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«Nonostante l’eccezionalità della situazione generata dal diffondersi del Covid 19, le Autorità nazionali e il Governo della Regione hanno prontamente adottato i rimedi legislativi necessari a gestire l’emergenza epidemiologica, limitando il ricorso a provvedimenti amministrativi derogatori in ragione di emergenze non codificate o che coinvolgono, per dimensioni, intere Comunità. Malgrado il quadro appena delineato, è prassi invalsa che alcune realtà comunali ricorrano all’adozione di ordinanze contingibili e urgenti per imporre misure di contenimento del contagio maggiormente restrittive rispetto a quelle individuate nei vari atti normativi emanati, come ad esempio la chiusura, in tutto o in parte, degli Istituti scolastici e dei nidi comunali».

Lo scrivono gli assessori regionali all’Istruzione Roberto Lagalla, alla Salute Ruggero Razza e alle Politiche sociali Antonio Scavone in una lettera congiunta inviata ai sindaci dei Comuni siciliani.

Nel documento, gli esponenti del governo Musumeci richiamando «la necessità di uno stabile coordinamento inter-istituzionale, anche in ossequio al principio di leale collaborazione che deve caratterizzare l’agere amministrativo» sottolineano il «necessario coordinamento delle azioni a tutela della salute pubblica di concerto con le Autorità sanitarie competenti, le quali ben potrebbero circoscrivere il fenomeno del contagio attraverso l’adozione delle misure previste dai protocolli sanitari consentendo, dunque, la prosecuzione dell’attività scolastica».

In particolare, gli assessori regionali invitano i sindaci «a comunicare alle Autorità sanitarie eventuali criticità che si dovessero rappresentare presso gli Istituti scolastici, di ogni ordine e grado, che insistono sul territorio comunale, astenendosi dall’emanare ordinanze contingibili e urgenti le quali, adottate senza il necessario conforto dei Dipartimenti di prevenzione competenti, si appalesano per la apoditticità delle decisioni ivi assunte». La lettera, diramata poco fa, richiama il decreto legge 19 del 25 marzo 2020, con l’introduzione dell’articolo 3, con il quale «il Governo nazionale ha inteso limitare il potere riconosciuto ai Sindaci di ricorrere allo strumento delle ordinanze contingibili e urgenti per far fronte all’emergenza con misure divergenti da quelle legislativamente imposte». Nel documento, infine, si invitano le Asp a fornire ogni supporto ai sindaci.

Le immagini fin troppo esaustive, sono di questa mattina e si riferiscono all’ Hotspot di Lampedusa di contrada Imbriacola, dove risiedono attualmente 1200 migranti a causa dei 26 sbarchi che sono avvenuti ieri in sole 24 ore. 
Tutte le porte del punto caldo di frontiera sono spalancate: entra ed esce chiunque, siano essi migranti o altre persone la cui zona dovrebbe essere off limites.
Entra ed esce chiunque dunque, senza alcun controllo.
I cancelli dell’hotspot sono letteralmente incustoditi in barba a qualsiasi regola e alle norme di sicurezza e di sicurezza sanitaria, che invece dovrebbero essere osservate in maniera altamente scrupolosa.
Dal video si può constatare come i migranti siano completamente liberi di girare come se fossero in un mercato della qasba di Hammamet.
L’intera isola di lampedusa questa mattina era attraversata da centinaia di migranti a spasso senza alcun controllo.

Ogni altra parola ci sembra superflua.

Guarda il video

 

Fu un vile e barbaro omicidio mafioso. 

La “stidda” agrigentina fu spietata verso il giudice Rosario Livatino, che quel 21 settembre di trent’anni fa aveva solo 38 anni, percorreva la  SS 640 Agrigento-Caltanissetta a bordo della sua Ford Fiesta. Provò a mettersi in salvo a piedi, scappando dalla sua auto e dal commando omicida, ma trovò poi la morte dopo pochi passi. Si dirigeva senza scorta, in tribunale, per fare il suo lavoro con competenza, abnegazione e coraggio. Si dirigeva in tribunale per celebrare un processo a carico di alcuni mafiosi di Palma di Montechiaro.

La stidda, la  derivazione di ribelli della classica mafia siciliana. Di solito ne fanno parte coloro che per un motivo qualsiasi vengono allontanati da “cosa nostra“. Ma non per questo sono elementi meno pericolosi, visto che gli scopi societari sono sempre stati quelli: controllo del territorio con metodi mafiosi e delle attività illecite in Sicilia (in particolare della zona di Agrigento e Caltanissetta).

I giudice Livatino – mai ricordato abbastanza rispetto ai suoi colleghi siciliani – fu il magistrato che per primo immaginò il colpo alla mafia con lo strumento della confisca dei beni. La sua “tangentopoli siciliana” si nutrì di indagini complesse sulle organizzazioni criminali di stampo mafioso nonché su eclatanti episodi di corruzione.

Dall’agenda di Rosario Livatino, con data 18 luglio 1978, leggiamo: “Oggi ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige“.

Per onorare la figura di Livatino e per comprenderne a pieno  l’eredità che ci ha lasciato, e che anche noi giornalisti dovremmo fare in modo che non vada perduta, ho pensato di raccontare un po’ quella sua eredità, contenuta in alcune conferenze che il magistrato fece spiegando dettagliatamente quale fosse la responsabilità di chi deve difendere la giustizia e la verità.

Il giovane ma capace Livatino raccontava come il magistrato non dovrebbe essere una realtà sul cui mutamento ci si debba interrogare:egli è un semplice riflesso della legge che è chiamato ad applicare  – diceva –  Se questa cambia, anch’egli dovrebbe cambiare; se questa rimane immutata, anch’egli dovrebbe mantenersi uguale a se stesso, quali che siano le metamorfosi della società che lo avvolge”.

Spiegava nella conferenza del 7  aprile del 1984 presso il Rotary Club di Canicattì che l’indipendenza del giudice, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della vita condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza.

Per Rosario Livatino “l’indipendenza del giudice è nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività”.

E questo vale anche per chi come noi lavora nella verità della notizia e con la credibilità di un’attività che è travagliata e difficile.

Il giudice e il servizio da lui reso devono far parte di un processo di adeguamento e non sfugge al cammino della storia. E non solo ai giudici si può chiedere quell’adeguamento, in una società in cui è assai complessa la difesa dei bisogni, degli interessi e dei diritti di tutti.

«Nelle società primitive e, comunque, semplici, tutto era relativamente chiaro in termini di “cosa era giusto e cosa era ingiusto” e tutto era facile, relativamente, in termini di accesso a chi amministrava giustizia (il capo tribù, il capo villaggio, il capo religioso); oggi, nelle società a crescente complessità e soggettività, come sono tutte le società occidentali mature, è sempre più difficile sapere e far accettare i concetti di giusto ed ingiusto ed è sempre più difficile individuare e rendere più accessibili gli strumenti per ottenere giusta protezione»

E’ chiaro come in questa prospettiva, riformare la giustizia, in senso soggettivo ed oggettivo, è compito non solo di pochi magistrati, come Rosario Livatino che sono morti per difendere la propria missione,  ma di tutti i magistrati, dei giornalisti, dello Stato tutto, della collettività e della stessa opinione pubblica. Livatino sapeva che il giudizio critico, il rispetto della cosa pubblica e la il disprezzo verso ciò che è privilegio, costituisce la chiave della giustizia, perché la convivenza in una democrazia moderna, non può essere compito di una minoranza.

E che queste sue parole possano rimbombare nel  nostro domani, affinché le nostre azioni abbiamo sempre un significato, siano lucide e responsabili:

«Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma quanto le nostre azioni siano state credibili.»

 

Simona Stammelluti 

Sono innamorati e felici. Felici anche di sposarsi in Sicilia.
Le nozze saranno celebrate e festeggiate domani 19 settembre a Palermo, e più precisamente a Villa Valguarnera, una location settecentesca a Bagheria dove – come ha specificato Thom Yorke –  è stata disposta una festa che rispetti tutte le norme stabilite per il contrasto al coronavirus, con il distanziamento dei tavoli, il disinfettante a disposizione e le mascherine nei momenti cruciali della festa.
Il cantautore britannico, legato da 4 anni all’attrice siciliana, racconta come ha concepito queste nozze: “In questi tempi strani speriamo che il nostro matrimonio possa essere una piccola celebrazione, con i nostri amici e la famiglia, della cultura siciliana e del suo modo di vivere”. 

Saranno circa 120 gli invitati, compresi i componenti del gruppo musicale “Radiohead”, alcuni divi del mondo del cinema italiano, e a celebrare le nozze sarà Claudio Bocca, un sacerdote toscano di fede anglicana. I fiori arriveranno da un vivaio di Bagheria e su scelta degli sposi, non ci sarà una pista da ballo.

La scelta di festeggiare le nozze sull’isola sono quasi scontate. Lì, a Monreale è nata e vissuta Dajana Roncione, lì si sono conosciuti nel 2016, durante un concerto. Divenuto il cocco dei suoi suoceri, il cantautore inglese in Sicilia ha trascorso tanto tempo e dunque qui, si sente come a casa.

Thom Yorke è alle sue seconde nozze. Era stato già sposato con Rachel Owen, morta a 48 anni per un brutto tumore e dalla quale aveva avuto due figli.

Dobbiamo ringraziare la Lucky Red che ha deciso di distribuire un film fino ad ora inedito, datato 2009, nelle sale in questi giorni, candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero e premiato al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard.

Il film (imperdibile) è Dogtooth di quel genio di Yorgos Lanthimos.

Non avevo così paura al cinema dai tempi di L’esorcista, o Shining; insomma … una vita fa.

Dogtooth è un film che fa paura, che inquieta, che ti divora, a tratti ti imbarazza, e per tutta la durata ti trascina dentro la storia e poi ti fa riflettere.

Ci sono momenti in cui “non vuoi vedere” e invece malgrado non vorresti, guardi … impaurito da quel che scorre sul grande schermo, ma guardi.

Si apre poco alla volta, fino a divenire una voragine e lì dentro ci finisci, mentre diventi parte di una famiglia che non solo non ha nulla di normale, ma neanche di morale, e che rappresenta l’emblema di una vera e propria dittatura.

Il regista gioca con il comportamento umano, realizza un vero e proprio esperimento sociologico, mentre racconta magistralmente non solo la storia di una prigionia ma soprattutto di una forma subdola  di soggiogamento che lascia senza parole, che crea ansia e svilisce.

Un film senza colonna sonora.

Non serve, sarebbe controproducente. Lo spettatore non deve avere distrazioni, non deve essere condotto da nessun’altra parte se non dentro quella casa, dove ci si inventa un ruolo e si vincono adesivi come premio se si è i più bravi. Ma a fare cosa?

Geniale l’idea del film che reca come titolo “canino” inteso come quel dente che non cade mai, e che semmai per un motivo fortuito dovesse cadere, non ricrescerà.

Ma i 3 ragazzi personaggi del film – senza nome e dunque privi di identità – questo non lo sanno, e vivono tutta la loro esistenza dentro una casa senza mai uscire, imparando solo come interagire tra di loro in quella che per loro -e solo per loro -rappresenta una “normalità”, e senza mai conoscere il significato reale delle parole che costituirebbero una via di fuga e un contatto con il mondo esterno, che non hanno mai visto.

Un equilibrio assurdo e surreale dentro una costrizione emotiva oltre che fisica, che si incrina con l’arrivo in casa di una donna pagata dal padre padrone per soddisfare i bisogni sessuali del figlio maschio.

Il regista sceglie in molte scene di tagliare fuori le teste dei personaggi dalle inquadrature, sottolineando come la mente pensante, il giudizio critico e la coscienza di ciò che si rappresenta nel mondo, non ha fattezze, in quella condizione di vita.

La fotografia è perfetta per l’epoca in cui si svolgono i fatti anche se a tratti sembra quasi assumere i colori del cinema 8 mm.

Un film che scava nel tema sociale della inferiorità della donna rispetto all’uomo, e poi ancora l’incesto, la follia di chi inventa un nemico (innocuo) affinché nessuno si ribelli all’ordine costituito agli ordini imposti … cose da regime, insomma.

È tutto sempre in luce, ma c’è buio dappertutto.

Nel film ci sono innumerevoli riferimenti ad altre pellicole e i cinefili non faranno fatica a identificarli.

C’è un tentativo di riscatto, così come dovrebbe avvenire in ogni società che una volta annientata rialza la testa e si incammina. Ma a volte per salvarti devi conoscere che forma ha la libertà.

Una provocazione molto ben risuscita, in bilico tra una realtà alterata e fuori dal tempo e quella metafora che rende tutto credibile.

Simona Stammelluti

C’è una parte di noi che è in agonia.
E’ la parte che ha smarrito ogni forma di tolleranza.
Siamo divenuti intolleranti verso tutto ciò che non si uniforma al pensiero comune, a quella pseudo normalità che ha sembianze sempre più misere, grette, prive di pathos e carità.

Sembra come se per essere al sicuro in questo mondo così ostile si debba essere bianco, maschio ed etero e in nome di questa assurda formula c’è chi è capace di compiere reati efferati e violenze inaudite.
La parola omolesbobitransfobia è tanto difficile da pronunciare quanto da accettare, almeno per me.
E’ una parola che reca in se l’odio profondo verso ciò che in realtà è frutto di scelte di vita che non nuocciono a nessuno, se non al perbenisimo vile che fa sentire i prepotenti e gli odiatori seriali in diritto di “dare lezioni”, “spaventare”, “annientare”, “togliere di mezzo”, “fare pulizia”, comandando la vita e le scelte altrui, pena la morte.

Le parole pronunciate da trentenne napoletano che ha ucciso sua sorella perché legata ad un uomo trangender sono agghiaccianti e imperdonabili: “mia sorella era stata infettata“.
Da cosa? Chi stabilisce cosa sia una “relazione normale”?
A parte il fatto che nella propria stanza da letto ognuno fa quello che più desidera, la normalità presumibilmente si contempla all’interno di un rapporto psicologicamente e sentimentalmente equilibrato. Nel mondo etero sono innumerevoli i casi di rapporti psicologicamente e sentimentalmente inadeguati che finiscono in tragedia. E in quei reati, in quelle condizioni non vi è nulla di “normale”.
Chi infetta chi?
L’odio infetta.
L’amore no.
E l’amore inteso come sentimento non ha sesso, non ha codici genetici.
E’ necessaria una legge contro l’omolesbobitransfobia ma è anche un problema culturale perché la discriminazioni, gli atti di odio e di intolleranza si nutrono di parole non dette, di domande che restano senza risposta, di inciviltà radicata.
Urge una rieducazione ai sentimenti, al rispetto dell’altro e all’accettazione dei limiti in una società che crea mostri che si nutrono di prepotenza, apparenza, rabbia.
Sbagliamo a chiedere ai nostri ragazzi: “hai la fidanzata? Hai il ragazzo?
Dovremmo chiedere loro se “amano qualcuno”. 
Perché le parole sono importanti, hanno un peso, possono erigere, distruggere, innescare reazioni a catena, istigare. E al contrario se usate con lucidità e coerenza, possono consolare, rendere consapevoli, portare a compimento una condotta che talvolta smarrisce la via maestra, ossia quella dell’amore.
Non riesco a credere che non ci sia un “effetto famiglia” su quello che accade.
L’odio non nasce mai dal nulla, ha prodromi che nessuno a volte vuole vedere.
Nasce dal silenzio, da un mancato amore, da una disattenzione nei rapporti, da una incapacità di guardare e valutare. Che torni l’educazione civica, che si riprendano in mano le regole e le si facciano rispettare, che non si transiga su alcuni atteggiamenti che solo apparentemente possono sembrare innocui.
Quando accadono fatti di cronaca come quelli di questi giorni, esiste una responsabilità collettiva che va considerata, riconosciuta e analizzata. Il rispetto della libertà altrui, delle scelte altrui deve tornare in cima alle priorità di una società che è in agonia e nessuno sembra più intenzionato ad rianimarla.

L’arcobaleno che tanto si usa per “fingersi” schierati verso la libertà, per la difesa delle minoranze dovrebbe splendere in giorni qualunque, mentre teniamo stretto a noi la convinzione che quella tanto difesa famiglia tradizionale, partorisce sempre più spesso una schiera di uomini e donne che disconoscono l’essenza del vivere.

Simona Stammelluti 

 

 

E’ uno stimato avvocato agrigentino, si chiama Valeria Romano ed ha deciso di scendere in campo alle prossime elezioni amministrative nella qualità di consigliere comunale. Si candida con la lista “Uniti per la città” che appoggia il candidato sindaco Franco Miccichè. L’abbiamo incontrata per conoscerla più da vicino.

Perché decidi di scendere in campo?

“Perché non ho nessuna intenzione di guardare passivamente il mio futuro e il futuro dei miei figli, nelle mani di politici incapaci. Sento il bisogno di dare alla mia Città le mie competenze, le mie capacità, le mie idee”.

Sei un avvocato e comprendi che la politica potrebbe rubare molto tempo alla tua attività principale.

“A mio avviso ritengo che non rubo tempo alla mia professione poiché se una persona si dedica alla comunità con dedizione alla fine si è anche appagati nel dare un contributo per una città più vivibile da dare ai nostri giovani”.

Come trovi la città di Agrigento?

“Degradata. Negli ultimi anni la città è diventata sempre più sporca, marciapiedi impraticabili, scalinate diventate “foreste”, mezzi pubblici di trasporto insufficienti. Spazi verdi in condizioni pietose per la mancanza di manutenzione e vigilanza, incuria ed abbandono totale. Scarsa l’offerta culturale e ricreativa rivolta ai bambini o adolescenti”.

Di cosa necessita Agrigento rispetto a tutto ciò che non è stato fatto.

“Di piccole modifiche del vivere quotidiano che portino ad una grande rivoluzione culturale. È necessario che venga data una offerta culturale e formativa rivolta ai più giovani; aiuti alle famiglie meno abbienti; rafforzo dei servizi domiciliari per gli anziani e i malati gravissimi; sviluppo occupazionale giovanile; riqualificazione degli spazi pubblici-sistemazione delle vie cittadine- decoro urbano; lavori pubblici essenziali”.

Il turismo, volano della nostra economia; soluzioni per il rilancio.

“Bisogna far emergere l’immensa potenzialità insita nella nostra Città. Cultura, tradizioni, patrimonio artistico, enogastronomia del territorio agrigentino e delle città limitrofe per creare turismo concreto lungo tutto l’asse della Valle dei Templi. Valorizzazione delle coste e delle località balneari, le quali dovranno essere accessibili anche alle persone diversamente abili; predisposizione di bus navette per collegare il centro storico con la zona balneare; riqualificazione del lungomare”.

Il mondo della scuola nella nostra città.

“Come mamma di due bambine che frequentano la scuola dell’infanzia ho potuto constatare che le scuole agrigentine hanno bisogno urgentemente di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria.

Indispensabili, per la rinascita culturale e civica della nostra città, i servizi educativi ed integrativi offerti delle istituzioni scolastiche, oggi, purtroppo, scarsi e carenti; poche le scuole con luoghi o spazi che presentino le caratteristiche educative, ludiche, culturali e di aggregazione. Inesistenti nel nostro territorio i centri gioco, già previsti in passato, ma mai realizzati. Maggior controllo della qualità del servizio mensa”.

Grazie, in bocca al lupo!!!

 

 

 

 

 

 

Un concerto amabile, sofisticato, appagante; è sembrato quasi finire troppo presto. Mario Venuti conserva negli anni quel fascino e quel carisma che si coniuga perfettamente con quel suo riconoscibile modo di cantare e quel suo fare musica che, nella sera del 10 settembre scorso, non ha avuto bisogno di nulla se non di un pubblico attento, una chitarra, un pianoforte e un cielo pieno di stelle.
Un concerto in acustica, che inizia chitarra e voce, che profuma di bossanova, che ti contagia di entusiasmo e bellezza, come quella che attraversa da sempre i testi delle sue canzoni; testi ricercati e capaci di coniugare amore e attualità, e con i quali si potrebbe riempire un libro di poesie.
Elegante, raffinato, musicalmente colto, incastona il concerto dentro un pizzico di malinconia che rende tutto perfetto.
Un excursus senza fronzoli, dentro una carriera che gli ha concesso di scrivere pezzi indimenticabili, e che giovedì sera ha suonato con l’arte della delicatezza, alla chitarra e poi al piano, mentre l’atmosfera riusciva a coniugarsi con le emozioni di ognuno e i ricordi che facevano capolino ricordandoci che la vita scorre, mentre alcune cose come la bravura ed il talento sanno essere immuni al tempo che passa.
Il cantautore siciliano con generosità ha anche parlato al pubblico di Cetraro Marina, ha racconto piccoli aneddoti e quell’esigenza di sentimenti in un mondo che smarrisce tutto, a volte anche il cuore.
Le sue canzoni sono favole, ma a volte sanno essere anche viaggi verso posti lontani. Canzoni colme di sonorità sudamericane, di echi del mediterraneo, e poi di pathos che ti trascina dove lui vuole, ossia dentro le sue canzoni delle quali si finisce per sentirsi protagonisti.
Da Niña Morena a Caduto dalle Stelle, attraversando Veramente, Ciao Cuore. E poi ancora Un altro posto nel mondo, Tutto questo mare, e il racconto di Crudele a Sanremo.
Ad impreziosire il concerto di Mario Venuti alcuni elementi dell’Orchestra Filarmonica di Calabria che hanno accompagnato il cantautore nell’ultimo pezzo di viaggio.
Il finale proprio lì, dove tutto è iniziato, con quel pezzo che segnò la sua carriera di solita; Fortuna, il suo lasciapassare per un futuro tutto da scrivere e da regalare mentre si innamorava del domani, quel domani che finisce dritto dritto nel suo sorriso e nel suo modo di essere a discapito di qualunque apparire.
Dopo il concerto ho scambiato una chiacchierata con il cantautore. Trovate tutto questo nel servizio.

È bello scoprire che alcune cose sono come te le aspetti, che non deludono e che, al contrario, ti lasciano la consapevolezza che l’arte resta l’unica bellezza che ci salverà.

Simona Stammelluti 

 

La situazione è grave, gravissima.
Ignorarla è follia.
Va considerata e affrontata per quella che è, perché facendo finta che questi non esistano, provando ad ignorarli, si finisce per far passare il messaggio che “ad un metro dal mio culo, ognuno può fare tutto quel che vuole” (anche avere questo genere di voce in capitolo).

Sono il “popolo” contro la dittatura sanitaria e gridano al complotto, non hanno alcuna fonte certa, negano la realtà e difendono la libertà di opinione. Io sinceramente bestemmio ascoltandoli, pensando che il suffragio universale abbia fatto un bel po’ di danni.
Tornano in piazza, a Roma, assembrati e mostrano cartelli contro il distanziamento e le mascherine.
Di questo popolo che protesta fanno parte “le mamme per la libertà”: “speriamo che i bambini stiano a casa (lei dice “stanno a casa”, capite che è troppo chiedere che conoscano un congiuntivo) perché  se devono andare con le mascherine tutti bardati così come voi beh …” – dice alla intervistatrice di La7.
C’è sotto qualcosa di più grosso” – chiosa un’altra di quelle.
Ci vogliono lobotizzare” (anziché eventualmente “lobotomizzare”) – la più scienziata di tutte.
Non ce la si può fare. 
E non ce la si può fare perché ci sono anche i nonni: “Lo faccio per i miei nipoti. Non sono contro i vaccini (ahahahah) ma bisogna liberamente sceglie“, gli audaci: “Sono immunodepressa e non ho mai avuto paura“, i rivoluzionari e i credenti.
Ma l’apoteosi delle idiozie si sono sentiti da quelli di Forza Nuova, anche loro in piazza che si offendono pure ad essere chiamati fascisti.
Roberto Fiore di Forza Nuova dichiara: “siamo vicini agli italiani che sanno benissimo (chi noi? Italiano a chi, oh?!) che bisogna manifestare uscire e lottare per salvare l’Italia da questo momento che è gravissimo” (eh … ne avremmo da dire, vero?)
Allora l’intervistatrice prova ancora, con un’altro soggettone: “non è che c’è un po’ di populismo in questa manifestazione?” (un cicinino proprio!) E lui: “no no no, ne riparleremo nel prossimo lock down (ma quando?) quando due milioni di italiani verranno licenziati (ma dove?) quando le casse integrazioni non verranno più date (ma perché?!) quando i negozi chiuderanno definitivamente (ma chi?)”

Guai a chi li chiama negazionisti. 
Guai! Capito?
Perché c’è la signora che ci fa lezione di chimica e biologia e ci dice di aver letto su Facebook che tenendo su le mascherine “noi mettiamo dentro il nostro corpo candida polmonare” – medici di tutto il mondo unitevi e stracciate le vostre lauree, che c’è lei che vi darà 4 dritte.
Ed ancora quella che ha sentito gli scienziati! Fa due nomi in croce e uno di quelli – udite udite – è lì, sul palco della manifestazione, ed è un medico legale che risponde al nome di Bacco: “Nel vaccino c’è acqua di fogna” (lo dice, vi assicuro che lo dice, al popolo presente).
Poi a tu per tu con l’intervistatrice rincara la dose: “Il virus non è capace di uccidere nessuno (36 mila morti) è stata una strage di stato, al governo ci sono degli assassini (che si preparino le manette) ci dobbiamo infettare, ci infettiamo e ci immunizziamo“.
La situazione è grave perché questo popolo (mandria)  è guidato da soggetti che sono antiscienza, negano contro ogni evidenza, e contagiano gli indecisi. 
Ecco perché non possiamo tacere, ecco perché dobbiamo parlare, mostrare tutti i loro limiti, spiegare a chi è allo sbando ideologico che negare davanti alla realtà è un crimine, è istigazione al danno collettivo.

Quando sostengo che una delle piaghe di questo periodo storico sia proprio la completa assenza di giudizio critico non sbaglio. Dobbiamo assolutamente lavorare sui giovani, nei piccoli gruppi,  dissentire ogni qualvolta ascoltiamo baggianate, insinuando sempre il dubbio circa il sentito dire, coltivando la logica dello studio, del dato certo, della ricerca delle fonti, alla base anche del delicatissimo lavoro del giornalista.

 

Simona Stammelluti 

Quell’11 settembre del 2001, la parola terrorismo era già nota al mondo occidentale.
Il terrorismo cosiddetto “interno” era già stato considerato una piaga virulenta da combattere. Il terrorismo basco, le brigate rosse, o gli attentati all’occidente, “fuori” dall’occidente. Si pensi agli attacchi alle ambasciate di paesi occidentali. Eppure fino a quell’undici settembre di 19 anni fa, quel tipo di attacco terroristico, aveva una incidenza minima sugli equilibri e sugli scenari mondiali.

E mentre i nuovi libri di storia, hanno incominciato a menzionare quella data indimenticabile come il giorno in cui le sorti del mondo occidentale, sono cambiate irrimediabilmente, l’attacco all’occidente “in occidente” da parte del terrorismo islamico, ha aperto una lotta mondiale al combattente islamico che con se porta la strage, una lotta mondiale al sistema terroristico che da quell’11 settembre in poi, l’Occidente lo tiene in pugno, sveglio, vigile, insonne e sempre all’erta.

Quell’occidente che perde la sua “invincibilità“, che non solo non è poi così forte, ma diventa immediatamente vulnerabili, costretto a guardarti le spalle da un Allah nel nome del quale c’è chi si fa saltare all’aria per raggiungere un paradiso inesistente. Il mondo che cambia. Un mondo non più al sicuro. Un mondo viene minato nel suo quotidiano, nel suo essere comunità, nella sua capacità di “continuare”, malgrado tutto, di creare una sorta di “punto zero” dopo ogni paura, dopo ogni orrore, dopo ogni “terrore” che colpisce sempre il simbolo di una nazione, di una comunità, di uno stile di vita. Tutto il mondo occidentale si schiera per la lotta al terrorismo.

Ma in che termini? Pace o guerra?

Un 11 settembre in cui si ricordano le oltre 2947 vittime, i 411 soccorritori morti, quella scena apocalittica nella quale le torri gemelle vengono giù come se fossero di sabbia, un mondo che cambia e che ancora si chiede, come in una roulette russa, a chi toccherà.

Per me l’immagini più nitida dell’undici settembre del 2001 resta quella che ritrae l‘azzeramento di tutti i ceti sociali, razziali e di genere; ricco o povero, nero o giallo, povero o uomo d’affari…solo “sagome” di persone che sotto quella coltre di polvere grigia, rimasero sopravvissuti, in una New York che di megalopoli occidentale non ne aveva più né i connotati né i colori, e poteva essere scambiata per una qualsiasi città del medioriente.

E così nell’era dell’informazione globale ed “immediata” ci siamo resi conto che qualsiasi punto della terra è come se fosse il “dietro l’angolo“, New York come Bagdad, il Bataclan di una Parigi come Nairobi.

Sono passati 19 anni.
Cosa è rimasto di quella tragedia?
Abbiamo maturato una “coscienza” sul perché sono venute giù le torri gemelle, e perché ancora continueremo ad avere paura?
Basterebbe che ciò che è accaduto non ci torni alla memoria solo quando viviamo il fastidio di non poter portare in aereo il nostro shampoo preferito, perché superiore ai 100 ml.

Simona stammelluti