, ovviamente per il proprio percorso medico. Ma si troveranno ad accedere alla seduta di chemioterapia dopo il numero 42. Avete capito bene. 41 persone dopo, pur avendo il numero 1. Ore ed ore di attesa, dopo analisi di rito e quella visita dallo specialista, alla quale accedono paziente che a volte non seguono neanche il percorso stabilito, che sono pazienti privati di medici del servizio pubblico, o che hanno da consegnare contestualmente alle visite, doni, presenti, regali … insomma, chiamateli come volete.

Magari tutti vedono quella situazione, tutti sanno, ma tutti stanno zitti, perché ormai non ci si ribella più, nessuno si permette di dire nulla fuori posto per paura di una qualche reazione che poi va a discapito del malato che lì dentro, deve in qualche modo viverci, e non vuole eventuali ripercussioni.

Ma il protagonista (suo malgrado) della storia non ci sta e allora ritiene giusto rivolgersi alle forze dell’ordine, spiegando ciò che accade sotto i suoi occhi e chiedendo un intervento. Ma – udite udite – un graduato che è dell’altra parte del telefono gli consegna una risposta che lascia interdetto l’uomo e che lo convince che questa storia non deve restare privata, ma va resa pubblica. Il suo interlocutore gli risponde che “non reputa quella situazione degna di un eventuale intervento, a meno che lui non prenda a sprangate qualcuno lì dentro” – allora sì che manderebbe una voltante. Peccato per il graduato, che le telefonate sono tutte registrate e molto probabilmente quella telefonata, provocherà una qualche conseguenza.

Facciamo quindi un piccolo resoconto: un uomo che porta sua moglie a fare la chemioterapia, a 100 km da casa, si trova davanti a latte di olio che viaggiano da corridoi a studi, che attende un turno ipotetico che quasi mai è quello dei numerini, che denuncia ma che incappa nel graduato di turno, che lo istiga quasi a commettere un atto delittuoso, quasi a farsi giustizia da solo. E capite bene che quell’uomo non può farsi giustizia da solo, perché lui è uno di quelli che fa ogni giorno il lavoro e bene, perché deve e vuole essere il tassello del famoso “giorno perfetto”. Ma non sarà il suo, quel giorno perfetto, perché affinché sia tale, tutti dovrebbero fare il proprio di dovere, con coscienza ed onestà.

Io non faccio fatica a credere al racconto ed anche alle immagini che sono state mostrate a questo giornale e non faccio fatica non solo perché a tutti noi è capitato di vedere file saltate da medici con amici a braccetto mentre fanno visita al collega di turno, ma anche perché personalmente, accompagnando un’amica per un anno interno a fare la chemioterapia nella stessa città ma in altro ospedale, ho visto andazzi analoghi.

Ora la domanda che mi pongo e che vi pongo è: bisognerà sempre chiudere un occhio, anzi tutti e due per sempre? Bisognerà continuare ad avere paura di parlare, di denunciare metodiche comportamentali che vanno a discapito di qualcuno e a favore di altri? È normale che un preposto all’ordine pubblico, rifiuti di andare a guardare da vicino una situazione?

Noi oggi, abbiamo fatto il nostro lavoro, abbiamo fatto il nostro dovere, abbiamo accolto una testimonianza e abbiamo deciso di dare voce a questa coppia, che oltre al dolore, alla paura della malattia, alla stanchezza di un viaggio, allo svilimento di una giornata che non ha avuto i contorni della normalità (per come la normalità dovrebbe essere), ha deciso di raccontare ciò che hanno vissuto.

Io non so quante persone si riconosceranno in questo racconto, quanti annuiranno leggendo questo episodio, ma so anche che probabilmente qualcuno tra quelli che ha ricevuto il “dono natalizio” si riconoscerà in queste righe e mi auguro che in un momento di riflessione, rispolveri non solo il codice deontologico, ma anche il giuramento di Ippocrate, e che decida di ricevere i doni fuori dal reparto nel quale i pazienti sono tutti uguali (al netto della gravità di ognuno) e che se esiste un numero che “indica la via”, che sia quello e nulla più a pesare sulle sorti di un giorno che non sarà mai perfetto se gli anelli della catena si interrompono proprio lì dove necessità la condotta per un mondo migliore.

Ah dimenticavo … Volevo dire al Sig. Presidente della Regione  Calabria, Roberto Occhiuto che nello stesso giorno in cui i nostri protagonisti passavano un doppio calvario, dichiarava di “aver raccolto una sanità in macerie, governata da anni da commissari nazionali, spesso senza competenze” che se il materiale umano e il tessuto sociale medico calabrese è quello raccontato in questo articolo che riporta fatti realmente accaduti, molto poco si potrà fare e a nulla varranno commissari più o meno competenti; La Calabria resterà la terra del clientelismo e delle latte di olio che camminano da corridoi a studi, sempre con qualche ritorno.

 

il #pinocchio di Guillermo del Toro è un vero CAPOLAVORO; per me andrebbe proiettato nelle scuole. 

È liberamente ispirato a quello di Collodi ed è diverso in tutto – ovviamente – da quello di Comencini. 

A dire il vero ho sempre pensato che nessun Pinocchio sarebbe potuto essere affascinante e commovente come quello, ma mi sono dovuta ricredere. 

Del Toro c’ha messo 15 anni per realizzarlo, con una squadra di 100 professionisti al suo servizio. 

Tra disegnatori, scultori, pittori, ingegneri hanno dato vita ad un film di animazione ma con la tecnica dello Stop motion, ossia un fotogramma alla volta. 

Una cosa pazzesca! 

Ho trovato la storia originale e molto ben raccontata.

I pupazzi animati hanno delle caratteristiche accentuate a tal punto da esprimere appieno il senso dei personaggi. Bellezza, bruttezza, cattiveria, bontà, amore e odio, sono espressi in maniera empatica e coinvolgente. 

La scelta di calare la storia nel periodo storico del fascismo, dei bambini reclutati, di un Mussolini che nella pellicola viene “minimizzato” e miniaturizzato, ha creato l’atmosfera giusta per enfatizzare ancor più i temi trattati: l’identità, l’importanza della famiglia, il contrasto tra bene e male, la solidarietà, il rispetto, la generosità, il valore della coscienza, la disubbidienza che diventa ribellione verso ingiustizie e soprusi.

Le musiche originali, cantate e “ballate” dai protagonisti sono una cornice perfetta al prodotto. 

La scelta di un Geppetto pieno di dolore che ritrova la voglia di vivere, un grillo parlante che riesce nell’impresa di rendere Pinocchio buono, ma che alla fine con generosità rinuncia alla sua richiesta, un mangiafuoco orrendo e subdolo, un lucignolo che prende coraggio e si ribella al suo personalissimo regime, una scimmia che da “spazzatura” diventa una piccola eroina, e un burattino che non diventa mai bambino, che resta un burattino ma solo nelle fattezze, perché sa vivere come un bambino affamato di vita, e farà i conti con un suggestivo aldilà e una vita che verrà senza mai perdere il filo di tutto: l‘amore.

E su tutto la morte, il suo significato, il dolore che arreca, la rinascita (sotto varie forme), l’accettazione della vita come tempo che alla fine scade, e porta con se un finale, che a volte è solo il senso di un circolo infinito e perpetuo, che quando si inceppa, diventa la vita di ognuno.

Del Toro con questo film ha dimostrato come si possa fare un Pinocchio senza fatina, ma con una creatura che nel regno dei morti regola le vite del burattino, che ogni volta che torna sulla terra ne acquisisce consapevolezza, fino alla scelta finale.
Ha dimostrato anche come si può essere piccoli ma coraggiosi, che si possono sfidare gli stigmi sociali, gli stereotipi, le convenzioni.

C’è la balena nel Pinocchio di Del Toro. Una creatura che si mimetizza con l’ambiente, proprio come alcune trappole del vivere, quando si viene “inghiottiti” e si pensa di non avere più scampo.

Ma Pinocchio trova scampo da tante vicissitudini, vivrà come un bambino, imparerà anche gli addii e camminerà per il mondo, ed il suo finale sarà imprevedibile … proprio come la vita di ognuno, come la vita fuori dai film.

I doppiatori italiani superaltivi, come sempre.

E poi quel senso distintivo di Guillermo Del Toro: sempre in bilico tra favola e realtà, tra forma e sostanza, tra il poetico e il visionario.

Il film consigliatissimo, lo trovate su Netlix.

La solidarietà resta il mezzo per sentirsi parte pulsante di un mondo che ha bisogno urgente di aiuto, di sostegno, di un abbraccio, di un sentimento che non ha bisogno di tante parole ma semplicemente di un gesto, una mano tesa verso gli ultimi, verso i più bisognosi.

Ed è con questo spirito che lo scorso 13 dicembre si è tenuto a Cassano alla Ionio, presso il teatrino del seminario, messo a disposizione dalla diocesi, l’evento “Il giocattolo sospeso, un sorriso per i bimbi“. La manifestazione sostenuta e promossa dall’Associazione Artisti Eccellenze Calabria guidata da Anna Maria Schifino, e poi da commercianti, dal vescovo  Mons. Savino e da cittadini, ha commosso per l’intensità e per la gioia che hanno instillato in tanti bambini che hanno ricevuto un dono, e non c’è niente di più emozionante di un bambino che stringe tra le mani un pacchetto tutto per sé. Bambini di diversa nazionalità, uniti dalla gioia di quel gesto, tutti uguali e uniti nella condivisione di una serata che alle porte del Natale si è trasformata in pura magia.
Anche Katia Di Leone, pittrice, attrice, scrittrice cosentina, un’artista a tutto tondo, capace di una generosità disarmante, ha donato con cuore sincero 60 cappellini, che lei stessa ha realizzato rigorosamente a mano, lavorando per diverse notti, sapendo bene quanto importante e madido di significato potesse essere il suo gesto, pieno di amore.

E se è vero che Amore deriva da A – mors ossia “tutto ciò che non muore”, allora questo evento, questo “donare” in un pomeriggio di dicembre, non può che essere il simbolo di come la bellezza umana altro non è che una mano tesa, un gesto umile da cuore a cuore, affinché il senso della vita si fermi proprio lì, in un sorriso, in un giocattolo sospeso, in un dono dal valore inestimabile.

 

 

 

Il 20 Novembre 2022 alle ore 19 presso la Sala Accademica del Conservatorio di Musica Santa Cecilia è di scena CORPI ACUSTICI, uno spettacolo di teatro, musica e danza nato dal laboratorio teatrale che da Settembre ha coinvolto un gruppo integrato di persone con e senza disabilità, uniti da un unico comune denominatore, l’espressione artistica: musica, parola, danza.

Uno spettacolo corale, dove ogni gesto e parola racconta l’essenza di ogni partecipante e del gruppo che ha lavorato insieme. Anche le musiche nascono dalla ricerca musicale condotta dagli allievi musicisti con i Maestri del Conservatorio Santa Cecilia, adattando e riscrivendo brani dal loro repertorio classico e jazz finalizzati allo spettacolo.

Un gruppo di 27 elementi, ognuno col suo strumento, la sua voce. Corpi che vogliono farsi sentire, acustici. Un silenzio. Un violino e tutti intorno a cercare il motivo del silenzio. E la sua voce, nascosta in un angolo remoto del respiro, tornerà a cantare.

Dalla presa di coscienza dell’incomunicabilità e delle barriere che si alzano nella vita quotidiana, che segnano spesso silenzi assordanti, lo spettacolo conduce lo spettatore alla consapevolezza che insieme queste differenze possono essere superate. Proprio il fuoco artistico, al di là di ogni differenza, lacera quei silenzi, li riempie di musica e bellezza superando ogni barriera.

Sullo sfondo, le scenografie digitali fanno da contrappunto alle parole e alle musiche in scena, valorizzando la splendida cornice della Sala Accademica del Conservatorio Santa Cecilia.

Lo spettacolo è accompagnato dalla mostra fotografica a cura di Fotografi senza Frontiere, che ne racconta il percorso laboratoriale.

 

Corpi acustici è anche un progetto complessivo che ha coinvolto allievi del Conservatorio Santa Cecilia con e senza disabilità in percorsi strumentali, di musica d’insieme e Ritmica Dalcroze, partecipanti interni ed esterni al Conservatorio nel laboratorio teatrale, con la realizzazione dello spettacolo teatrale, della mostra fotografica e di un video di backstage.

 

CORPI ACUSTICI è un progetto realizzato da Fuori Contesto, in collaborazione con il Conservatorio di Musica Santa Cecilia e Hubstract-Made for Art.

CORPI ACUSTICI è vincitore dell’avviso pubblico Comunità solidali 2020, finanziato dalla Regione Lazio con risorse statali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

 

Per informazioni e prenotazioni:  info@fuoricontesto.it, 3291554787